Archivio | luglio 18, 2007

Fernanda Pivano compie 90 anni


Le rendiamo omaggio pubblicando due sue interviste..
AUGURI FERNANDA!!
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Pseudo-intervista di Fernanda Pivano a Edgar Lee Masters

La prima volta che riuscii ad andare in America, nel 1956, Edgard Lee, Masters era morto da sei anni. Con l’aiuto di un senatore radicale amico di James Farrelli riuscii ad arrivare nelle zone dello Illinois che ispirarono l’Antologia di Spoon River: su automobili di giornalisti pre-rivoluzionari o su monoplani dal volo a dir poco imprevedibile mi ritrovai a Petersburg, il villaggio di 3.000 abitanti vicino al fiume Sangamon dove Masters trascorse l’infanzia; e di lì, nel villaggio ancora più piccolo di Lewistown, a pochi chilometri dal fiume Spoon, dove Masters andò a vivere a 11 anni e dove rimase finché andò a tentare la fortuna a Chicago. Invece di parlare con Masters dovetti accontentarmi di parlare coi suoi ormai vecchi amici e nemici, la bibliotecaria che gli prestava i libri greci, il figlio dei direttore del giornale (il direttore che gli rubò la fidanzata) e così via.

A quei tempi non usavano ancora le interviste, né le registrazioni su nastro. Ma nel 1915 quando il volume uscì in America e di anno in anno diventò sempre più popolare fino il restare ininterrottamente un best-seller, e tanto più adesso con le edizioni tascabili (anche in Italia Einaudi dal 1943 ne ha fatto 36 edizioni), Masters scrisse varie autobiografie e molti articoli: da queste autobiografie e da questi articoli ho ricostruito una pseudo-intervista.

Pivano Come ti è venuto in mente di scrivere l’antologia di Spoon River?

Masters Mentre facevo l’avvocato a Chicago e mi aggiravo nei tribunali e frequentavo la cosiddetta società… giunsi alla conclusione che il banchiere, l’avvocato, il predicatore, le antitesi del bene e del male non erano diverse nella città e nel villaggio… Cominciai a sognare di scrivere un libro su una città di campagna che avesse tanti fili e tanti tessuti connettivi da diventare la storia del mondo intero.

P. Qual è il villaggio che hai ritratto, Lewistown o Petersburg?

M. Ho trascorso più o meno lo stesso numero di anni nei due villaggi. Ma a Lewistown ho visto la gente con occhi maturi e in circostanze che avevano acuito la mia osservazione. Petersburg era soltanto una fiera di campagna con molta gente; Lewistown era un microcosmo organizzato… E stato il fiume Sangamon, non lo Spoon a fornirmi lo spunto per l’Antologia. Però 53 poesie sono ispirate a nomi delle regioni di Petersburg, 66 a nomi della regione del fiume Spoon… Le tombe che ho descritto sono di Petersburg, ma la collina è di Lewistown.

P. Quanti personaggi hai descritto nel libro?

M. 244. Ci sono 19 storie sviluppate in ritratti intrecciati. Ho trattato tutte le occupazioni umane consuete, tranne quelle del barbiere, del mugnaio, dello stradino, dei sarto e del garagista (che sarebbe stato un anacronismo).

P. Quando hai cominciato a scriverlo, questo Spoon River?

M. Il 10 maggio 1914 mia madre venne a trovarmi a Chicago… Chiacchierando riandammo al pssato di Lewistown e di Petersburg, rievocando personaggi e avvenimenti che mi erano sfuggiti di mente… Una domenica, dopo averla accompagnata al treno, mentre suonava la campana della chiesa e la primavera era nell’aria, scrissi La Collina e i ritratti di Fletcher MeGee e Hod Putt… Mi venne quasi subito l’idea: perché non fare così il libro che avevo immaginato nel 1906, in cui volevo rappresentare il macrocosmo descrivendo il microcosmo?

