Archivio | dicembre 2009

Messaggio di fine anno di Solleviamoci agli Italiani

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Mafalda – E’ finita la fame e la povertà nel mondo?
Sono state soppresse le armi nucleari?
Sìììì?
Il padre – Cioè, beh… credo di no, figlia mia.
Mafalda – E allora che caspita cambiamo a fare anno?

La radio – …E ora notizie dagli esteri: bombe ad alto potenziale sono state lanciate oggi dall’aviazione di…
Mafalda – Non gli si può dare un anno nuovo che subito lo rompono!

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Le parole di una Repubblica: 60 anni di messaggi presidenziali

Dieci presidenti e sei decenni di messaggi di fine d’anno. Li abbiamo analizzati
cercando le parole più ricorrenti, i temi, le paure e le speranze che li attraversano

Le parole di una Repubblica
60 anni di messaggi presidenziali

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di ALESSIO SGHERZA

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Le parole di una Repubblica 60 anni di messaggi presidenzialiIl presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante il messaggio 2008

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Dal 1949 al 2008, dieci presidenti, sessant’anni di messaggi di fine anno dal Quirinale a tutti gli italiani: li abbiamo raccolti qui, mettendo in evidenza le parole più frequenti di ogni discorso, per rivivere il periodo dal dopo guerra ad oggi attraverso quei termini che hanno segnato la nostra storia.
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Il messaggio di fine anno del Pres.idente della Repubblica agli italiani è un appuntamento immancabile, nelle case degli italiani, da ormai 60 anni. E ogni 31 dicembre, le parole che escono dalla tv o dalla radio descrivono l’Italia, con le sue paure e le sue speranze. Per questo abbiamo deciso di riprendere in mano quei discorsi uno per uno, dal messaggio di Luigi Einaudi del 31 dicembre 1949 fino a quello di dodici mesi fa di Napolitano, e ne abbiamo analizzato le parole più utilizzate.
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GUARDA LO SPECIALE INTERATTIVO
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Sono discorsi che fanno rivivere la storia del nostro paese attraverso le parole e i concetti che ne hanno segnato il tessuto culturale e sociale, e che rileggendoli oggi raccontano – anche con una certa nostalgia – un’Italia che non c’è più. Ci sono delle costanti, ovviamente. “Augurio”, “anno”, “patria”, “popolo”, “Italia” e “italiani” sono sempre presenti, ma è il resto che descrive e spiega un intero Paese.
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Si inizia con i primi, brevi messaggi di Luigi Einaudi in cui si può ritrovare la “tragedia” della guerra, in cui ci sono i “casolari” e i “borghi” dell’Italia contadina, in cui non mancano le “speranze” di un paese che rinasce democratico. Nel 1955 al Quirinale arriva Giovanni Gronchi, nel pieno del boom economico: “progresso”, “fiducia” e “lavoro” sono le parole chiave di questi anni. Ed è in questo momento che compaiono e assumono maggior valore termini come “Europa”, mentre si discute di Cee e si arriva alla firma dei trattati di Roma.

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Antonio Segni tenne due discorsi, nel ’62 e nel ’63, fino alla malattia che lo costrinse alle dimissioni. Nelle sue parole continua la fiducia nel “progresso” e nello “sviluppo”, e nel discorso del 1963 si legge il “commosso pensiero” per la scomparsa di Papa Giovanni XXIII e per l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy.
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La seconda metà degli anni ’60 è segnata dall’incrinarsi del boom economico e dalla guerra del Vietnam. Così nei messaggi di fine anno di Giuseppe Saragat compaiono sempre più importanti le parole “lavoro”, “disoccupazione” e “pace”. Nel ’67 la Comunità Europea si allarga, e con la “Gran Bretagna” si arricchisce di nuove risorse e importanza. “Lavoratori”, “operai”, “violenza” segnano il messaggio augurale del 31 dicembre ’69, al termine dell’autunno caldo e dopo la strage di Piazza ontana.
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Il settennato di Giovanni Leone è nel segno delle difficoltà economiche e del terrorismo, come segnalato dal ripetersi delle parole “crisi” e “sicurezza”. Con Sandro Pertini compaiono per la prima volta nel messaggio di fine anno i termini “P2” (’81), “mafia”, “camorra” (’82); e ritorna con forza maggiore la parola “terrorismo”. Senza dimenticare che la parola chiave per Pertini fu “giovani”: solo “italiani” e “popolo” furono ripetute più frequentemente nei suoi messaggi.
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Si corre veloce nei ricordi, verso la seconda metà degli anni ottanta e la presidenza di Francesco Cossiga, al tramonto della Guerra Fredda e della prima Repubblica. Nell’89 le parole più importanti non possono che essere “Europa”, “Est” e “Libertà”. Poi gli anni di Oscar Luigi Scalfaro, degli scandali, di Tangentopoli e della nascita della seconda Repubblica: in primo piano i “partiti”, il “parlamento”, la “politica” e le “responsabilità”.
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Con Carlo Azeglio Ciampi, eletto nel 1999, si chiude il “secolo” e, visto il quadro internazionale, alla ribalta tornano i termini “mondo”, “pace”, “fiducia”. Siamo ai giorni nostri: nei discorsi di Giorgio Napolitano è la “crisi” a farla da padrone, accompagnata da “lavoro”, “politica”, “istituzioni”. Con un avverbio dominante, “ancora”: quasi a sottolineare che la speranza di una società migliore non è alle nostre spalle. Sono queste le parole chiave di questi anni, che fra mezzo secolo racconteranno ai nostri nipoti qualcosa dei sentimenti e della vita dell’Italia di oggi.
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E il Quirinale sbarca su Youtube. E le parole del Presidente avranno un nuovo canale ufficiale: Youtube. L’ultimo dell’anno, anche in occasione del messaggio 2009 agli italiani, sarà lanciato il canale ufficiale della Presidenza della Repubblica, raggiungibile all’indirizzo youtube. com/presidenzarepubblica. Qui saranno raccolti i filmati degli interventi più significativi dell’attività del capo dello Stato. Il canale, in occasione del lancio, sarà aperto da un messaggio di benvenuto del Presidente Napolitano: “Apriamo le porte del Quirinale ai tanti utenti dei nuovi media non solo per ampliare e rendere sempre più efficienti e moderni gli strumenti della nostra comunicazione ma anche per promuovere e favorire un rapporto sempre più stretto e trasparente con i cittadini. Le nuove tecnologie non conoscono né barriere né frontiere. Ci incontreremo in questo spazio per costruire, insieme, occasioni di partecipazione alla vita democratica”.
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Il Presidente della Repubblica non è la prima istituzione che ha deciso di aprire un canale ufficiale su Youtube: la Casa Bianca e la Regina Elisabetta II, ad esempio, sono già presenti sul sito di videosharing. “Siamo entusiasti che il Presidente abbia lanciato un canale su YouTube”, ha commentato Chad Hurley, fondatore del sito di video sharing: “Riteniamo che YouTube rappresenti un eccezionale strumento per promuovere democrazia e dialogo tra cittadini e istituzioni. Sempre più figure istituzionali nel mondo si sono affidate a YouTube come strumento di comunicazione, dal Vaticano alla Regina Rania di Giordania e la Regina d’Inghilterra. Oggi per noi è un grande passo in avanti poter aggiungere a questa lista il Presidente Napolitano”.
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31 dicembre 2009
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Luigi Einaudi
Presidente della Repubblica, 1948 – 1955.


