Il pentito Spatuzza rivela: «Berlusconi e Dell’Utri referenti della mafia» / Tra mafia e Stato

dell'utri

«La trattativa con lo Stato durò fino al 2004»
Il senatore del Pdl: «Sono solo assurdità»

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PALERMO (23 ottobre) – La trattativa tra la mafia e lo Stato durò almeno fino al 2003-2004 e i referenti politici della mafia sarebbero stati Berlusconi e Dell’Utri. A sostenerlo è stato il pentito Gaspare Spatuzza le cui dichiarazioni sono state anticipate oggi dal sostituto procuratore generale di Palermo Antonino Gatto nel processo d’appello a carico di Marcello Dell’Utri – senatore del Pdl e uno dei principali collaboratori del premier Silvio Berlusconi – accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Ad informare Spatuzza del dialogo aperto tra pezzi delle istituzioni e mafiosi era stato un boss palermitano di spicco, Giuseppe Graviano, di cui Spatuzza era braccio destro. Il boss riferì in due occasioni dell’esistenza della trattativa al pentito. La prima, dopo la strage di Firenze del ’93, in un colloquio che i due ebbero a Campofelice di Roccella. «Voglio precisare – racconta Spatuzza in verbali depositati oggi al processo d’appello nei confronti del senatore Dell’Utri – che quell’incontro doveva essere finalizzato a programmare un attentato ai carabinieri da fare a Roma. Noi avevamo perplessità perché si trattava di fare morti fuori dalla Sicilia. Graviano per rassicurarci ci disse che da quei morti avremmo tratto tutti benefici, a partire dai carcerati. In quel momento io compresi che c’era una trattativa e lo capii perché Graviano disse a me e a Lo Nigro se noi capivamo qualcosa di politica e ci disse che lui ne capiva».

«Questa affermazione – ha aggiunto – mi fece intendere che c’era una trattativa
che riguardava anche la politica. Da quel momento io dovevo organizzare l’attentato ai carabinieri ed in questo senso mi mossi. Io individuai quale obiettivo lo stadio Olimpico». Il pentito si riferisce al progetto di attentato da fare fuori dallo stadio romano in cui sarebbero morti oltre 100 carabinieri, poi fallito.

Il secondo incontro tra Graviano e Spatuzza, in cui si sarebbe parlato di rapporti tra mafia e politica è del gennaio del ’94. I due si vedono nel bar Doney, in via veneto a Roma. «Graviano – racconta Spatuzza – era molto felice, disse che avevamo ottenuto tutto e che queste persone non erano come quei quattro “cristi” dei socialisti. La persona grazie alla quale avevamo ottenuto tutto era Berlusconi e c’era di mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri». «Io non conoscevo Berlusconi – aggiunge – e chiesi se era quello di Canale 5 e Graviano mi disse sì. Del nostro paesano mi venne fatto solo il cognome, Dell’Utri, non il nome. In sostanza Graviano mi disse che grazie alla serietà di queste persone noi avevamo ottenuto quello che cercavamo. Usò l’espressione “ci siamo messi il Paese nelle mani”».

Dopo l’incontro Spatuzza ebbe il via libera per l’attentato all’Olimpico, che, secondo i pm, avrebbe dovuto riscaldare il clima della trattativa. L’attentato poi fallì e non si riprogrammò perché i Graviano vennero arrestati. La prova che la trattativa sarebbe proseguita fino al 2004 Spatuzza la evince da un colloquio avuto con Filippo Graviano, fratello di Giuseppe, nel 2004. I due ebbero un incontro nel carcere di Tolmezzo, in cui erano detenuti. «Graviano mi disse – spiega – che si stava parlando di dissociazione, ma che noi non eravamo interessati. Nel 2004 ebbi un colloquio investigativo con Vigna, finalizzato alla mia collaborazione che, però, io esclusi. Tornato a Tolmezzo ne parlai con Graviano che mi disse: ‘se non arriva niente da dove deve arrivare è bene che anche noi cominciamo
a parlare con i magistratì». Secondo Spatuzza: «fino al 2003-2004, epoca del colloquio a Tolmezzo con Graviano, era in corso la trattativa. Questo il senso della frase di Graviano».

