L’America di Bush sempre più povera: 28 milioni di tagliandi cibo
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31 marzo 2008
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Una combinazione infernale di disoccupazione e aumento dei prezzi dei generi alimentari e della benzina ha fatto sì che un numero record di americani debba ricorrere ai ‘food stamps’, i tagliandi alimentari emessi dal governo, per sopravvivere.
Secondo nuove statistiche, il numero di americani che fanno la spesa pagando con i ‘bollini cibo’ raggiungerà nel prossimo anno fiscale i 28 milioni, un primato assoluto da quando il programma di assistenza venne messo in piedi negli anni Sessanta.
Il numero dei beneficiari dei bollini, che devono dimostrare di avere un reddito ai limiti della povertà per ottenere assegni pari a cento dollari al mese per familiare, varia di anno in anno per cause legate a diversi fattori: stavolta gli addetti ai lavori hanno attribuito l’aumento al rallentamento dell’economia e all’inflazione dei prezzi di molti generi di consumo.
«La gente si iscrive al programma quando perde il lavoro o quando gli stipendi scendono perchè l’orario di lavoro viene ridimensionato», ha detto al New York Times Stacy Dean, direttore del programma ‘food stamps’ al Center on Budget and Policy Priorities di Washington che ha osservato come lo scorso dicembre i ranghi delle liste avevano raggiunto livelli record in 14 stati.
Un esempio è il Michigan, stato industriale della ‘cintura della ruggine’ pesantemente colpito dalla crisi dell’occupazione: un abitante su otto fa la spesa con i bollini, il doppio rispetto al 2000. Ma altri stati fuori dall’area delle fabbriche storiche hanno registrato un’impennata delle sovvenzioni: in Arizona, Florida, Maryland, Nevada, Nord Dakota e Rhode Island la crescita è stata del dieci per cento in un anno.
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Tent city (Los Angeles) – foto Reuters
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Trentamila donne perdono il posto di lavoro ogni anno in Gran Bretagna. Licenziate solo perchè sono incinte o perchè hanno avuto un figlio.
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E’ il dato più impressionante di un rapporto sulla condizione della donna nel mondo del lavoro nel Regno unito, preparato dalla Fawcett Society, organizzazione che si batte per l’uguaglianza dei sessi. Intitolato << Sexism and the City >>, con allusione al titolo della serie televisiva, lo studio descrive una diffusa discriminazione sessuale nei confronti delle donne in ogni settore del Paese, dalla politica all’industria alla finanza. Il 18% delle cause per discriminazione sessuale vertono su abusi o violenza sessuale. I due terzi dei lavoratori peggio pagati del regno sono donne, le donne che lavorano a tempo pieno sono pagate in media il 17% meno degli uomini. Soltanto l’11% dei Dirigenti delle cento maggiori imprese britanniche sono donne. Soltanto il 20% dei Parlamentari sono donne. Soltanto il 26% dei Funzionari del servizio civile sono donne. E poi il dato più clamoroso: 30mila donne licenziate all’anno perchè in gravidanza.
<< La cultura dell’uomo, in Gran Bretagna e particolarmente nella City, è fondata non sulla qualità del lavoro prodotto, ma sulla quantità di ore lavorate, cosicchè le donne, che devono far coesistere lavoro e famiglia, sono sempre discriminate >> afferma il rapporto che sarà presentato ufficialmente domani 1 aprile.
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fonte: http://oknotizie.alice.it/
fonte immagine: operaisociali.noblogs.org/archives/2006/11/
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Due operai morti a Caserta e Teramo
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Michele Sposito De Lucia è caduto da un’impalcatura in Campania
Stessa dinamica in Abruzzo, dove ha perso la vita il romeno Ioann Mariciuck
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Precipitati da un’altezza di 20 metri
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ROMA – Due operai, uno italiano e uno romeno, accomunati dallo stesso tragico destino. Altre due vite spezzate sul posto di lavoro, a Caserta e a Teramo.
Nella città campana un uomo è morto cadendo da un’impalcatura in un cantiere nel centro: Michele Sposito De Lucia, 39 anni, sposato con figli, è deceduto nella sala rianimazione dell’ospedale Sant’Anna e San Sebastiano per le molteplici fratture riportate. L’operaio stava lavorando alla ristrutturazione della facciata di un fabbricato quando è precipitato da un saliscendi a circa venti metri di altezza dal suolo. Dai primi accertamenti pare che a farlo cadere sia stato lo spostamento incidentale di un’asse di legno.