MESSAGGIO DI FINE ANNO AGLI ITALIANI

DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

LUIGI EINAUDI
Palazzo del Quirinale 31 dicembre 1951

ITALIANI,

NON  VOGLIO LASCIAR PASSARE L’ANNO SENZA RITORNARE, COME ORMAI D’USO, A QUESTO CONVEGNO IDEALE, DAL QUALE MUOVEREMO INSIEME VERSO LE ULTERIORI PROVE.

E INSIEME TESTIMONIANO ANZITUTTO IL NOSTRO AFFETTUOSO RICORDO A QUELLI TRA NOI, CHE VIVONO TUTTORA SOTTO IL PESO DI IMMERITATE ANGUSTIE, PRIMI TRA ESSI – VOI MI INTENDETE – QUANTI ABBIANO SOFFERTO LUTTI E STENTI A MOTIVO DELLE RECENTI ALLUVIONI.

MA LA STESSA SOLLECITUDINE PER QUESTI NOSTRI FRATELLI E IL COMUNE IMPEGNO VERSO DI ESSI ATTIRANO IL PENSIERO A CERCHIO PIU’ ESTESE, VIA VIA ELEVANDOLE SINO A QUELLA, CHE TUTTE IDEALMENTE LE CONTIENE, VOGLIO DIRE ALLA NOSTRA PATRIA DILETTA: SALUTIAMONE – UNITI IN UNA RINNOVATA PROMESSA DI COSTANTE DEDIZIONE – LA PERENNE VITALITA’, ONDE OGNI CATEGORIA DI CITTADINI SA TROVARE, NELLE ORE PIU’ DURE, SEMPRE NUOVE ENERGIE DI SUPERAMENTO E DI RIPRESA.

E’ LECITO DA CIO’ TRARRE LIETI AUSPICI PER IL DOMANI, COME DI LIETI AUSPICI E’ FORIERO IL BUON LAVORO COMPIUTO NELL’ANNO CHE VOLGE, CONFORTATO DALLA OGNOR PIU’ CONCRETA E MANIFESTA SOLIDARIETA’ DELLE NAZIONI AMICHE.

IN QUESTO SPIRITO, L’ITALIA DEVE GUARDARE CON SERENA FIDUCIA AL PROPRIO AVVENIRE PROSEGUENDO SPEDITA NEL SUO OPEROSO CAMMINO, CHE E’ QUEL MEDESIMO PER IL QUALE MUOVONO I POPOLI, CHE RAVVIVANO NELLA LIBERTA’ IL FONDAMENTO DI OGNI PACIFICO PROGRESSO.

ITALIANI,

ELEVATE CON ME IL VOTO CHE L’ANNO NUOVO POSSA, CON L’AIUTO DI DIO, SEGNARE SU QUESTA VIA NUOVE TAPPE FECONDE!

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fonte:  http://www.quirinale.it/qrnw/statico/ex-presidenti/Einaudi/documenti/ein_disc_31dic_51.htm

Rifiuti, Maroni rimuove tre sindaci casertani: “Messa in pericolo la salute dei cittadini”

Il ministro ha sollevato dall’incarico i primi cittadini di Castel Volturno, Maddaloni e Casal di Principe

dopo la richiesta di scioglimento di nove comuni avanzata dal commissario straordinario Bertolaso

Sotto osservazione altre amministrazione campane. E’ la prima volta che si applica la nuova norma

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Rifiuti, Maroni rimuove tre sindaci casertani "Messa in pericolo la salute dei cittadini"Il ministro dell’Interno Roberto Maroni

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ROMA – “Gravi e reiterate inadempienze nel settore della gestione dei rifiuti, tali da esporre a concreto e grave pericolo la salute dei cittadini e pregiudicare la salubrità dell’ambiente”. Con questa motivazione il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha disposto la rimozione dei sindaci dei comuni di Castel Volturno, Maddaloni e Casal di Principe (tutti in provincia di Caserta). I tre decreti sono stati firmati questa mattina dal presidente della Repubblica.
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Il ministro ha inoltre interessato i Prefetti competenti affinché diano corso nel mese di gennaio ad una attenta attività di monitoraggio nei confronti di altri comuni della Campania, per verificare se adotteranno le misure adeguate per garantire il ritorno alla normalità nello smaltimento dei rifiuti. In caso contrario il titolare del Viminale procederà, come avvenuto oggi, alla rimozione dei sindaci inadempienti.
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La decisione del ministro dell’Interno arriva dopo il vaglio delle richieste di scioglimento del commissario straordinario per la gestione dei rifiuti, Guido Bertolaso, che riguardano nove comuni: sette in provincia di Caserta (Aversa, Casal di Principe, Casaluce, Castelvolturno, Maddaloni, San Marcellino, Trentola Ducenta) e due della provincia di Napoli (Giugliano e Nola).
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E’ la prima volta che si applica la nuova norma che sanziona i comuni inadempienti nella raccolta e rimozione dei rifiuti del territorio comunale. La nuova norma è entrata in vigore nella fase acute dell’emergenza rifiuti in Campania.
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31 dicembre 2009
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Caserme, castelli, spiagge: Saldi di Stato sul territorio

Il decreto di fine anno trasferisce agli enti locali il patrimonio demaniale da vendere

Corsia preferenziale per i costruttori. La denuncia dei Verdi: “Una speculazione”

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di GIOVANNI VALENTINI

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Caserme, castelli, spiagge saldi di Stato sul territorioL’Arsenale di Venezia compare tra i beni cedibili

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ROMA – Si annuncia come la più colossale svendita di Stato che sia stata mai concepita. Altro che privatizzazioni all’inglese, modello Thatcher o Blair. Qui siamo alla liquidazione totale del demanio statale.
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Si svende un enorme patrimonio pubblico che appartiene a tutti i cittadini: settentrionali e meridionali, ricchi e poveri, di destra e di sinistra.
Il decreto legislativo sul cosiddetto “federalismo demaniale”, varato dal Consiglio dei ministri alla vigilia di Natale e rimesso ora all’esame delle competenti Commissioni parlamentari, prevede il trasferimento dei beni statali a Comuni, Province e Regioni, con la dismissione in massa di edifici pubblici, caserme e altre installazioni militari, terreni, spiagge, fiumi, laghi, torrenti, sorgenti, ghiacciai, acquedotti, porti e aeroporti.
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E come denuncia il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, una volta approvato definitivamente potrebbe innescare “la più grande speculazione edilizia e immobiliare nella storia della Repubblica”.
Sono in tutto sette gli articoli del provvedimento, presentato dal ministro della Semplificazione Normativa, il leghista Roberto Calderoli. Un grimaldello legislativo per forzare la “mano morta” che blocca, come si legge nella relazione introduttiva, “un patrimonio abbandonato e improduttivo”.
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Ma proprio in nome della semplificazione e della valorizzazione, due esigenze entrambe apprezzabili, si rischia in realtà di scardinare una cassaforte che contiene beni collettivi inalienabili: compresi quelli “assoggettati a vincolo storico, artistico e ambientale che non abbiano rilevanza nazionale”, come si legge all’articolo 4.