P. Quando e dove uscirono queste prime poesie?

M. Sulla rivista di William Marion Reedy, il “Mirror” di St. Louis. Uscirono il 29 maggio 1914, sotto lo pseudonimo di Webster Ford

P. E le poesie successive?

M. Dal 20 maggio 1914 al 5 gennaio 1915 inondai dì epitaffi il “Mirror”… nell’estate erano già citati e parodiati in tutta l’America ed erano già arrivati in Inghilterra… Scrivevo quando potevo, il sabato pomeriggio e la domenica. Gli argomenti, i personaggi, i drammi mi venivano in mente più in fretta di quanto li potessi scrivere. Così presi l’abitudine di annotarmi le idee, o magari scrivere le poesie, sui rovesci delle buste, sui margini dei giornali. quando ero in tram o in tribunale o al ristorante.

P. Fino a quando hai conservato l’incognito?

M. Reedy pubblicò il mio vero nome nel numero del “Mirror” del 20 novembre.

P. E quando è uscito il volume?

M. Nell’aprile 1915.

P. Come l’hanno preso quelli che hanno ispirato le poesie?

M. Come un rozzo attacco di un figlio sleale della comunità e cominciarono subito a identificare nei vari epitaffi persone viventi o che avevano vissuti lì attorno… A mia madre non piacque, a mio padre piacque moltissimo… John Cowper Powys fece una conferenza a Chicago e ciò che disse mi atterrì e mi attribuì una responsabilità che non potevo sopportare.

P. In realtà qual’era la tua intenzione?

M. Di ridestare quella visione americana, quell’amore della libertà che gli uomini migliori della Repubblica si sono sforzati di conquistare per noi e di tramandare nel tempo.

FERNANDA PIVANO
ottobre 1971

….

Intervista di Fernanda Pivano a Fabrizio de André

Pivano Hai voglia di raccontarci come ti è venuto in mente di fare questo disco?

Fabrizio Spoon River l’ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi si Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.

P. Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a “comunicare”? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani?

F. Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne temi che si adattassero ai tempi nostri, e siccome nei dischi racconto sempre le cose che faccio, racconto la mia vita, certo di esprimere i miei malumori, le mie magagne (perché penso di essere un individuo normale e dunque penso che queste cose possano interessare anche agli altri, perché gli altri sono abbastanza simili a me), ho cercato di adattare questo Spoon River alla realtà in cui vivo io. Perché ho scelto Spoon River e non le ho addirittura inventate io, queste storie? Dal punto di vista creativo, visto che c’era stato questo Signor Lee Masters che era riuscito a penetrare così bene nell’animo umano, non vedo perché avrei dovuto riprovarmici io.

P. Sicché le grosse manipolazioni che hai fatto sui testi sono state come delle operazioni chirurgiche per rendere il libro attuale, contemporaneo?

F. Sì. Addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli alla piccola borghesia della piccola America del 1919 ed inserirli nel nostro tipo di vita sociale. Quando dico borghesia non dico babau, dico la classe che detiene il potere e ha bisogno di conservarselo, no?, il suo potere. Ma anche nel nostro tipo di vita sociale abbiamo dei giudici che fanno i giudici per un senso di rivalsa, abbiamo uno scemo di turno di cui la gente si serve per scaricare le sue frustrazioni (è tanto comodo a tutti, uno scemo…)

P. Dal libro hai preso nove poesie, scegliendole tra le più adatte a spiegare due temi che sembravano le più insistenti costanti della vita di provincia: l’invidia (come molla del potere esercitata sugli individui e come ingnoranza nei confronti degli altri) e la scienza (come contrasto tra l’aspirazione del ricercatore e la repressione del sistema). Perché proprio questi due temi?

F. Per quanto riguarda l’invidia perché direi che è il sentimento umano in cui si rispecchia maggiormente il clima di competitività, il tentativo dell’uomo di misurarsi continuamente con gli altri, di imitarli o addirittura superarli per possedere quello che lui non possiede e crede che gli altri posseggano. Per quanto riguarda la scienza, perché la scienza è un classico prodotto del progresso, che purtroppo è ancora nelle mani di quel potere che crea l’invidia e, secondo me, la scienza non è ancora riuscita a risolvere problemi esistenziali.