L’altra vittima si chiamava Ioann Mariciuck, 44 anni. Lavorava allo smantellamento di una fabbrica. Anche lui è precipitato da un’altezza di circa venti metri. E’ stato immediatamente portato al pronto soccorso ma vi è arrivato senza vita, per il gravissimo trauma cranico riportato nella caduta. Insieme a due colleghi Mariciuk stava rimuovendo macchinari e altro materiale ferroso. Gli agenti della polizia non hanno ancora ricostruito la dinamica dell’incidente: non si sa se ha perso l’equilibrio mentre tagliava qualcosa o se è stato colpito da un oggetto caduto dall’alto. Secondo le testimonianze raccolte, anche altri due operai, che stavano lavorando nello stesso cantiere, hanno rischiato di cadere.
(31 marzo 2008)
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Inflazione record, tocca il 3,3%: Mai così alta da dodici anni
Berlusconi: è sempre colpa di Prodi
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Su base annua, i prodotti petroliferi raffinati incidono per il 40% sulla crescita complessiva dei prezzi alla produzione, seguiti dal comparto alimentari, bevande e tabacco che costituiscono il 20% dell’aumento di spesa e da energia gas e acqua che incidono per il 10% sul complessivo caroprezzi.
Ad aumentare quindi non è solo il carburante ma anche i beni di consumo che rispetto al 2007 costano il 9,6% in più. Si tratta, in ogni caso, di una battuta d’arresto: l’aumento dei generi alimentari, spiega l’Istat, continua ma è più contenuto. L’inflazione, comunque, ha fatto sì che a marzo la pasta costasse il 17% in più rispetto a un anno prima e il 3% in più rispetto a solo un mese fa. Il pane rincara del 13,2% (+0,7% l’aumento mensile), il latte del 10,5%, la frutta del 5,8% e gli ortaggi del 4,2%. Leggermente più contenuto il rincaro della carne, che costa il 4% in più rispetto a marzo 2007.
Ha toccato il suo massimo storico il prezzo del riso, che è salito del 40% dall’inizio dell’anno. A spingere il prezzo verso l’alto, spiega la Col diretti, «è la forte riduzione delle scorte mondiali di riso che quest’anno, secondo il Dipartimento statunitense dell’agricoltura, non dovrebbero superare i 72 milioni di tonnellate, il livello più basso negli ultimi 25 anni». Ma secondo il presidente di Confagricoltura Federico Secchioni, «il deficit di materie prime è strutturale, non congiunturale, quindi – propone – si deve dare all’Italia una maggiore stabilità produttiva e contestualmente applicare delle politiche di contenimento dei costi».
Pubblicato il: 31.03.08
Modificato il: 31.03.08 alle ore 13.57
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fonte: http://www.unita.it/view.asp?idContent=74212
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Alitalia: Alfa docet…
Lo dicevo nel post precedente, senza aver letto qui:
Trasferimenti finti: UN’ALTRA TRUFFA FIAT PER CHIUDERE ARESE
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28/03/2008 12h48
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Trasferisce per finta decine di lavoratori a Torino per licenziarli con la mobilità lunga. E non reintegra i 68 cassintegrati licenziati, anzi, vuol trasferire a Balocco decine di altri lavoratori.
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IL TUTTO CON IL SILENZIO DI SINDACATI E ISTITUZIONI
Pochi giorni fa la Fiat ha licenziato, di concerto con gli altri proprietari dell’area di Arese, la Regione e la Provincia, gli ultimi 68 cassintegrati dell’Alfa Romeo in Cigs dal 2002.
E oggi Fiat Auto si sta sbarazzando di molte altre decine di lavoratori con una vera e propria truffa facendo firmare a tutti questi lavoratori una dichiarazione con la quale essi richiedono il “trasferimento immediato a Torino per gravi e urgenti motivi famigliari”, e contemporaneamente chiedono di andare in mobilità lunga (sette anni per gli uomini e 10 anni per le donne). Se non firmano –dice loro la direzione del personale- non ci sarà nessuna prospettiva di lavoro ad Arese.