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L’opposizione dei Verdi, a cui non possono non aderire gli ambientalisti più avvertiti e sensibili, punta in particolare contro due norme considerate devastanti. La prima (art.5, comma b) stabilisce che la delibera del piano di alienazione e valorizzazione da parte del Consiglio comunale “costituisce variante allo strumento urbanistico generale”: in pratica, un meccanismo automatico di modifica dei piani regolatori, al di fuori di qualsiasi logica e programmazione.
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L’altra norma controversa è quella che semplifica le procedure per l’attribuzione dei beni statali ai fondi immobiliari (art. 6): “Si tratta – commenta Bonelli – di un maxi-regalo alle grandi famiglie dei costruttori che hanno già saccheggiato il territorio italiano, attraverso lo sfruttamento del territorio e la speculazione edilizia”.
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In attesa di un censimento completo, previsto dallo stesso provvedimento, i dati dell’Agenzia del demanio registrano 30 mila beni in gestione, di cui 20 mila edifici (67%) per 95 milioni di metri cubi e 10 mila terreni (33%) per 150 milioni di metri quadrati. Il demanio militare occupa lo 0,26% del territorio nazionale, pari a 783 chilometri quadrati, prevalentemente in Friuli Venezia Giulia e in Sardegna, dove si trova il poligono di Capo Teulada (72 chilometri quadrati). Seguono, con superfici minori, il Lazio e la Puglia.
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Nessuno può negare onestamente che buona parte di questo ingente patrimonio versi in stato di abbandono, affidato all’incuria o comunque alla mancanza di risorse per la sua valorizzazione. Dallo Stato centrale agli enti locali, spesso si gioca allo scaricabarile, nell’incertezza delle competenze e delle responsabilità.
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Ma il trasferimento in blocco di questi beni ai Comuni, alle Province e alle Regioni, allo scopo dichiarato di fare cassa, minaccia di impoverire alla fine la ricchezza nazionale in funzione di un malinteso federalismo, come se un certo pezzo d’Italia fosse proprietà esclusiva di una determinata comunità.
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Chi ha il diritto di stabilire, per esempio, che una spiaggia della Sardegna, della Sicilia o della Puglia appartiene soltanto a quella Regione? Chi ha l’autorità di alienare un bene storico, artistico o ambientale d’interesse locale? E ancora, chi può disporre di infrastrutture come acquedotti, porti e aeroporti, che per loro natura servono aree più ampie ed estese?
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Al di là della necessità di rispettare i piani urbanistici, se non altro per evitare l’impatto negativo di varianti automatiche, è auspicabile dunque che il decreto legislativo sul “federalismo demaniale” venga modificato e corretto durante l’iter parlamentare, come reclamano i Verdi, almeno su due punti fondamentali: da una parte, l’esclusione dei beni storici e artistici dall’elenco delle dismissioni; dall’altra, l’introduzione dei vincoli di destinazione e uso per i terreni o gli edifici statali.
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Non è concepibile cedere un castello o un museo a un soggetto privato, solo perché il bene in questione non è considerato di “rilevanza nazionale”. Mentre si può pensare di alienare legittimamente un’area abbandonata o una caserma, purché venga destinata a funzioni sociali: ospedali, centri di assistenza, istituti scolastici, parchi pubblici o impianti sportivi. Altrimenti, più che di semplificazione e valorizzazione, si dovrà parlare – appunto – di svendita e liquidazione.
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31 dicembre 2009
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Difendere Gaza è difendere la Vita. Di tutti / “Nonna, che ci fai al checkpoint?”

Difendere Gaza è difendere la Vita. Di tutti, anche la tua

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Photos by Iqbal Tamimi

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Photos by Fakhri Dweik

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Remember the journalists killed by Israeli IDF

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Obaida Dwaik

Fadal Shanaa

Tom Hurndall

Hamza Shaheen

James Miller


dal sito Palestinian Mothers

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Beit Furik checkpoint 31.10.05 da MachsomWatch.
Palestinian women leaving the checkpoint after crossing through the turnstiles.
photographer: Hagit Fridlander
source: www.machsomwatch.org/
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“Nonna, che ci fai al checkpoint?”

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di Giulia Ceccutti

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https://i0.wp.com/it.peacereporter.net/upload/immagini/medioriente/israele_palestina/040702donna.jpgDaniela Yoel è una signora israeliana che fa parte di Machsom watch, associazione pacifista nata nel gennaio 2001 per denunciare gli abusi dell’esercito israeliano.

E’ un’organizzazione formata da donne -mamme e nonne come lei- che, in piccoli gruppi, fanno presenza ai checkpoint (in ebraico “machsom”) dei territori occupati.

Stanno lì per testimoniare che l’occupazione è una violazione dei diritti umani. Osservano i comportamenti dei soldati, raccolgono e pubblicano dati e racconti dei palestinesi costretti ad ore e ore di fila ai posti di blocco, fanno denunce al loro governo ed alla società civile (i loro rapporti sono su www.machsomwatch.org/ ).

Di fronte ad evidenti violazioni (ritardi ingiustificati nel passaggio delle persone o delle ambulanze, ritiro dei documenti, comportamenti aggressivi), si mettono in mezzo andando a parlare con i soldati. Loro possono farlo: ne condividono la lingua e l’appartenenza allo stesso popolo. E molte potrebbero essere le loro nonne. E’ il semplice esserci a fare la differenza: abbassa la soglia delle tensioni, è un conforto ed una sicurezza per i palestinesi, con i quali, spesso, passato il posto di blocco, si sorridono. Oggi le donne di Machsom watch sono circa 500, e ciascuna ha il ‘suo’ checkpoint, il più vicino a casa.

Incontro Daniela a Gerusalemme. “Ciò che mi spinge ad andare ai checkpoint è il fatto che amo davvero il mio Paese -spiega- e sento che qui tutto, nel bene e nel male, è mio”. La lotta di Daniela è sulla quantità d’ingiustizia: “Quello che fa Israele, accaparrare terra e risorse dei palestinesi, non è per la sua sopravvivenza. La mia è una lotta per ridurre la quantità d’ingiustizia”. Tutta la famiglia di sua madre è stata uccisa ad Auschwitz, e quello che lei ha imparato dalla Shoà è che “se puoi fare qualcosa, non essere indifferente”. Gli architetti della Shoà erano pochi, ma avevano bisogno del consenso muto di molti. “Non dovevano fare niente: solo prendere il caffè la mattina, fare la loro vita e non dire nulla”.

La difficoltà più grande è non poter raccontare: la maggioranza degli israeliani non vuole sapere che cosa succede nel cortile di fianco a casa. “La loro è una cecità voluta -sottolinea Daniela-. Per questo è importante documentare, raccontare episodi, anche piccoli”. Perché, come in passato, non si possa dire “non lo sapevamo”.

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fonte: Terre di mezzo, speciale dicembre 2009, pag. 21

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Per Gaza, sempre

Gaza Tutti o Nessuno

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I PARTECIPANTI ALLA GAZA FREEDOM MARCH RIFIUTANO L’OFFERTA EGIZIANA DI FAR ENTRARE SOLO 100 PERSONE A GAZA

Questo è il titolo del Comunicato Stampa arrivato dal Comitato Coordinatore della Gaza Freedom March e che invio in rete con richiesta di ampia diffusione. La resistenza consiste anche nel condividere e partecipare con chi vive in prima persona la lotta per la Libertà, in qualsiasi angolo di mondo, nel Rifiuto, nel rompere il silenzio omertoso e complice, in nome della sicurezza che militarizza le nostre esistenze e ci vorrebbe abituare alla pace in guerra. Era il 17 gennaio 2009 quando scendemmo a migliaia a Roma per la Palestina: vi arrivi la Musica di strada che venne suonata nel corteo unito dall’amore per la giustizia e la verità.Si, Shalom

La Libertà non striscia.