P. Chi ha fatto questa scelta dei temi e delle poesie?

F. Dopo aver fatto la scelta ne ho parlato con Bentivoglio al quale ho proposto di aiutarmi in questo lavoro. Tra noi ci sono state molte discussioni, come è ovvio e come è giusto. Bentivoglio tendeva a fare un discorso politico e io volevo fare un discorso essenzialmente umano. Alla fine la fatica più dura è stata, mai rinunciando a esprimere dei contenuti, quella di accostarsi il più possibile alla poesia. Fatica a parte devo dire che vorre incontrare un centinaio di Bentivoglio nella vita: se vivessi cent’anni, un disco all’anno, sarei l’autore di canzoni più prolifico del mondo.

P. Puoi spiegarmi meglio l’idea del malato di cuore come alternativa all’invidia?

F. Se ci riuscissi. Gli altri personaggi si sono lasciati prendere dall’invidia e in qualche maniera l’hanno risolta, positivamente o negativamente (lo scemo che per invidia studia l’enciclopedia britannica a memoria e finisce in manicomio, il giudice che per invidia raggiunge abbastanza potere da umiliare chi l’ha umiliato, il blasfemo che è un esegeta dell’invidia e per salirne alle origini la va a cercare in Dio); invece il malato di cuore pur essendo nelle condizioni ideali per essere invidioso compie un gesto di coraggio e…

P. Possiamo dire che ha scavalcato l’invidia perché a spingerlo non è stata la molla del calcolo ma è stata la molla dell’amore?

F. Ma sì, l’avrei detto io se non lo avessi detto tu.

P. E allora possiamo concludere con la vecchia proposta di Masters, che a trionfare sulla vita è soltanto chi è capace di amore?

F. Sì, a trionfare sono i “disponibili”.

P. Anche per il gruppo della scienza hai trovato un’alternativa, vero? Bentivoglio mi diceva che per rappresentare il tema della scienza hai scelto il medico che ha cercato di curare i malati gratis ma non c’è riuscito perché il sistema non glielo ha permesso, il chimico che per paura si rifugia nella legge e nell’ordine come fatto repressivo e l’ottico che vorrebbe trasformare la realtà in luce e nel quale hai visto una specie di spacciatore di hashish, una specie di Timothy Leary, di Aldous Huxley. In che modo il suonatore di violino è un’alternativa?

F. Il suonatore di violino (che è diventato per ragioni metriche di flauto) è uno che i problemi esistenziali se li risolve, e se li risolve perché, ancora, è disponibile. E’ disponibile perché il suo clima non è quello del tentativo di arricchirsi ma del tentativo di fare quello che gli piace: è uno che sceglie sempre il gioco, e per questo muore senza rimpianti. Non ti pare perché ha fatto una scelta? La scelta di non seppellire la libertà?

P. Allora si può dire che è questo il messaggio che hai voluto trasmettere con questo disco? Perché siamo abituati a pensare che tutti i tuoi dischi hanno proposto un messaggio: quello libertario e non violento delle tue prime ballate, come nella Guerra di Piero, quello liberatorio della paura della morte come in Tutti morimmo a stento, quello demistificante dei personaggi del Vangelo, come nel Testamento di Tito. Qual è il messaggio di questo Spoon River?

F. Direi, tutto sommato, che siamo usciti dall’atmosfera della morte per tentare un’indagine sulla natura umana, attraverso personaggi che esistono nella nostra realtà, anche se sono i personaggi di Masters.

P. E’ chiaro che le poesie le hai tutte rifatte. Per esempio, nella poesia del blasfemo, tu hai aggiunto un’idea che non era in Masters, quella della “mela proibita”, cioè della possibilità di conoscenza, non più detenuta da Dio ma detenuta dal potere poliziesco del sistema.

F. Non mi bastava il fatto traumatico che il blasfemo venisse ammazzato a botte: volevo anche dire che forse è stato il blasfemo a sbagliare, perché nel tentativo di contestare un determinato sistema, un determinato modo di vivere, forse doveva indirizzare il suo tipo di ribellione verso qualcosa di più consistente che non un’immagine così metafisica.

P. Mi diceva Bentivoglio che se la “mela proibita” non è in mano a un Dio ma al potere poliziesco, è il potere poliziesco che ci costringe a sognare in un giardino incantato. Cioè, il giardino incantato non è più quello divino dove secondo Masters l’uomo non avrebbe dovuto sapere che oltre al bene esiste il male.