Il pentito, che collabora con i magistrati dall’estate del 2008, così giustifica il fatto di avere reso queste dichiarazioni solo nei mesi scorsi: «Non ho riferito subito le cose riguardanti Berlusconi perché intendevo prima di tutto che venisse riconosciuta la mia attendibilità su altri argomenti ed anche per ovvie ragioni inerenti la mia sicurezza e per non essere sospettato di speculazioni su questo nome nella fase iniziale, già molto delicata, della mia collaborazione».

Stamani il procuratore generale, che avrebbe dovuto concludere la requisitoria, ha chiesto invece a sorpresa lo stop del dibattimento e la riapertura dell’istruttoria. Il magistrato ieri ha ricevuto infatti dalla procura il verbale dell’interrogatorio di Spatuzza, nel quale ci sono elementi di accusa nuovi a carico dell’imputato. Il pg, che ha ritenuto rilevante e assolutamente necessaria la nuova prova, ha chiesto dunque la sospensione della discussione e l’esame di Spatuzza e dei boss Giuseppe e Filippo Graviano. La corte d’appello di Palermo deciderà il 30 ottobre se sospendere la discussione, ormai giunta alle battute finali.

«È un’assurdità così grossa che non ha bisogno di commenti, è una cosa allucinante», ha commentato Dell’Utri. «Non ho mai visto nella mia vita i fratelli Graviano – ha aggiunto Dell’Utri – e non ci ho mai parlato per telefono, ho già detto nel processo di primo grado con chi ho parlato. Si dice che i Graviano siano coloro che hanno raccomandato i giocatori di calcio tra cui D’Agostino, ma non direttamente attraverso me bensì con un uomo di calcio che io conoscevo perché era il vicepresidente della Juventina, tale Pippo Barone, un commerciante di tessuti di Palermo. Mi chiamò per dirmi che era un “bravo ragazzo, perché non lo fai provare al Milan?”».

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=77719&sez=HOME_INITALIA

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Tra mafia e Stato

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di Lirio Abbate
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Brusca rivela: Riina disse che il nostro referente nella trattativa era il ministro Mancino. Ma dopo l’arresto del padrino, i boss puntarono su Forza Italia e Silvio Berlusconi

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E’ la vigilia di Natale del 1992, Totò Riina è euforico, eccitato, si sente come fosse il padrone del mondo. In una casa alla periferia di Palermo ha radunato i boss più fidati per gli auguri e per comunicare che lo Stato si è fatto avanti. I picciotti sono impressionati per come il capo dei capi sia così felice. Tanto che quando Giovanni Brusca entra in casa, Totò ù curtu, seduto davanti al tavolo della stanza da pranzo, lo accoglie con un grande sorriso e restando sulla sedia gli dice: “Eh! Finalmente si sono fatti sotto”. Riina è tutto contento e tiene stretta in mano una penna: “Ah, ci ho fatto un papello così…” e con le mani indica un foglio di notevoli dimensioni. E aggiunge che in quel pezzo di carta aveva messo, oltre alle richieste sulla legge Gozzini e altri temi di ordine generale, la revisione del maxi processo a Cosa nostra e l’aggiustamento del processo ad alcuni mafiosi fra cui quello a Pippo Calò per la strage del treno 904. Le parole con le quali Riina introduce questo discorso del “papello” Brusca le ricorda così: “Si sono fatti sotto. Ho avuto un messaggio. Viene da Mancino”.

L’uomo che uccise Giovanni Falcone – di cui “L’espresso” anticipa il contenuto dei verbali inediti – sostiene che sarebbe Nicola Mancino, attuale vice presidente del Csm che nel 1992 era ministro dell’Interno, il politico che avrebbe “coperto” inizialmente la trattativa fra mafia e Stato. Il tramite sarebbe stato l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, attraverso l’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. L’ex responsabile del Viminale ha sempre smentito: “Per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell’Interno confermo che nessuno mi parlò di possibili trattative”.

Il contatto politico Riina lo rivela a Natale. Mediata da Bernardo Provenzano attraverso Ciancimino, arriva la risposta al “papello”, le cui richieste iniziali allo Stato erano apparse pretese impossibili anche allo zio Binu. Ora le dichiarazioni inedite di Brusca formano come un capitolo iniziale che viene chiuso dalle rivelazioni recenti del neo pentito Gaspare Spatuzza. Spatuzza indica ai pm di Firenze e Palermo il collegamento fra alcuni boss e Marcello dell’Utri (il senatore del Pdl, condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa), che si sarebbe fatto carico di creare una connessione con Forza Italia e con il suo amico Silvio Berlusconi. Ma nel dicembre ’92 nella casa alla periferia di Palermo, Riina è felice che la trattativa, aperta dopo la morte di Falcone, si fosse mossa perché “Mancino aveva preso questa posizione”. E quella è la prima e l’ultima volta nella quale Brusca ha sentito pronunziare il nome di Mancino da Riina. Altri non lo hanno mai indicato, anche se Brusca è sicuro che ne fossero a conoscenza anche alcuni boss, come Salvatore Biondino (detenuto dal giorno dell’arresto di Riina), il latitante Matteo Messina Denaro, il mafioso trapanese Vincenzo Sinacori, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella.