Doriana Goracci

Dopo tre giorni di veglie e dimostrazioni al Cairo, il Comitato Coordinatore della Gaza Freedom March e molti contingenti (tra cui quello Francese, Scozzese, Canadese, SudAfricano, Svedese e dello Stato di New York,U.S.) hanno rifiutato l’offerta di Suzanne Mubarak di consentire solo a 100, dei 1.300 delegati, di entrare a Gaza.
“Rifiutiamo categoricamente l’offerta Egiziana di un gesto simbolico. Rifiutiamo continuare a coprire l’assedio di Gaza. Il nostro gruppo continuerà a lavorare per consentire a tutti i 1.362 partecipanti alla Marcia di entrare a Gaza, come primo passo verso l’obiettivo finale che è quello di far cessare completamente l’assedio e liberare la Palestina” afferma Ziyaad Lunat , membro del Comitato Coordinatore della Marcia.

La Gaza Freedom March è stata organizzata per attirare l’attenzione sul primo anniversario dei 22 giorni di assalto Israeliano, che ha ucciso più di 1.400 Palestinesi, e ferito più di 5.000. Nonostante l’invasione sia tecnicamente terminata, gli effetti sulla popolazione sono solamente peggiorati negli ultimi 12 mesi. Non è consentito l’ingresso a Gaza al materiale da ricostruzione e più dell’80% degli abitanti di Gaza dipendono attualmente dalla beneficienza per mangiare.

I partecipanti alla Marcia avevano programmato di entrare a Gaza attraverso il valico Egiziano di Rafah, il 27 dicembre, per unirsi a circa 50.000 Palestinesi residenti e marciare verso il valico di Erez in Israele per chiedere pacificamente la fine dell’assedio. Invece, il governo Egiziano del Presidente Hosni Mubarak ha annunciato, solo qualche giorno prima che centinaia di delegate iniziassero ad arrivare al Cairo, che non avrebbero consentito alla Marcia di proseguire. Citando la tensione crescente ai confini. Quando i partecipanti alla marcia hanno dimostrato contro la decisione, il governo si è incrinato, utilizzando spesso poliziotti antisommossa pesantemente armati per circondare e intimidire i partecipanti alla Marcia non violenti. La decisione dell’Egitto di lasciar entrare solo 100 persone a Gaza dimostra che la motivazione della “sicurezza” è falsa.

Contatti:
Ann Wright, Egypt (19) 508-1493
Ziyaad Lunat, Egypt +20 191181340
Ehab Lotayef, Egypt +20 17 638 2628 (Arabic)

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fonte: Reset Italia

Auguri Urgenti d’Egitto per Gaza

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di Doriana Goracci

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Vorrei dire auguri a tutte e tutti quelli che ne hanno bisogno e sono tanti…cosa dovrei fare e cosa dire se arriva un messaggio telefonico così:

URGENTISSIMO: DAL CAIRO, AGGRESSIONE ALLA GAZA FREEDOM MARCH!!!!!!

31 dicembre 2009 ore 10,33,26 messaggio telefonico da Mari Alberto, componente del gruppo italiano partecipante alla Gaza Freedom March organizzato dal Forumpalestina: <<CARICATI DAVANTI AL MUSEO EGIZIO, ALCUNI CONTUSI, RESISTIAMO IN 500 CIRCONDATI SUL MARCIAPIEDE.>> Facciamo pressione perchè intervengano le autorità diplomatiche internazionali a frenare la repressione violenta del governo egiziano.Diffondete con rapidità la notizia mariano.

a cui è seguito un Comunicato Stampa che vi allego con punti esclamativi, data l’urgenza ? E l’approfondimento steso nella notte dalla Rete degli Ebrei contro l’Occupazione che scrivo di seguito al comunicato? E ancora “La manifestazione indetta dalla Gaza Freedom March stava cercardo di muovere i primi passi dal museo egizio del Cairo quando è stata brutalmente aggredita dagli apparati di sicurezza egiziani. “i poliziotti egiziani si sono scagliati contro di noi con bastoni e picchiando alla cieca” ci ha  riferito una manifestante con la voce rotta dall’emozione. Intanto arrivano sms dai manifestanti “siamo circondati dalla polizia egiziana al museo egizio temiamo nuove cariche.Fate sentire la nostra voce telefonate a tv, giornali, politici e mobilitatevi noi vogliamo raggiungere Gaza.”. Oggi pomeriggio a Roma, alle 16.00 manifestazione all’ambasciata egiziana (via Salaria 267, villa Ada).

A questo link  http://www.flickr.com/groups/gazafreedommarch/pool/show/with/4223762026/ che lascio in chiaro foto e video.

Vi chiedo  dunque di far girare a tutti i vostri contatti quanto succede al Cairo, il silenzio dei Media è vergognoso e dilagante. Scusate la forma, poco curata,  ma di sostanza credo ce ne sia e abbondante. Gli auguri ce li faremo poi…

Doriana Goracci

INTERNAZIONALI AL CAIRO MARCIANO VERSO GAZA PER PROTESTARE CONTRO L’ASSEDIO
(Cairo) A seguito del rifiuto Egiziano di consentire ai partecipanti alla Gaza Freedom March di entrare a Gaza, gli oltre 1.300 attivisti per la pace e la giustizia sono partiti a piedi. Nonostante i blocchi della polizia predisposti al Cairo con lo scopo di recintare i dimostranti e impedire loro di manifestare solidarietà con il popolo Palestinese, gli internazionali stanno spiegando i loro stendardi e invitano tutti i pacifisti del mondo di sostenerli e chiedere la fine dell’assedio di Gaza.

L’offerta Egiziana di lasciar entrare a Gaza solo 100 dei 1.400 partecipanti alla Marcia, è stata ritenuta dagli organizzatori della Marcia insufficiente e deliberatamente intenzionata a dividere. Nel frattempo, il Ministro degli Esteri Egiziano ha cercato di far passare questa offerta last-minute come espressione di buona intenzione nei confronti dei Palestinesi per isolare i “provocatori”. La Gaza Freedom March ha rifiutato categoricamente queste affermazioni. Gli attivisti sono al Cairo perché il governo Egiziano ha impedito loro di raggiungere Gaza. “Noi non vogliamo rimanere qui, Gaza è sempre stata la nostra destinazione finale”, afferma Max Ajl , partecipante alla Marcia.

Alcune persone hanno cercato di superare i blocchi della polizia e iniziare a marciare verso il punto di incontro a Tahreer Square al centro del Cairo. A loro si sono uniti Egiziani che volevano denunciare il ruolo del proprio governo nel sostenere l’assedio di Gaza. Le autorità hanno cercato di tenere separati gli internazionali dai locali. La polizia sta attaccando brutalmente i partecipanti , non violenti, alla Marcia. Molti poliziotti in borghese si sono infiltrati tra la folla e assaltano I partecipanti violentemente. “Sono stata sollevata dalla polizia Egiziana e sbattuta letteralmente contro le transenne” afferma Desiree Fairooz, una dimostrante. I partecipanti alla Marcia stanno cantando slogan di protesta e resistono ai tentativi di disperderli e giurano di rimanere nella piazza fino a quando non saranno autorizzati ad andare a Gaza. Lo striscione GFM è appeso ad un albero della piazza. Alcuni partecipanti alla Marcia stanno sanguinando e i celerini hanno distrutto le loro videocamere.

La Gaza Freedom March rappresenta persone da 43 nazioni con background diversi. Tra loro ci sono persone di ogni fede, leader di comunità, attivisti per la pace, dottori, artisti, studenti, politici, scrittori e molti altri. In comune hanno l’impegno alla nonviolenza e la determinazione a interrompere l’assedio di Gaza.