F. Sì, in realtà per il blasfemo il giardino incantato non è stato creato da Dio ma è stato addirittura inventato dall’uomo e comunque la “mela proibita” è ancora sulla terra e noi non l’abbiamo ancora rubata. A questo punto hai capito che cosa voglio dire io per sognare: voglio dire pensare nel modo in cui si è costretti a pensare dopo che il sistema è intervenuto a staccarci decisamente dalla realtà.

P. Mi pare che la tua aggiunta non sia una forzatura, perché anche nella denuncia della manipolazione del pensiero, del lavaggio mentale esercitato dal sistema, Masters è un precorritore dei nostri problemi. Cerca di dirmi in che modo, quando eri ragazzo, a un ragazzo della tua generazione Masters è sembrato un contestatore.

F. Perché denuncia i difetti di gente attaccata alle piccole cose, che non vede al di là del proprio naso, che non ha alcun interesse umano al di fuori delle necessità pratiche.

P. Cioè più che la sua contestazione politica ti ha interessato la sua contestazione umana?

F. Sì, secondo me il difetto sostanziale sta nella natura umana.

P. Ritornando alle tue manipolazioni del testo, possiamo dire che l’aggiunta di questo concetto della “mela proibita” non detenuta da Dio ma dal potere del sistema è la manipolazione più grossa. D’altronde è passato mezzo secolo da quando Masters ha scritto queste poesie, sicché se questa galleria di ritratti la potesse riscrivere adesso non c’è dubbio che la sua vena libertaria gli farebbe inserire elementi che si è limitato a sfiorare come precorritore. Questo vale anche per l’altra grossa manipolazione che hai fatto, quella dell’ottico visto come proposta di un’espansione della coscienza. Ma proprio dal punto di vista stilistico, perché hai sentito la necessità di cambiare la forma poetica di Masters? Bentivoglio mi diceva che il verso libero di queste poesie non ti serviva, avevi bisogno di ritmo e di rima, questo è chiaro. Ma sembra quasi che tu abbia voluto divulgare, spiegare a tutti i costi.

F. Sì. Mi pareva necessario spiegare queste poesie; poi c’era la necessità di farle diventare delle canzoni. Cioè delle storie e una storia non è un pretesto per esprimere un’idea, dev’essere proprio la storia a comprendere in sé l’idea.

P. Ma come spieghi per esempio il fatto di aver usato parole di un linguaggio contemporaneo quasi brutale, per esempio nel verso della poesia del giudice “un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del c…” e di avere per esempio inserito immagini come “le cosce color madreperla” in poesie che pur essendo piene di sesso sono espresse per lo più in forma asettica, quasi asessuata?

F. Perché anche il vocabolario al giorno d’oggi è un po’ cambiato, e io ero spinto soprattutto dallo sforzo di spiegare il vero significato di queste cose. Quanto alla definizione del giudice, questo è un personaggio che diventa carogna perché la gente lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente.

P. Tutto sommato mi pare che queste siano state le manipolazioni più pesanti che hai fatto ai concetti e al testo di Masters; e d’altra parte quando il libro è uscito, ai suoi contemporanei è sembrato tutt’altro che asettico e asessuato: il gruppo dei Neo-Umanisti lo aggredì come “iniziatore di una nuova scuola di pornografia e sordido realismo”.

F. Capirai.

P. Comunque sono certa che non deluderai i tuoi ammiratori, perché le poesie le hai proprio scritte tu, con quella tua imprevedibile, patetica inventiva nelle rime e nelle assonanze, proprio come nelle poesie dell’antica tradizione popolare. Ma fino a che punto, per esempio, ti sei identificato col suonatore di violino (Jones, che nel ’71 suona il flauto) che conclude il disco? E non voglio alludere al fatto che da ragazzo ti sei accostato alla musica studiando il violino.

F. Non c’è dubbio che per me questa è stata la poesia più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e di complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per puro divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutt’altro che facile. Capisci? Per Jones la musica non è un mestiere, è un’alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio.

Fernanda PIVANO

Intervista registrata a Roma il 25 ottobre 1971.

F. Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt’altra tendenza. E’ successo tra il ’37 e il ’41: quando questo ha significato coraggio.