Le risposte a quelle pretese tardavano però ad arrivare. Il pentito ricorda che nei primi di gennaio 1993 il capo di Cosa nostra era preoccupato. Non temeva di essere ucciso, ma di finire in carcere. Il nervosismo lo si notava in tutte le riunioni, tanto da fargli deliberare altri omicidi “facili facili”, come l’uccisione di magistrati senza tutela. Un modo per riscaldare la trattativa. La mattina del 15 gennaio 1993, mentre Riina e Biondino si stanno recando alla riunione durante la quale Totò ù curtu avrebbe voluto informare i suoi fedelissimi di ulteriori retroscena sui contatti con gli uomini delle istituzioni, il capo dei capi viene arrestato dai carabinieri.

Brusca è convinto che in quell’incontro il padrino avrebbe messo a nudo i suoi segreti, per condividerli con gli altri nell’eventualità che a lui fosse accaduto qualcosa. Il nome dell’allora ministro era stato riferito a Riina attraverso Ciancimino. E qui Brusca sottolinea che il problema da porsi – e che lui stesso si era posto fin da quando aveva appreso la vicenda del “papello” – è se a Riina fosse stata o meno riferita la verità: “Se le cose stanno così nessun problema per Ciancimino; se invece Ciancimino ha fatto qualche millanteria, ovvero ha “bluffato” con Riina e questi se ne è reso conto, l’ex sindaco allora si è messo in una situazione di grave pericolo che può estendersi anche ai suoi familiari e che può durare a tempo indeterminato”. In quel periodo c’erano strani movimenti e Brusca apprende che Mancino sta blindando la sua casa romana con porte e finestre antiproiettile: “Ma perché mai si sta blindando, che motivo ha?”. “Non hai nulla da temere perché hai stabilito con noi un accordo”, commenta Brusca come in un dialogo a distanza con Mancino: “O se hai da temere ti spaventi perché hai tradito, hai bluffato o hai fatto qualche altra cosa”.

Brusca, però, non ha dubbi sul fatto che l’ex sindaco abbia riportato ciò che gli era stato detto sul politico. Tanto che avrebbe avuto dei riscontri sul nome di Mancino. In particolare uno. Nell’incontro di Natale ’92 Biondino prese una cartelletta di plastica che conteneva un verbale di interrogatorio di Gaspare Mutolo, un mafioso pentito. E commentò quasi ironicamente le sue dichiarazioni: “Ma guarda un po’: quando un bugiardo dice la verità non gli credono”. La frase aveva questo significato: Mutolo aveva detto in passato delle sciocchezze ma aveva anche parlato di Mancino, con particolare riferimento a un incontro di quest’ultimo con Borsellino, in seguito al quale il magistrato aveva manifestato uno stato di tensione, tanto da fumare contemporaneamente due sigarette. Per Biondino sulla circostanza che riguardava Mancino, Mutolo non aveva detto il falso. Ma l’ex ministro oggi dichiara di non ricordare l’incontro al Viminale con Borsellino.

Questi retroscena Brusca li racconta per la prima volta al pm fiorentino Gabriele Chelazzi che indagava sui mandanti occulti delle stragi. Adesso riscontrerebbero le affermazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, che collabora con i magistrati di Palermo e Caltanissetta svelando retroscena sul negoziato mafia- Stato. Un patto scellerato che avrebbe avuto inizio nel giugno ’92, dopo la strage di Capaci, aperto dagli incontri fra il capitano De Donno e Ciancimino. E in questo mercanteggiare, secondo Brusca, Riina avrebbe ucciso Borsellino “per un suo capriccio”. Solo per riscaldare la trattativa.