“L’Egitto ha provato in tutti i modi possibili ad isolarci e ad abbattere il nostro spirito” dicono gli organizzatori della Marcia. “Ma noi restiamo fedeli più che mai al nostro obiettivo di manifestare contro la tirannia e la repressione. Marceremo il più vicino possibile a Gaza, e se saremo fermati con la forza, chiederemo ai nostri sostenitori di protestare. Chiediamo a coloro che credono nella giustizia e nella pace ovunque siano nel mondo di sostenere le nostre iniziative per la libertà dei Palestinesi.”

Tra i partecipanti c’è anche Alice Walker, scrittrice e vincitrice del Premio Pulitzer, Walden Bello, membro del Parlamento Filippino, Luisa Morgantini, ex membro del Palamento Europeo per l’Italia. Più di 20 partecipanti alla marcia, tra cui l’ 85enne sopravvissuta all’Olocausto, Hedy Epstein, hanno intrapreso uno sciopero della fame contro il pesante ostruzionismo Egiziano, oggi entrano nel quarto giorno.

Gaza Freedom March: 100 delegati non possono sostituire la marcia

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E’ stata una notte di passione quella tra la terza e la quarta giornata della Gaza Freedom March: nel pomeriggio di ieri l’associazione americana Code Pink, una della capofila del comitato organizzatore, aveva infatti ottenuto un compromesso con la mediazione della first lady egiziana, stamattina sarebbero dovuti partire per Gaza 100 attivisti in rappresentanza della marcia. Nella notte la stragrande maggioranza delle altre organizzazioni coinvolte ha deciso di rifiutare l’offerta del governo egiziano e c’è stato anche il dietro front di Code Pink. Tuttavia i due pulman questa mattina sono partiti ugualmente con a bordo una settantina di persone, molti palestinesi con passaporto occidentale che cercavano di tornare a casa e qualche pacifista in dissenso con il comitato organizzatore. Al momento i pulman sono nel Sinai e a quanto pare gli attivisti potranno davvero entrare a Gaza. Domani 31 dicembre è la giornata chiave della marcia, quella in cui gli attivisti da Gaza avrebbero dovuto marciare verso il valico di Erez, quello con Israele, per ricongiunersi con decine di migliaia di altri in marcia dalla Cisgiordania e da Israele, invece ci sarà una grande manifestazione al Cairo. Gli organizzatori della GFM tengono a precisare che non era nelle loro intenzioni fare manifestazioni su territorio egiziano, il paese delle piramidi avrebbe dovuto essere di passaggio sulla strada per Gaza, tuttavia è prevedibile che domani anche il governo egiziano sia duramente contestato dai manifestanti per la sua complicità nella chiusura della Striscia di Gaza e per aver impedito la GFM. Nel frattempo le organizzazioni di Gaza che partecipano alla GFM hanno espresso la preoccupazione che l’assenza di un rilevante numero di attivisti internazionali alla marcia del 31 possa lasciar campo libero ad Hamas perchè possa trasformarla in una manifestazione “governativa”, cosa ritenuta ovviamente inaccettabile. Solo in serata si avrà un quadro chiaro delle iniziative di domani.

fonte: Reset Italia

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URGENTE: ITALIANI FERITI DURANTE UNA MANIFESTAZIONE PACIFICA IN CAIRO. LA POLIZIA EGIZIANA CONTINUA A COLPIRLI.

Avvisare ANSA e le agenzie di stampa. per info chiamare Alessandra: +20170550788
La polizia egiziana ha sequestrato i pullman delle delegazioni francese e italiana e sta impedendo loro anche di prendere i taxi per arrivare all’ambasciata italiana al Cairo.

Fate telefonate incazzate alla Farnesina 06 36225 chiedendo come mai non si mettono in contatto con loro

all’amb. egiziana in Italia 06 8440191 protestando
all’amb. italiana al Cairo 0020 101994599 chiedendo di provvedere immediatamente
al consolato d’Egitto a Milano 02 29518194 o 02 29516360

alla RAI che non dà notizie 06 3728620

I compagni stanno cercando di bloccare il traffico sotto il loro albergo ma hanno la polizia addosso!!

ricevuto via mail

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Contact Gaza Solidarity

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Featuring Drew McConnell (Babyshambles)

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SALUTE – Bangalore, il chirurgo “santo” e la sanità modello per i poveri / In India, a Factory Model for Hospitals Is Cutting Costs and Yielding Profits

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Anche la Banca mondiale vuole copiare il sistema applicato da Devi Shetty, un fenomeno economico che assicura cure specializzate agli indigenti

Bangalore, il chirurgo “santo”
e la sanità modello per i poveri

Migliaia di interventi al cuore ai figli dei contadini, pagati da milioni di micro-sponsor

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di RAIMONDO BULTRINI

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Bangalore, il chirurgo "santo" e la sanità modello per i poveriUna corsia di ospedale a Bangalore

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BANGALORE – L’ospedale è a qualche decina di chilometri dal centro di Bangalore, lungo la strada della prima celebre Silicon Valley indiana. L’edificio è moderno e mastodontico, ma all’interno anche gli spazi vasti sono appena adeguati alla massa di umanità sofferente che ottiene qui una dignità e un decoro spesso negati altrove.

Anche se gran parte del personale e dei medici è induista, la struttura dedicata al mecenate Narayana Hrudayalaya ha raccolto il motto principale di Madre Teresa e lo ha stampato sui muri delle moderne sale chirurgiche e negli uffici: “La mano che aiuta è più preziosa di quella che prega”. Non a caso il motore e l’anima del più grande ospedale privato indiano per le malattie cardiache è un chirurgo che operò e seguì per cinque anni la monaca albanese.

Devi Prasad Shetty era ancora un giovane talento rientrato a Calcutta da un ospedale di Londra quando la sua celebre paziente gli disse che il suo scopo al mondo era “salvare i bambini malati di cuore”. Ora che ha 54 anni è uno dei più stimati specialisti del suo Paese, ma è anche a suo modo un santo per migliaia di famiglie che conservano la sua foto sugli altari delle case dove ha ridato la vita a un neonato o un adulto. Un santo che però si intende d’affari e mantiene in attivo una struttura con 3000 letti.

Il segreto per guadagnare senza pesare sulle spalle dei pazienti poveri (l’ultimo utile è stato del 7,7 per cento), è una speciale assicurazione inventata personalmente dal medico. “Sette anni fa – racconta Shetty – l’associazione dei produttori di latte mi invitò a sponsorizzare una loro nuova bevanda a basso colesterolo. Io aderii a patto che i loro aderenti, più di un milione e 700mila, pagassero una piccolissima quota annuale per finanziare un fondo destinato solo alle operazioni chirurgiche. Cosa che fecero”.


Così è nato lo “schema Yeshasvini”, esteso oggi a più di 3 milioni di contadini: devolvono cinque rupie, 11 centesimi di dollaro al mese con cui coprire 1650 tipi di operazioni diverse presso una catena di 360 ospedali in tutta l’India. Dei soldi usufruisce appena lo 0,8 per cento dei soci, ma in tali proporzioni si tratta di migliaia di pazienti che senza Yeshasvini sarebbero certamente morti.

La Banca mondiale sta ora cercando di applicare questo schema anche in Africa, mentre nell’Andra Pradesh indiano aderisce già l’80 per cento della popolazione rurale, tanto che l’ex governatore e sponsor dell’assicurazione per i poveri è stato rieletto a furor di popolo. A ruota hanno seguito l’esempio il Tamil Nadu, lo Stato di Delhi, il Rajastan e altri.