Questi trasferimenti/licenziamenti di massa a Torino avverranno in due scaglioni, uno a fine aprile e un altro oggi; già questa mattina 17 lavoratori sono stati portati con un autobus a Torino. La Fiat concede loro il trasferimento “per gravi motivi famigliari”, dopodichè fra 3 giorni, il 1° aprile 2008, tutti saranno messi in mobilità. La Fiat trasferisce a Torino questi lavoratori perché i numeri a disposizione di Arese per la mobilità lunga (2000 a livello nazionale) sono già stati esauriti a dicembre 2007.
Tutto ciò sta avvenendo con la complicità di Fim-Fiom-Uilm le quali, un mese fa, l’8 febbraio 2008 e il 12 febbraio 2008, hanno firmato due nuovi accordi –da loro mai resi pubblici- sulla mobilità che di fatto danno il via libera alla Fiat per smembrare e svuotare cap.10 e CT e per non far rientrare all’Alfa i licenziati di Arese!
A inizio marzo Fim-Fiom-Uilm, spudoratamente e senza dir nulla di questi accordi, al licenziamento degli ultimi 68 cassintegrati hanno proclamato uno sciopero di 8 ore e un’assemblea pubblica con i partiti.
Ci sembrava strano che, dopo anni di acquiescenza ai piani Fiat di smantellamento dell’Alfa di Arese, Fim-Fiom-Uilm facessero sul serio. Infatti era una presa in giro.
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BASTA CON LE TRUFFE DELLA FIAT:
Nel 1987 lo Stato ha regalato l’Alfa Romeo alla Fiat;
la Fiat solo per Arese in 20 anni ha avuto 2.000 miliardi di lire di soldi pubblici per … licenziare 18.000 lavoratori;
Nel 2000 la Fiat “vende” l’area di Arese, ma nel 2008 è sempre proprietaria dei palazzi del CT e del CD, e Luigi Arnaudo, fino a ieri e per 30 anni braccio destro degli Agnelli all’IFIL, è ora presidente di Immobiliare Estate sei, la società di Brunelli proprietaria del grosso dell’area;
La Fiat, sempre assente gli scorsi anni ai tavoli regionali, ora, fatti fuori anche i 1.050 cassintegrati del 2002, è di casa da Formigoni e da Penati e ha chiesto di far parte del nuovo accordo di programma sull’area dell’Alfa ove, in previsione dell’EXPO 2015, arriverà anche il prolungamento del Metro dalla Fiera di Rho-Pero;
E ora il Centro Tecnico e il capannone 10 sono svuotati, con attività lavorative e lavoratori licenziati con la mobilità o spostati a Torino e Balocco.
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LO SLAI COBAS CHIEDE:
REINTEGRO ALL’ALFA DEI LICENZIATI, LAVORO VERO AL CAP.10 E AL CT, INTEGRAZIONE DEGLI ORGANICI MANCANTI, UN SERIO SVILUPPO INDUSTRIALE E OCCUPAZIONALE SULL’INTERA AREA.
Slai Cobas Alfa Romeo
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Fonte: http://www.slaicobas.it/view_fodarticle.php?id=877〈=en
Meditate gente…
DILIBERTO su ALITALIA: PROBLEMA NON ITALIANITA’ MA OCCUPAZIONE
Ufficio Stampa
Roma 28 marzo 2008
Una volta che si va verso la privatizzazione, il mio problema non è l’italianità ma che vengano salvaguardati posti di lavoro e rotte di Alitalia. Valuteremo le eventuali altre offerte esclusivamente sulla base di questi parametri. Avendo appreso che Spinetta, l’ad di Air France guadagnava sei volte meno di Cimoli, francamente la prima cosa da dire è che lo stato in cui si trova Alitalia deriva da una responsabilità precisa di chi l’ha amministrata nei decenni passati, riscuotendo anche emolumenti spaventosi alla faccia del merito. Le colpe sono dei management ma anche di chi li ha nominati, cioè dei governi che si sono succeduti. Il mio auspicio era che Alitalia rimanesse pubblica, anche perché in Italia abbiamo fatto privatizzazioni selvagge che non hanno certamente fatto il vantaggio né degli utenti né dello Stato ma soltanto dei privati che hanno lanciato l’arrembaggio.
Fonte: http://www.comunisti-italiani.it/frames/index.htm
Sono d’accordo con Diliberto.