Fabrizio DE ANDRE’

fonte: http://www.prato.linux.it/~lmasetti/percorsi_incrociati/spoonriver/intervista_pivano_de_andre.php

Venduta a 12 anni dalla madre per pagare la pay tv


Palermo, il terribile racconto di una baby prostituta


PALERMO
(18 luglio)
Ha visto il suo primo cliente a dodici anni. Lo portò la madre – 38enne analfabeta con cinque figli a carico – che per pagare il canone di Sky era disposta a venderla al miglior offerente. Oggi, due anni dopo, grazie a una terribile testimonianza resa davanti agli investigatori, la ragazzina ha fatto scattare il quinto arresto nell’ambito di una inchiesta della procura di Palermo che aveva già portato in carcere quattro persone, tra cui la madre.

«Era mattina e c’era freddo – così ha raccontato la sua prima volta la ragazzina agli investigatori -. Lui disse a mia madre: “Falla venire con me, che dopo ci accatto i robbi” (le compro le cose, ndr). Ma mi portò a Capo Gallo al mare e mia madre si arrabbiò perché al ritorno non avevo portato i robbi. Quella volta ho pianto e lui mi disse: “Niente, poi ti passa”». Dai racconti fatti fra le lacrime dalla baby prostituta ai carabinieri viene fuori una squallida storia di ricatti, di riprese dei rapporti della bambina con i clienti, di droga. Ma anche di una famiglia allo sbando nel quartiere Zen di Palermo: un padre semianalfabeta («sa solo firmare», racconta la figlia), che picchia la moglie e i figli.

In carcere erano già finiti, lo scorso aprile, oltre alla madre, anche Francesco Muscatello, 57 anni; Maurizio Modica, 41, e Giuseppe Librera, 65. Oggi invece è scattato l’arresto per il venditore ambulante Francesco Ingrassia, 60 anni. È stata la stessa ragazzina, ascoltata alla presenza di psicologi ed esperti, a tirarlo in ballo, raccontando nei minimi particolari gli orrori a cui era costretta in cambio di pochi euro. Secondo l’accusa, Francesco Muscatello – a cui subito dopo l’arresto, per “punizione”, qualcuno aveva bruciato l’officina – avrebbe ricattato la ragazza per “convincerla” ad avere con lui altri rapporti sessuali. «Se non sali – avrebbe detto alla baby prostituta – ci cuntu tutti cosi (racconto tutto ndr) a tuo padre».

A incastrare i clienti finiti in cella e la stessa madre della ragazzina, sono state anche le intercettazioni telefoniche compiute la scorsa primavera. In particolare, c’è una registrazione, del 14 aprile 2007, tra la madre della ragazza e Muscatello, uno dei clienti. Quando l’uomo chiede alla donna di vedere la figlia la donna risponde: «È andata a comprare le scarpe per Francesca, appena viene la faccio salire…». E lui: «A soldi, come stai messa?». «A piedi». E l’uomo: «Va beh, quando sale lei poi vediamo quello che ti posso dare…».

In un’altra telefonata intercettata tra la donna e Muscatello, la madre della ragazzina si lamenta del fatto che la figlia è ancora a letto e che non può mandarla dal cliente. A un certo punto, la ragazza si alza dal letto e la madre le dice di andare da Muscatello. «Che devi fare? – le chiede – scendi adesso o dopo mangiato?». E la figlia replica: «Dopo pranzo». La madre le passa lo stesso Muscatello, che la ricatta al telefono: «Vengo dopo mangiare e basta!» E lui: «Ma devi stare un’ora con me… eh! Vedi che ti ricatto, ho le cose per ricattarti». E la ragazzina: «Lo so».

Nel corso dell’interrogatorio, la giovane ha chiesto più volte di far uscire il pm Marcello Viola e il consulente tecnico Vincenzo Barbato, perché si vergognava a parlare davanti a due uomini. Di fronte al pm Alessia Sinatra ha rivelato invece una storia atroce di violenze e pedopornografia. «Mi dava 15 o 25 euro – ha raccontato agli investigatori la ragazza riferendosi a Francesco Ingrassia, l’uomo arrestato all’alba di oggi -. E io quei soldi li davo a mamma».