Durante la visita che include la nuova ala dell’ospedale per i malati di tumore e il modernissimo Centro di Telemedicina, (impiantato gratuitamente dall’Ente spaziale indiano ISRO), Devi Shetty ci lascia assistere al dialogo in hindi intervallato dai sommessi pianti di una madre che non ha i soldi per operare il figlio di 11 anni seduto tra lei e il marito. E’ una delle tante famiglie alle quali deve ogni giorno infondere fiducia e aiutare con o senza Yeshavini. Per ora infatti dell’assicurazione usufruiscono solo i contadini, e un’operazione al cuore di difficoltà media costa al paziente 2000 dollari, poco più di 1500 euro. Una cifra bassa comparata a un analogo intervento negli Usa dove supera i 100mila dollari, ma assolutamente esorbitante per l’India.

“Sui due milioni e mezzo che ne hanno fatto richiesta lo scorso anno – spiega il dottor Shetty – solo 90 mila hanno potuto effettuare l’intervento”. Al Narayana, lui e la sua équipe hanno operato finora 4000 bambini con una riuscita superiore al 90 per cento. Statisticamente, il lavoro per i 47 chirurghi di Bangalore è superiore allo standard di qualsiasi altro ospedale al mondo. Con 3.174 bypass nel 2008, secondo il Wall Street Journal ha raddoppiato il record del più celebre omologo americano, la Cleveland Clinic, senza contare le 2.777 operazioni a cuore aperto del reparto di pediatria, il doppio di qualsiasi altra struttura.

Quando Devi Shetty ha dichiarato pubblicamente che da tremila intende passare presto a 30mila posti letto anche all’estero, qualcuno ha ironizzato sulla sua catena di montaggio dei cuori. Ma gli specialisti internazionali che hanno avuto accesso alle sale operatorie, hanno constatato la precisione e velocità con cui si opera al Narayana, proprio grazie alle continua pratica quotidiana.

Shetty non accetta di essere beatificato per “essersi solo comportato umanamente”, e spiega che il miracolo finanziario e sanitario del Narayana sono stati resi possibili grazie soprattutto al basso costo della manodopera, “che incide tra il 12 e il 20 per cento, contro il 70 – 90 per cento dell’India e dell’Occidente”.

Le scene che si ripetono quotidianamente davanti ai suoi occhi non lasciano però dubbi sul fatto che i genitori dei bambini salvati la pensino in tutt’altro modo. L’ultimo, il padre di un neonato che il cardiochirurgo ha appena accettato di operare gratuitamente: “Questo ospedale è un tempio – gli dice toccandogli i piedi in prostrazione – e voi medici siete degli dei”.

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sito dell’ospedale

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31 dicembre 2009

fonte:  http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/economia/bangalore-modello-sanit-/bangalore-modello-sanit-/bangalore-modello-sanit-.html?rss

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  • NOVEMBER 25, 2009

The Henry Ford of Heart Surgery

In India, a Factory Model for Hospitals Is Cutting Costs and Yielding Profits

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By GEETA ANAND

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BANGALORE — Hair tucked into a surgical cap, eyes hidden behind thick-framed magnifying glasses, Devi Shetty leans over the sawed open chest of an 11-year-old boy, using bright blue thread to sew an artificial aorta onto his stopped heart.

As Dr. Shetty pulls the thread tight with scissors, an assistant reads aloud a proposed agreement for him to build a new hospital in the Cayman Islands that would primarily serve Americans in search of lower-cost medical care. The agreement is inked a few days later, pending approval of the Cayman parliament.

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Tending to India’s Health-Care System

Ryan Lobo for The Wall Street JournalDr. Shetty prepares for surgery.

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Dr. Shetty, who entered the limelight in the early 1990s as Mother Teresa’s cardiac surgeon, offers cutting-edge medical care in India at a fraction of what it costs elsewhere in the world. His flagship heart hospital charges $2,000, on average, for open-heart surgery, compared with hospitals in the U.S. that are paid between $20,000 and $100,000, depending on the complexity of the surgery.

The approach has transformed health care in India through a simple premise that works in other industries: economies of scale. By driving huge volumes, even of procedures as sophisticated, delicate and dangerous as heart surgery, Dr. Shetty has managed to drive down the cost of health care in his nation of one billion.

His model offers insights for countries worldwide that are struggling with soaring medical costs, including the U.S. as it debates major health-care overhaul.

“Japanese companies reinvented the process of making cars. That’s what we’re doing in health care,” Dr. Shetty says. “What health care needs is process innovation, not product innovation.”

At his flagship, 1,000-bed Narayana Hrudayalaya Hospital, surgeons operate at a capacity virtually unheard of in the U.S., where the average hospital has 160 beds, according to the American Hospital Association.

Narayana’s 42 cardiac surgeons performed 3,174 cardiac bypass surgeries in 2008, more than double the 1,367 the Cleveland Clinic, a U.S. leader, did in the same year. His surgeons operated on 2,777 pediatric patients, more than double the 1,026 surgeries performed at Children’s Hospital Boston.

Next door to Narayana, Dr. Shetty built a 1,400-bed cancer hospital and a 300-bed eye hospital, which share the same laboratories and blood bank as the heart institute. His family-owned business group, Narayana Hrudayalaya Private Ltd., reports a 7.7% profit after taxes, or slightly above the 6.9% average for a U.S. hospital, according to American Hospital Association data.

The group is fueling its expansion plans through private equity, having raised $90 million last year. The money is funding four more “health cities” under construction around India. Over the next five years, Dr. Shetty’s company plans to take the number of total hospital beds to 30,000 from about 3,000, which would make it by far the largest private-hospital group in India.

At that volume, he says, he would be able to cut costs significantly more by bypassing medical equipment sellers and buying directly from suppliers.

Then there are the Cayman Islands, where he plans to build and run a 2,000-bed general hospital an hour’s plane ride from Miami. Procedures, both elective and necessary, will be priced at least 50% lower than what they cost in the U.S., says Dr. Shetty, who hopes to draw Americans who are uninsured or need surgery their plans don’t cover.

By next year, six million Americans are expected to travel to other countries in search of affordable medical care, up from the 750,000 who did so in 2007, according to a report by Deloitte LLP. A handful of U.S. insurance plans now give people the choice to be treated in other countries.

Some in India question whether Dr. Shetty is taking his high volume model too far, risking quality.

“On one level, it’s a damn good idea. My only issue with it comes from the fact that if you pursue wholesale volumes, you may give up something — which is usually quality,” says Amit Varma, a physician who serves as president of health-care initiatives for Religare Enterprises Ltd., a publicly listed financial services group in Delhi. Religare is part of a conglomerate that also owns Fortis Healthcare Ltd., a rival hospital chain.

“I think he has reached the point where if you increase volume any more, you could compromise patient care unless backed up by very robust standard operating procedures and processes,” Dr. Varma says.

But Jack Lewin, chief executive of the American College of Cardiology, who visited Dr. Shetty’s hospital earlier this year as a guest lecturer, says Dr. Shetty has done just the opposite — used high volumes to improve quality. For one thing, some studies show quality rises at hospitals that perform more surgeries for the simple reason that doctors are getting more experience. And at Narayana, says Dr. Lewin, the large number of patients allows individual doctors to focus on one or two specific types of cardiac surgeries.

In smaller U.S. and Indian hospitals, he says, there aren’t enough patients for one surgeon to focus exclusively on one type of heart procedure.

Narayana surgeon Colin John, for example, has performed nearly 4,000 complex pediatric procedures known as Tetralogy of Fallot in his 30-year career. The procedure repairs four different heart abnormalities at once. Many surgeons in other countries would never reach that number of any type of cardiac surgery in their lifetimes.