E poi… Non so a voi, ma a me la storia (mi verrebbe quasi « il pasticciaccio brutto »…) dell’Alitalia ricorda in modo preoccupante quella dell’Alfa Romeo.
Massacrata da una gestione “discutibile” (mi sono svegliata tenera) e poi svenduta ad un privato… la FIAT. Che, siccome non aveva approfittato abbastanza della cassa integrazione e quant’altro per demeriti propri, ha avviato la stessa procedura per l’ex fabbrica pubblica. Arese e la zona dell’Alfasud non brillano, oggi come allora, per piena occupazione, ma la FIAT è tornata in attivo.
Io, che vivo di fantapolitica ed utopia, l’unica cordata accettabile e credibile che vedo, è pubblica. Nel senso che ogni cittadino volonteroso mette mano al portafogli e si compra qualche azione, acquisendo così il diritto di decidere rotte e scali e tutto il resto.
Gli imprenditori? Ci possono anche entrare, ma solo se dimostrano ad un tribunale del popolo che non sono andati in rosso, non hanno fatto bancarotta, non hanno cassintegrato, mobilizzato, precarizzato, tempodeterminizzato e ridotto il loro organico (se vi viene in mente altro, io ci sto)
I politici? Quelli prima devono dimostrare quantomeno come trattano i loro portaborse e le colf.
I sindacalisti? Solo quelli che si sporcano le mani tutti i giorni.
I lavoratori da difendere? Quelli che lo sono di fatto e non solo di nome.
…d’altra parte, l’ho detto subito: vivo di utopie! J
VISTI DA FUORI – Veltrusconi: Taking Out the Trash
Photo Illustration: Newsweek; Photos: Alex Majoli / Magnum for Newsweek
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If Silvio Berlusconi and Walter Veltroni came together they just might be able to save Italy
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Two-Man Race: For the first time in modern Italian history, the election presents the semblance of a real two-party contest
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Eat ing m ozzarella cheese is becoming a test of patriotism in Italy. But not just any mozzarella. No, this has to be cheese made from the milk of water buffaloes raised in the region around Naples. The product is a prestige export and the industry is vital to the local economy, but after years in which mountains of garbage have piled high on Neapolitan streets and people have taken to dumping rotting refuse more or less anywhere they please, poisonous dioxins have started turning up in the buffalo milk. The levels are only fractionally above European norms. But the crisis is so symptomatic of what’s gone wrong in Italy that it’s become an issue in the current political campaign.
“When was the last time you ate buffalo mozzarella?” NEWSWEEK asked center-left candidate for prime minister Walter Veltroni on a dusty campaign bus rumbling through the Sicilian countryside last week. “A couple of days ago,” said the mild-mannered former mayor of Rome. “I’m not afraid. Our world today is a world that embraces fear—and that is what scares me.” His tone may be quiet, but after 30 years in politics he knows how to stay on message. His main rival, center-right former prime minister Silvio Berlusconi, has built his political career not least by playing on concerns among small-business owners and conservative Roman Catholics about the power of erstwhile communists like Veltroni in Italian politics. “Fear is something that is easy to sell,” says Veltroni. “It is much easier to sell fear than hope. We are investing in hope.”
Yet the greatest fear of each candidate may well be that he’ll win—only to preside over yet another Italian government crippled by fractious political parties and shaky coalitions in the two houses of Parliament. Such a regime cannot even begin to save Italy from a mountain of economic and political woes. The economy is flat, verging on recession. Technically a member of the G8, a group of the world’s most industrialized countries, Italy has had almost no growth for a decade and salaries, as a function of purchasing power, are half that of Britain. Its debt is so massive that every man, woman, child and newborn is being charged €1,200 a year for interest payments alone. And all signs point to the situation getting worse.
For that very reason, only a few months ago Veltroni and Berlusconi were moving toward each other like old heavyweight fighters asked to sit on the board of the same charity. A jab here, a feint there, and they were just about to get down to the first order of business: an electoral law that would take away the power of the splinter groups that have made and broken so many governments. The then Prime Minister Romano Prodi proved unable to prevent the collapse of his lackluster leftist government (which included 11 parties); new elections were called and Italy looked like it would go back to politics as usual. But that isn’t what’s happened—and in that fact lies some real hope for the future.