Le rivelazioni
del collaboratore di giustizia si spingono fino alle bombe di Roma, Milano e Firenze. Iniziano con l’attentato a Maurizio Costanzo il 14 maggio ’93 e hanno termine a distanza di 11 mesi con l’ordigno contro il pentito Totuccio Contorno. Il tritolo di quegli anni sembra non aver portato nulla di concreto per Cosa nostra. Brusca ricorda che dopo l’arresto di Riina parla con il latitante Matteo Messina Denaro e con il boss Giuseppe Graviano. Chiede se ci sono novità sullo stato della trattativa, ma entrambi dicono: “Siamo a mare”, per indicare che non hanno nulla. E da qui che Brusca, Graviano e Bagarella iniziano a percorrere nuove strade per riattivare i contatti istituzionali.

I corleonesi volevano
dare una lezione ai carabinieri sospettati (il colonnello Mori e il capitano De Donno) di aver “fatto il bidone”. E forse per questo motivo che il 31 ottobre 1993 tentano di uccidere un plotone intero di carabinieri che lasciava lo stadio Olimpico a bordo di un pullman. L’attentato fallisce, come ha spiegato il neo pentito Gaspare Spatuzza, perché il telecomando dei detonatori non funziona. Il piano di morte viene accantonato.

In questa fase si possono inserire le nuove confessioni fatte pochi mesi fa ai pubblici ministeri di Firenze e Palermo dall’ex sicario palermitano Spatuzza. Il neo pentito rivela un nuovo intreccio politico che alcuni boss avviano alla fine del ’93. Giuseppe Graviano, secondo Spatuzza, avrebbe allacciato contatti con Marcello Dell’Utri. Ai magistrati Spatuzza dice che la stagione delle bombe non ha portato a nulla di buono per Cosa nostra, tranne il fatto che “venne agganciato “, nella metà degli anni Novanta “il nuovo referente politico: Forza Italia e quindi Silvio Berlusconi”.

Il tentativo di allacciare un contatto con il Cavaliere dopo le stragi era stato fatto anche da Brusca e Bagarella. Rivela Brusca: “Parlando con Leoluca Bagarella quando cercavamo di mandare segnali a Silvio Berlusconi che si accingeva a diventare presidente del Consiglio nel ’94, gli mandammo a dire “Guardi che la sinistra o i servizi segreti sanno”, non so se rendo l’idea…”. Spiega sempre il pentito: “Cioè sanno quanto era successo già nel ’92-93, le stragi di Borsellino e Falcone, il proiettile di artiglieria fatto trovare al Giardino di Boboli a Firenze, e gli attentati del ’93”. I mafiosi intendevano mandare un messaggio al “nuovo ceto politico “, facendo capire che “Cosa nostra voleva continuare a trattare”.

Perché era stata scelta Forza Italia? Perché “c’erano pezzi delle vecchie “democrazie cristiane”, del Partito socialista, erano tutti pezzi politici un po’ conservatori cioè sempre contro la sinistra per mentalità nostra. Quindi volevamo dare un’arma ai nuovi “presunti alleati politici”, per poi noi trarne un vantaggio, un beneficio”.

Le due procure stanno già valutando queste dichiarazioni per decidere se riaprire o meno il procedimento contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, archiviato nel 1998. Adesso ci sono nuovi verbali che potrebbero rimettere tutto in discussione e riscrivere la storia recente del nostro Paese.

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ESCLUSIVO DEL L’ESPRESSO

Stato-mafia, ecco il papello

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di Lirio Abbate
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Ecco il primo documento sulla trattativa tra le istituzioni e Cosa nostra nell’estate delle stragi. Fogli  consegnati ai magistrati dal figlio di Vito Ciancimino