Dr. Shetty’s success rates appear to be as good as those of many hospitals abroad. Narayana Hrudayalaya reports a 1.4% mortality rate within 30 days of coronary artery bypass graft surgery, one of the most common procedures, compared with an average of 1.9% in the U.S. in 2008, according to data gathered by the Chicago-based Society of Thoracic Surgeons.

It isn’t possible truly to compare the mortality rates, says Dr. Shetty, because he doesn’t adjust his mortality rate to reflect patients’ ages and other illnesses, in what is known as a risk-adjusted mortality rate. India’s National Accreditation Board for Hospitals & Healthcare Providers asks hospitals to provide their mortality rates for surgery, without risk adjustment.

Dr. Lewin believes Dr. Shetty’s success rates would look even better if he adjusted for risk, because his patients often lack access to even basic health care and suffer from more advanced cardiac disease when they finally come in for surgery.

Dr. Shetty, 54 years old, is a lanky and chatty man. He grew up in Mangalore, another south Indian city, the eighth of nine children. Doctors were gods in the Shetty household, swooping in to save his restaurateur father who suffered from chronic diabetes and fell into diabetic comas several times in the young boy’s life.

He had already resolved to be a doctor when his fifth-grade teacher told the class that a South African surgeon had just performed the world’s first heart transplant. In that moment, Dr. Shetty says he decided to become a heart surgeon.

After graduating from medical college in India, Dr. Shetty trained in cardiac surgery at Guy’s Hospital in London, one of Europe’s top medical facilities. He had been operating there for six years when the Birla family, leading industrialists in India, decided to start a heart hospital in Calcutta. Dr. Shetty was brought in as the first director.

On returning to India in 1989, Dr. Shetty performed the first neonatal heart surgery in the country on a 9-day-old baby. He also confronted the reality that almost none of the patients who came to him could pay the $2,400 cost of open-heart surgery.

“When I told patients the cost, they would disappear. They literally didn’t even ask about lowering the price,” he says.

During that time, Mother Teresa had a heart attack, and Dr. Shetty was called to operate on her. From then on, he served as her personal physician. Two pictures of Mother Teresa still adorn the white walls of Dr. Shetty’s office, one with white type saying, “Hands that serve are more sacred than lips that pray.”

Dr. Shetty set about pursuing a heart hospital big enough to make a difference in a country where most of the people needing heart surgery can’t afford it. His father-in-law, the owner of a large construction company, agreed to build and finance a heart hospital in his wife’s hometown of Bangalore.

In 2001, the white-washed, red-roofed Narayana Hrudayalaya Hospital opened on 25 acres that had been a marshland around a cement factory.

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[Operation Cut Cases]
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A lobby with seating for hundreds is encircled by dozens of offices for surgeons to consult with patients. A giant statue of a many-headed deity — representing gods in the Hindu pantheon — stands in the center of the lobby.

In a second-floor operating room one October morning, Dr. Shetty finished sewing a new aorta onto the heart of his 11-year-old patient. The process provided an example of how he slashes costs. Four years ago, the sutures would have been bought from a Johnson & Johnson subsidiary. Today they are made by a Mumbai company, Centennial Surgical Suture Ltd.

Four years ago, Dr. Shetty scrutinized his annual bill for sutures — then $100,000 and rising by about 5% each year. He made the switch to cheaper sutures by Centennial, cutting his expenditures in half to $50,000.

“In health care you can’t do one big thing and reduce the price,” Dr. Shetty says. “We have to do 1,000 small things.”

He says he would also like to find lower-cost versions of his priciest medical equipment. But the Chinese makers that have brought good quality, cheaper machines to market don’t yet have enough local service centers to ensure regular maintenance.

So he is still buying equipment from General Electric Co. He pays $60,000 for echocardiography machines, which use sound waves to create a moving image of the heart, and $750,000 for cardiac catheterization labs, which produce images of blood flow in the arteries and allow surgeons to clear some blockages using stents and other devices.

V. Raja, head of GE’s health-care business in India, declined to comment on specific pricing, but says Dr. Shetty drives a hard bargain and wrestles some savings because he is such a big customer. Between Narayana Hrudayalaya and another hospital he runs in Calcutta, Dr. Shetty’s group performs 12% of India’s cardiac surgeries, Mr. Raja says.

Dr. Shetty also gets more use out of each machine by using some of them 15 to 20 times a day, at least five times more than the typical U.S. hospital.

Cardiac surgeons at Dr. Shetty’s hospitals are paid the going rate in India, between $110,000 and $240,000 annually, depending on experience, says Viren Shetty, a director of the hospital group and one of Dr. Shetty’s sons.

Dr. Shetty was paid almost $500,000 last year, according to the group’s audited financial statements.

Here, too, Dr. Shetty finds additional savings on the per-patient cost. His surgeons perform two or three procedures a day, six days a week. They typically work 60 to 70 hours a week, they say. Residents work the same number of hours.

In comparison, surgeons in the U.S. typically perform one or two surgeries a day, five days a week, operating fewer than 60 hours.

Dr. Shetty says doctor fatigue isn’t an issue at his hospital, and in general, his surgeons take breaks after three or four hours in surgery. The morning after Dr. Shetty operated on 11-year-old Mahesh Parashivappa, the boy sat in bed in the pediatric intensive care unit, a white bandage on his bare chest.

Virtually all of the 80 beds in the unit were full. K. Parashivappa, the boy’s father, a sugarcane worker from a village eight hours away, held a cup of water to his son’s lips. He says he’s known his son needed surgery since he was born with a congenital heart defect. The boy has never been able to run and play cricket like other children, hobbled by chronic shortness of breath and weakness.

Mr. Parashivappa says he can’t himself pay for the surgery, but it is covered by a farmers’ insurance plan that Dr. Shetty began several years ago in partnership with the state of Karnataka, which includes Bangalore.

Nearly one third of the hospital’s patients are enrolled in this insurance plan, which costs $3 a year per person and reimburses the hospital $1,200 for each cardiac surgery.

That is about $300 below the hospital’s break-even cost of $1,500 per surgery.

The hospital makes up the difference by charging $2,400 to the 40% of its patients in the general ward who aren’t enrolled in the plan. An additional 30% who opt for private or semi-private rooms pay as much as $5,000.

The father, in an untucked brown shirt, raised both hands to offer the traditional Indian greeting, “Namaste,” to Dr. Shetty as the hospital head stopped by his son’s bed. “Thank you for giving my son his life back.”

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Write to Geeta Anand at geeta.anand@wsj.com

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fonte:  http://online.wsj.com/article/SB125875892887958111.html

Quella corrida Vendola-Emiliano: “Solo una guerra tra super-ego”

IL RACCONTO/ Il primo cittadino: “Nichi usa le truppe cammellate contro il Pd”. Il governatore ribatte: “Michele è un uomo solo…”

https://i0.wp.com/www.pdcanosa.it/wp-content/uploads/2009/06/emiliano.jpghttps://i0.wp.com/media.panorama.it/media/foto/2009/01/22/49788827236c1_zoom.JPG

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di ANTONELLO CAPORALE

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BARIDichiarazione di pochi giorni fa di Michele Emiliano, sindaco di Bari: “Sputatemi in un occhio se sarò mai il candidato alla Regione”. Manifesto affisso dai fedelissimi di Nichi Vendola alcune ore dopo la discesa in campo del sindaco: “Emiliano iàpr l’ecchie” (Emiliano apri l’occhio).