Veltroni refused to run in a coalition with the troublesome little parties of the extreme left. Berlusconi teamed up with some of his old allies, but made it absolutely clear it was all about him, not them. For the first time in modern Italian history, the election, to be held on April 13 and 14, presents the semblance of a real two-party contest. If the candidates are serious about solving Italy’s problems, they’ll leave the door wide open to the possibility of a “grand coalition” once the votes are counted—even if neither is quite ready to say yes to that proposal in public, although Veltroni strongly hints that he would. Berlusconi rejects the idea for the moment, but has joked that their policies on several issues are so close that Veltroni has been stealing from his platform.
The personalities don’t mix well, that’s for sure. Berlusconi, a former singer on cruise boats who became a billionaire by building an empire of privately owned television stations, is without question Italy’s most entertaining politician. During his one full term as prime minister, from 2001 to 2006, Berlusconi’s family not only kept control of his own empire, but he gained control of the powerful state broadcasting networks. He also has major interests in leading media outlets. Although the courts have pursued Berlusconi relentlessly on various charges of shady business dealings, he managed to beat the rap in every case. Now 71, he looks much younger, thanks to his undeniable personal energy and a few equally undeniable cosmetic touches, including the color and quantity of his hair.
Veltroni, at 52, would be the youngest prime minister ever elected in postwar Italy, but his look is gray with glasses, a little disheveled, shy and professorial. But Veltroni is no neophyte. His career in politics goes back 30 years, beginning as a young activist in the Italian Communist Party and developing into a full-blown apparatchik. After the collapse of the Soviet Union discredited the message, Veltroni saw centrism as the key to his political future. Compared with the previous leader of the left, the soporific Prodi, Veltroni appears animated even when he’s understated. Like any shrewd politician he tries to turn his opponent’s strengths against him. “For the past 15 years,” he tells a crowd in the Sicilian town of Caltanissetta, “politicians have focused on TV and advertising as if these are the real issues in the country.” But Veltroni is not above borrowing, quite blatantly, from the mediagenic campaign of a star in the United States. His slogan is pure Barack Obama: “Si può fare”—”Yes we can.”
What would it take to turn “yes we can” into “Silvio and I can”? Conventional wisdom holds that if there were to be a grand coalition, it would come together mainly for electoral reform and then, in relatively short order, everyone would be back at the polls. Yet the basic agenda for Italy may be better addressed by keeping that coalition together. Much of what needs to be done is painful. A weak government can’t make it work, and the country’s two leading politicians could conclude they’re better off taking joint responsibility rather than shouldering the blame for the pain alone. Perhaps most crucial are welfare and labor reforms. Unemployment is low, but so are salaries, trailing behind Spain and Greece. One reform on which both candidates could agree would be to encourage work by lowering taxes on overtime, as the French are doing. Both candidates also recognize the need to make provisions for workers employed on short-term contracts. Their incomes are too low to live on, and they have no income at all when their contracts run out. Equally urgent is the need to reform public administration. The Italian state costs the taxpayer more than the German state does, but provides considerably less. Berlusconi wants to reduce public expenditure by one point every year. Veltroni would do the same, but wants to wait a year before beginning.
An issue that rankles the electorate is the high salaries and seemingly limitless perks of Italy’s political class. Again, only a grand-coalition government would stand a prayer of cutting those perks and salaries. And when it comes to taxes, and it always does, both Veltroni and Berlusconi want them reduced. Berlusconi would like to see the total burden on income taken below 40 percent, down from 44 percent now. Both want to spur tourism by reducing the value-added tax on things like travel-agency bookings. The Prodi government halted or canceled several big public works and infrastructure projects that Berlusconi had begun. He wants to restart them. So does Veltroni. The only major difference is whether to build a bridge across the Strait of Messina between the mainland and Sicily. Berlusconi wants it. Veltroni’s core constituents on the island aren’t so enthusiastic.
In the town of Caltanissetta, deep in Sicily’s hinterland, 75-year-old pensioner Emilio Serra listened to Veltroni’s calls to escape the old chaos of multiple parties with a certain bemused wonderment. “It is more an American way of thinking,” says Serra. “I don’t see why that wouldn’t work here, but I don’t think the politicians will allow something so sane.” If they do not, then Italy’s mad decline will only continue—and that would be something to fear indeed.