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GUARDA Le immagini del ‘papello’
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Sono 12 le richieste che i boss di Cosa nostra avanzarono agli uomini delle istituzioni nell’estate del 1992, fra le stragi Falcone e Borsellino. Una trattativa che i mafiosi corleonesi avanzarono con lo Stato per fermare le bombe e la stagione stragista, e arrivare ad una tregua. I 12 punti formano il ‘papello’, cioè l’elenco delle richieste scritte su un foglio formato A4 che adesso Massimo Ciancimino ha consegnato ai magistrati della procura della Repubblica di Palermo che indagano sulla trattativa fra Stato e mafia. Ma accanto a questo elenco spunta a sorpresa un altro ‘papello’ con le proposte e le modifiche ai 12 punti pretesi dai corleonesi che don Vito Ciancimino avrebbe scritto di proprio pugno e consegnato all’allora colonnello del Ros, Mario Mori. Il fatto, inedito, è documentato dal L’espresso con alcune foto dei fogli in cui si leggono al primo punto i nomi di Mancino e Rognoni; poi segue l’abolizione del 416 bis (il reato di associazione mafiosa); “Strasburgo maxi processo” (l’idea di Ciancimino era quella di far intervenire la corte dei diritti europei per dare diverso esito al più grande procedimento contro i vertici di Cosa nostra); “Sud partito”; e infine “riforma della giustizia all’americana, sistema elettivo…”.
Su questo “papello” scritto da Vito Ciancimino era incollato un post-it di colore giallo sul quale il vecchio ex sindaco mafioso di Palermo aveva scritto: “consegnato al colonnello dei carabinieri Mori dei Ros”. Per gli inquirenti il messaggio è esplicito e confermerebbe il fatto che ci sarebbe stato una trattativa fra i mafiosi e gli uomini delle istituzioni.

Mostrare ai giudici l’esistenza del ‘papello’, rappresenta per i pm una prova tangibile che la trattativa fra mafia e Stato non solo è esistita, ma è anche iniziata nel periodo fra l’attentato di Capaci e quello di via d’Amelio. Per gli inquirenti questo documento, consegnato dal dichiarante Massimo Ciancimino, che collabora con diverse procure, può dare il via a nuove indagini. Con l’obiettivo di scoprire fino a che punto può essere arrivato il tentativo di trattativa rivelato dal figlio dell’ex sindaco mafioso.
I 12 punti richiesti da Riina e Provenzano, che sono anche questi al vaglio dei magistrati, si aprono, invece, con la revisione del maxi processo a Cosa nostra. Gli altri spaziano dall’abolizione del carcere duro previsto dal 41 bis agli arresti domiciliari per gli imputati di mafia che hanno compiuto 70 anni. La lista si conclude domandando la defiscalizzazione della benzina per gli abitanti della regione siciliana.

(15 ottobre 2009)

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SATIRA PREVENTIVA Quel pizzino sapeva di pecorino di Michele Serra

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fonte:  http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tra-mafia-e-stato/2112777&ref=hpsp

3 risposte a “Il pentito Spatuzza rivela: «Berlusconi e Dell’Utri referenti della mafia» / Tra mafia e Stato”

  1. francesco massaro dice :

    spero che la grande gente di sicilia inizi ad incazzarsi,scendere in piazza,andare dove inizieranno i lavori per lo stretto di messina…..tutti soldi per la mafia….quei soldi sono per voi, la grande e buona gente di sicilia…..siamo molto vicini siciliani,una volta per tutti tagliate la testa al vero mostro mafioso,la politica…..riscattate al mondo la vostra splendida isola….Forza Sicilia,chiudete il rubinetto al vero boss mafioso, Silvio Berlusconi

  2. luigi dice :

    c’è poco da dire e tutto scritto.
    Forse don Gigi il confessore degli ergastolani saprà la verità, ma don Gigi affida il compito alla Madonna perchè lei è la Madre e lei avrà questo difficile compito.
    La Madonna ci invia molti messaggi ciò significa che lei è sempre presente e ci difende dal male.
    La salvezza sono i suoi messaggi.
    Don Gigino.

  3. luigi D'Agostino dice :

    La parola è un vuoto portatore,va riempita per parlare,la parola taciuta è come un sasso nella calzatura non è una semplice sventura non è disattenzione, lascia la vita, la parola vien perduta.
    La parola-Perdono è scritta sul biglietto suicida, la parola timone è plutone,la parola spada ti fa perdere fiducia prima di gettarti sulla strada. La parola più che il bastone teso o la mano ti solleva e ti fa sentire umano. La parola è una grande concessione del divino per trovare con Lui una concessione. La parola c’è se la piglia. La Parola crea una sola: reoma,maore,orema, AMORE.

    Queste poche righe suscitano una tempesta di domante: La prima suor Lucia ha dovuto vivere gli ultimi 45 anni della sua vita in una condizione che, nel mondo civile, non s’impone a nessuno, nemmeno ai più pericolosi reclusi.
    Suor Lucia o Suor Maria Margherita Monaco ha voluto incontrarmi è dopo avermi incontrato le sue prime parole ” Finalmente sei arrivato ”
    Suor Lucia era ad Eboli.
    Don Gigi

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