Come sia stato possibile ridurre la primavera pugliese, uomini nuovi per un tempo nuovo, in furiosa corrida è questione tragicamente aperta. La disfida spopola in città. Agli angoli delle strade, al bar, in fila all’ufficio postale. Testimonianza di Gennaro Nunziante, autore dei testi e regista del film di Checco Zalone, il comico barese repentinamente assurto alla ribalta nazionale: “In qualunque conciliabolo si indica la mano magica di Massimo D’Alema. D’Alema è divenuto una presenza virtuale ma incombente, uno spirito ora divino e provvidenziale, ora demoniaco che disfa e uccide la speranza. E ciascuno si sente autorizzato a rivelare una sua confidenza, che ha i tratti dell’irreparabilità. ‘Massimo ha detto che Vendola è finito’. Giunge, secondo i canoni di una perfetta piéce teatrale, il secondo amico e afferma, in modo altrettanto solenne: ‘Massimo ha detto che Emiliano è out'”.

In effetti la corrida ha preso forma il giorno in cui D’Alema giunge a Bari con un foglietto in tasca: un sondaggio. È il segno vistoso della comunicazione berlusconiana ad acquisire un ruolo egemone e a obbligare a prendere atto di un dato matematico. Senza l’Udc di Casini si perde. “Dal momento che Vendola non avrebbe mai l’appoggio di Casini…”.


È da quel momento che il clima già turbolento acquista i tratti di una tragedia politica con aspetti di puro cabaret. Quel sondaggio e l’invito che segue produce una palla di fuoco dentro cui arde l’amicizia e il legame politico che aveva unito i destini di Vendola e Emiliano. Il primo governatore il secondo sindaco del capoluogo. Personaggi diversi ma popolari. Amati, riveriti, conquistati alla causa pugliese.

Da quel momento Emiliano scorda le promesse (“Giuro su San Nicola!”), gli impegni (“ribadisco che non sarò mai disponibile…”) e inizia con le pretese. E qui anche Franco Cassano, un sociologo che conosce Bari, le virtù e le miserie, le invidie, le ambizioni dei suoi protagonisti, afferma che c’è stato un diavolo tentatore. “Qualcuno ha indotto Emiliano in tentazione. E quel qualcuno si chiama D’Alema che disconosce la dimensione civica e anche le conquiste di una terra che non vuole dominatori”.

Se D’Alema è il cuoco di questo frittatone pugliese è tema ancora discutibile. Quel che è certo è il costo politico e sociale dell’operazione. Lo scrittore Mario Desiati, direttore editoriale di Fandango, assicura: “Emiliano poteva vivere di rendita per quindici anni con le realizzazioni compiute”. Ancora Cassano: “Sta segando il ramo su cui è appollaiato”. In effetti il sindaco vanta un palmares indiscutibile di opere. L’abbattimento del muro di Punta Perotti ha cambiato la geografia della città e ribaltato un luogo comune: il potere assoluto e monarchico dei costruttori. E poi la riapertura del Petruzzelli, la bonifica dell’area ex Fibronit, luogo di malanni e di morte. La riqualificazione del quartiere più degradato della città, San Paolo. La metropolitana di superficie.

Tutto rischia di essere scordato, revocato da quell’intendimento: candidarsi alla regione al posto di Vendola sei mesi dopo essere stato eletto al secondo mandato da sindaco. Dal quartier generale di Nichi sono iniziati a fioccare insulti e insinuazioni: è il risultato degli appetiti di amicizie pericolose.

Imprenditori che devono allargare il business, Cl e Legacoop che devono vendicarsi dell’emarginazione subita dalla gestione vendoliana della Regione. E l’acqua che in Puglia resta pubblica, boccone prediletto, qui si dice, dal gruppo Caltagirone, suocero di Casini, il nemico numero uno dell’attuale governatore. Che ora commenta: “Emiliano mi sembra un uomo solo. Ma gli voglio bene”. La sua assessora alla cultura, Silvia Godelli, psichiatra: “La grandiosità dell’ego è propria di una personalità border line”.

Secca la contraerea: Vendola non ha saputo tenere il centrosinistra unito, ha umiliato gli alleati, disegna le sue ambizioni puntando a dividere il Pd… E poi sulla sanità ha fatto finta di cadere dalle nuvole. Ha fatto finta? Ecco la vampata che ha trasformato un’amicizia in odio e reso il Pd un partito immobile, vuoto. Un fortino poi valicato e offeso da incursioni popolari (“le truppe cammellate di Vendola” ultima accusa) che ne hanno decretato l’inconsistenza.

Il segretario regionale Sergio Blasi, dalemiano, che non sa cosa fare. Anzi, dice: “Servono le primarie”. Emiliano accetta, “senza condizioni”. Poi ci ripensa e chiede una legge che non lo obblighi a rinunciare preventivamente alla poltrona di sindaco di Bari. Una legge ad personam, altro modello ricavato dal berlusconismo, che nessuno nel centrosinistra riesce a garantire e che il centrodestra non ha alcuna intenzione di concedere. Ad oggi, ma tutto qui è così provvisorio, le primarie si faranno. Ma Vendola le dà per certe il 17 gennaio. Emiliano punta al 24. Perché il 20 gennaio si riunisce il consiglio regionale e la norma ad personam potrebbe essere in quella occasione discussa e approvata.

Tranquilli e seduti. C’è ancora tempo per cambiare opinione e anche scena della disfida. Lo spettacolo non è affatto finito…

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31 dicembre 2009

fonte:  http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/politica/regionali-2010-2/caporale-31dic/caporale-31dic.html?rss

Contro l’asteroide che minaccia la Terra: Mosca pronta a missione Armageddon

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L’asteroide Apophis si potrebbe schiantare sulla Terra nel 2036. I russi pensano di lanciare un missile per distruggerlo

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MOSCA
Proprio come nei film “Armageddon”
e “Depp Impact” la Terra rischia di essere colpita da un asteroide. Dopo la profezia sul 2012, una nuova ombra investe il mondo. La data cruciale sarebbe il 2036. Sulla base dei dati forniti dall’Agenzia Spaziale, Apophis, questo il nome dell’asteroide-killer, potrebbe schiantarsi contro il pianeta. Per questo motivo “il distruttore” è da tempo sotto stretto controllo. Come riporta Fox News, la Russia avrebbe pensato di intervenire, lanciando un missile contro il “nemico”. Il capo dell’Agenzia Spaziale Anatoly Perminov ha detto alla radio Golos Rossii (Voce della Russia) che una tale missione potrebbe rendersi necessaria per evitare che Apophis colpisca il nostro pianeta.
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Quando Apophis fu scoperto nel 2004, gli astronomi stimavano le probabilità di uno schianto pari a 1 su 37. Ulteriori studi, poi, hanno escluso qualsiasi possibilità di un impatto nel 2029, ma secondo quanto ha dichiarato Perminov nessuna ipotesi può essere scartata. Si ritiene che il 13 aprile 2029 Apophis – nome greco del dio dell’Antico Egitto Apòfi, detto «il distruttore» – si troverà a una distanza così ravvicinata, da raggiungere una magnitudine pari a 3,3, tanto da poter essere individuato a occhio nudo senza difficoltà. Questo incontro ravvicinato sarà visibile in una vasta zona che comprende Europa, Africa e Asia occidentale.
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Già in passato Apophis aveva fatto parlare di sè. Cinque anni fa causò fece scattare un primo allarme, poiché le osservazioni iniziali indicavano una probabilità relativamente alta di collisione. Tuttavia, osservazioni successive hanno permesso migliori previsioni e una determinazione dell’orbita più precisa, che di fatto hanno escluso la possibilità di un impatto con il nostro pianeta o con la Luna per quella data. Comunque, la probabilità di un impatto per il 13 aprile 2036 rimane ancora elevata, mantenendo l’asteroide al livello 1 di pericolo.
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30 dicembre 2009
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