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fonte: http://www.newsweek.com/id/129616
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GENOVA – Gli ecuadoriani vogliono tornare a casa
30 marzo 2008
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A una quindicina d’anni dai primi insediamenti, la comunità ecuadoriana di Genova (30.000 persone, una delle maggiori d’Italia), ormai stabile e radicata in città – dove si trasmette anche un telegiornale in lingua spagnola (in tutto, i sudamericani sono circa 60.000) – pensa a riattraversare l’Atlantico.
Nel 2007, circa 200 famiglie l’hanno già fatto, decine di immigrati ogni giorno vanno al loro consolato, in via Cecchi, per informarsi sulle opportunità offerte dal “Plan de Ritorno”, messo a punto dal governo circa un anno fa: «Il governo – ha spiegato il console, Leon Pablo Avilès Salgado – ha costituito una segreteria nacional del Migrante, diretta da un ministro, Lorena Escudero, proprio per favorire il ritorno di chi è stato costretto a lasciare il proprio Paese».
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Le ragioni dell’emigrazione
A fine anni Novanta, l’Equador ha subito un processo di impoverimento velocissimo, aggravato da una crisi politica: nel 1999, il Paese registrò un calo del Pil pari al 7,3%; nel 2000 il reddito medio di un ecuadoriano era il 43% di quello sudamericano; fra il 2000 e il 2005 più di un milione di ecuadoriani è andato a cercare fortuna negli Stati Uniti o in Europa. Il totale degli ecuadoriani all’estero, comprendendo anche gli emigranti storici, dovrebbe aggirarsi sui 3 milioni. In patria sono 13 milioni.
«Oggi le condizioni economiche e politiche sono cambiate – ha spiegato ancora Avilès Salgado – e il governo è in grado di offrire incentivi a chi vuole tornare. Si vuole andare incontro ai desideri dei cittadini e arricchire il tessuto economico e sociale del Paese. Gli emigranti di ritorno portano nuove cognizioni, specializzazioni professionali apprese in paesi molto avanzati, nuovi stimoli culturali». Portano anche capitali, perché all’estero hanno lavorato e risparmiato: nel 2005, i circa 150.000 ecuadoriani presenti in Italia hanno inviato in patria circa 60 milioni di euro.
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I motivi per tornare
Il Plan de Ritorno offre numerosissime agevolazioni burocratiche e fiscali per la casa, per l’auto, per chi vuole investire in patria: «Sono interessati – ha detto il console – soprattutto gli emigranti arrivati qui 8-10 anni fa. Hanno lavorato duramente, spesso, nel caso delle badanti, senza un giorno di riposo per anni. Hanno figli ancora piccoli, che possono lasciare l’Italia senza troppi rimpianti. E sono riusciti ad accumulare risparmi. In Equador si può acquistare una casa con 40.000 euro, anche con meno nelle zone di campagna. Chi è qui da più tempo in genere ha meno desiderio di tornare, è più radicato a Genova, spesso ha figli grandi o adolescenti, che sono integrati, hanno amici». C’è chi pensa al ritorno, e non ci sono nuovi arrivi. Il miglioramento delle condizioni di vita in Equador, la stagnazione della economia in Italia, insieme alla concorrenza degli immigrati provenienti dai nuovi Paesi membri dell’Ue e alle restrizioni nella politica dei visti hanno ridotto quasi a zero il flusso in entrata.
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La situazione genovese
A Genova, come nel resto d’Italia, gli ecuadoriani sono arrivati nel corso degli anni Novanta. La scelta di Genova come meta privilegiata si spiega anche con gli antichi legami tra il capoluogo ligure e il principale centro di emigrazione, Guayaquil, città portuale sul Pacifico. Qui, specialmente tra fine Ottocento e inizi Novecento, erano arrivati molti italiani, in gran parte provenienti da Genova, Chiavari, Recco, Lavagna e altre località della Liguria. Sfogliando i libri di storia locale, tra i nomi dei notabili che hanno contribuito a formare la vita politica, sociale e culturale di Guayaquil e al suo sviluppo economico, ne troviamo molti che suonano familiari a chi vive tra Appennino e Mar Ligure: Parodi, Ferrari, Roggiero, Rolando, Campodonico, Cevasco, Molinari, Mortola, Bacigalupo, Cassinelli, Perrone, Vernazza, Mazzini e altri. A Genova, come altrove, le donne sono badanti, collaboratrici familiari, mentre gli uomini trovano impiego nell’edilizia, negli alberghi, nei negozi, nelle imprese di trasporto. Ai legami culturali e affettivi con la madre- patria e anche ad aiutare a vivere nel nuovo paese, provvedono molte associazioni, chiese, giornali illustrati, che circolano in diverse città italiane e trasmissioni tv. El Noticiero Latino Americano, prodotto da una società genovese, Videoprof e trasmesso dall’emittente ligure Telecittà, va in onda al venerdì alle 20.30 e viene replicato il sabato e la domenica. È molto seguito, come anche il programma di musica Onda Latina, trasmesso il giovedì sera e amato soprattutto dai giovani.
Degli ecuadoriani e dei sudamericani che vivono a Genova si è accorto anche il business: “Cuenta Conmigo” (conta su di me) è il conto corrente messo a punto l’anno scorso dal Banco di Chiavari per le comunità latino-americane presenti in Liguria, tagliato sulle loro esigenze specifiche. Offre condizioni vantaggiose, tra cui una polizza assicurativa, stipulata in collaborazione con Europe Assistance, che prevede la copertura di prestazioni fondamentali per chi ha lasciato il Paese di origine al di là dell’oceano, biglietto aereo per rientrare in patria se muore un familiare, e per un parente, nell’eventualità che l’immigrato finisca in ospedale colpito da infortunio o malattia, rimpatrio della salma nel caso di decesso e diaria di ricovero a chi rimane vittima di un incidente. Non solo: il Banco di Chiavari a chi risiede in Italia da almeno due anni propone mutui a tassi contenuti per comperare la casa. Le richieste arrivano, perché molti ecuadoriani a Genova resteranno.
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Atene, arresti fuori dallo stadio al passaggio di consegne della fiaccola
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A Lhasa blitz in un monastero
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In India gli esuli iniziano a New Dehli la protesta della ‘fiaccola dell’indipendenza’. prossima tappa: San Francisco
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Dharamsala (India), 30 marzo 2008 – La polizia cinese ha arrestato 26 persone, sequestrato pistole e altre armi nel monastero di Geerdeng, provincia di Sichuan, nel Sud Est del Paese. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stato cinese, Xinhua, gli agenti hanno trovato nel tempio “30 pistole, 498 proiettili, quattro chilogrammi di esplosivo” e un “grande quantitativo” di coltelli.
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La polizia ha spiegato che i “sospetti” sono stati arrestati perchè coinvolti negli scontri con le forze dell’ordine avvenuti il 16 marzo. Ma non ha specificato se si tratta di monaci. Inoltre, sono stati sequestrati telefoni satellitari, antenne paraboliche, fax, e computer.
Intanto, a Pechino si registra la caduta della prima ‘vittima’ politica dall’inizio dei disordini nella regione autonoma. Secondo il ‘Tibet Daily’, Danzeng Langjie, direttore della Commissione affari religiosi e minoranze etniche del Tibet, è stato «rimosso» dal suo incarico e sarà sostituito da Luosang Jiumei, dal 2004 vice segretario del Comitato del partito comunista a Lhasa.
ARRESTI AD ATENE
La polizia greca ha arrestato una decina di dimostranti pro-Tibet dopo tafferugli fuori dallo Stadio del marmo, dove si è svolta la cerimonia di consegna della torcia olimpica agli organizzatori cinesi dei Giochi 2008. I dimostranti scandivano “salvate il Tibet” e hanno sfidato un cordone di polizia senza però riuscire a interrompere l’ultima tappa della staffetta che nelle strade della capitale greca ha celebrato il viaggio della torcia dall’Acropoli allo stadio Panathenian Stadium. I dimostranti hanno cercato di dispiegare uno striscione con la scritta “Stop al genocidio in Tibet”.
All’interno dello stadio, la cerimonia di consegna della fiaccola, fra musica e pepli greci, si è svolta circondata da alte misure di sicurezza per timore di interventi dei manifestanti, che protestano contro la repressione effettuata nelle ultime settimane dalla Cina contro i monaci tibetani.
La torcia arriverà domani a Pechino, trasportata su un aereo appositamente attrezzato per mantenere sempre accesa la fiamma. Partirà poi per un viaggio attraverso 20 paesi prima di tornare in Cina per le Olimpiadi.
IN INDIA ACCESA LA “FIACCOLA INDIPENDENZA”
Diverse decine di tibetani hanno partecipato questa mattina a Nuova Dehli in India a una manifestazione di protesta contro la repressione cinese in Tibet, accendendo una “fiaccola dell’indipendenza” a richiamare la fiaccola olimpica che deve percorrere il mondo prima dei Giochi Olimpici di questa estate a Pechino.
La fiaccola dell’indipendenza è stata accesa una prima volta a Dharamsala, la città del nord dell’India dove vive in esislio dal 1959 il Dalai lama.
La prossima tappa della “fiaccola dell’indipendenza” sarà San Francisco, dove la fiaccola olimpica è attesa il 9 aprile. Ieri, era giunta ad Atene dove è stata consegnata agli organizzatori cinesi; lunedì sarà a Pechino (fra altissime misure di sicurezza) e partirà poi per un periplo del mondo. In maggio dovrebbe passare proprio in territorio tibetano.
IL MONASTERO CIRCONDATO
La polizia cinese ha circondato il monastero buddhista di Jokhang, a Lhasa, erigendo tutto intorno cordoni di sicurezza per impedire ai monaci di uscirne e ai manifestanti di avvicinarvisi: lo hanno riferito fonti della comunità tibetana esiliata a Dharamsala, la cittadina nel nord dell’India in cui dal ’59 risiede il Dalai Lama, citando notizie di prima mano provenienti dalla capitale del Tibet, dove oggi sono dilagate nuove proteste.
Le fonti, che hanno preteso di rimanere anonime per proteggere i propri informatori, hanno precisato che il provvedimento è stato imposto poco dopo l’inizio delle dimostrazioni di piazza, cui secondo il governo tibetano in esilio, anch’esso insediato a Dharamsala, si sarebbero «ben presto» unite «migliaia» di persone.
Il monastero di Jokhang è lo stesso dove tre giorni fa, cogliendo l’occasione offerta loro dalla presenza di un gruppo di giornalisti stranieri, una trentina di monaci riuscirono a eludere la sorveglianza e ad avvicinare gli ospiti, manifestando per circa un quarto d’ora in pubblico e denunciando maltrattementi e pressioni cui sono sottoposti dall’inizio della repressione, in corso da oltre due settimane; la sortita dei religiosi ha creto un notevole imbarazzo per le autorità lealiste filo-cinesi.
Nel medesimo tempio in giornata hanno compiuto un sopralluogo i rappresentanti diplomatici di una quindicina di Paesi terzi, tra cui Usa, Italia, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna, Russia, Giappone, Australia e la Slovenia, presidente semestrale di turno dell’Unione Europea. «Ovviamente, è stata una visita altamente orchestrata», hanno commentato in proposito fonti diplomatiche occidentali, che parlavano in via riservata.
È la prima volta dallo scoppio dei disordini in cui il regime della Repubblica Popolare permette a una delegazione ufficiale straniera di recarsi nella regione himalayana; i diplomatici, non più di uno per ciascuna delle ambasciate a Pechino interessate dall’iniziativa, erano stati avvertiti soltanto ieri, in extremis: la loro missione è durata comunque appena 24 ore. Stando al governo tibetano esiliato, le rinnovate proteste avevano avuto inizio intorno alle 14 ora locale, le 7 del mattino in Italia, davanti a un altro tra i principali monasteri della città, quello di Ramoche.
IL DALAI LAMA
Anche il Dalai Lama ha in qualche modo confermato che nuove proteste di piazza sono scoppiate in giornata a Lhasa, in coincidenza con la visita nella capitale del Tibet di una delegazione di diplomatici stranieri in rappresentanza di quindici Paesi, Italia compresa.
«Ho sentito che oggi la gente di Lhasa è di nuovo scesa nelle strade per protestare», ha dichiarato il leader spirituale dei buddhisti tibetani da Dharamsala, la cittadina nel nord dell’india dove risiede dal ’59, aggiungendo di seguire costantemente gli sviluppi della situazione.
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fonte: http://qn.quotidiano.net/2008/03/30/76334-atene_arresti_fuori_dallo_stadio.shtml
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