Una mamma che però la picchiava, soprattutto quando tornava a casa senza soldi dopo aver avuto incontri con i clienti. «Quando dovevo andare da questi – ha raccontato la ragazza – mia madre mi diceva: “Vacci cinque minuti”, io ci dicevo no e lei mi diceva di andare, tanto le portavo i piccioli (i soldi, ndr). Mia madre mi ricattava. Se non le davo i soldi diceva tutto a mio padre».

I consulenti della Procura di Palermo, dopo avere ascoltato la ragazza, hanno ritenuto «attendibili» tutti i suoi racconti. «Le dichiarazioni rese dalla minore – scrivono gli psicologi – possiedono le caratteristiche dei racconti credibili e i suoi vissuti appaiono compatibili con i contenuti delle esperienze narrate».

Uno degli arrestati, Francesco Muscatello, nel corso dell’interrogatorio di garanzia, davanti al gip del Tribunale subito dopo il fermo, aveva ammesso – anche se parzialmente – la propria responsabilità, «dichiarando – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – di avere compiuto atti di contenuto sessuale con la minore, in particolare rapporti orali, e ammettendo di avere in tali occasioni filmato la ragazza per mezzo del proprio telefono cellulare».

fonte: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=5471&sez=HOME_INITALIA#

PEDOFILIA – Lettera in risposta alla dichiarazione di don Di Noto

Lettera in risposta alla dichiarazione di don Di Noto, che i preti pedofili si dimettano spontaneamente o di autorità dallo stato clericale

Caro don Di Noto,

se il tuo sdegno per l’olocausto degli innocenti consumato da “mani consacrate” è sincero deve essere coerente fino in fondo, vero? Quindi non può limitarsi a puntare il dito sugli esecutori materiali del “delitto”, ma deve ricercarne le cause, che, per così dire, sono come i suoi mandanti.

Inevitabile chiedersi: come è possibile arrivare a questi eccessi con tante pratiche di pietà, studi teologici, ritiri, messe? La formazione seminaristica sessuofoba e misogina non ha una qualche relazione di causa ed effetto con questi fatti non certo “isolati”? Se per anni si induce il candidato a ignorare, se non a cancellare la propria corporeità, si potranno mai produrre presbiteri maturi? Se fin da ragazzi si è “educati” a vedere la sessualità con gli occhiali neri della cultura pagana (gnostica e manichea), come potremo avere dei preti capaci di portare il giogo della castità? Non è temerarietà spedirli in parete da sesto grado senza l’equipaggiamento necessario? Non a caso la “Convenzione sui Diritti del minore” ne proibisce il reclutamento fuori dall’ambiente familiare (U.N. General Assembly, Document A/RES/44/25, 12.12.1989. Lo Stato della Città del Vaticano non l’ha firmata).
Eppure in Italia ci sono 123 seminari minori, camuffati da “convitti o semi-internati”, giustificando una segregazione vera e propria con la scusante: “Ma vanno a casa il sabato e la domenica”. Se la cultura della sessualità è la stessa che ha prodotto i preti pedofili, non è evidente che si perpetuano le radici del crimine?
La Commissione indipendente, quindi non sospetta, disposta dai vescovi americani (2004) dice in proposito:
“Molti testimoni affermano, che (…) ai seminaristi è negato un normale sviluppo psicologico. Infatti alcuni, ordinati sui 25 anni, hanno la maturità emozionale di un adolescente. La mancanza di uno sviluppo psico-sessuale “normale” può aver impedito ad alcuni di raggiungere uno stato celibatario sano e si può spiegare come alcuni abbiano ricercato la compagnia di adolescenti. La Commissione è colpita dal gran numero di coloro che lo affermano e ritiene che questo fenomeno sia una causa dell’incidenza degli abusi sessuali. (…) Diverse diocesi hanno chiuso i seminari minori. Vescovi e rettori devono garantire un ambiente in cui i ragazzi siano in grado di crescere non solo intellettualmente e spiritualmente, ma anche emozionalmente. (…) Il candidato che non sembra adatto deve essere rifiutato e i risultati della valutazione devono essere condivisi tra le diocesi. Per molti anni, i seminari si sono focalizzati quasi esclusivamente sulla preparazione intellettuale a scapito di quella umana. (…) L’81% delle vittime di abusi sessuali sono ragazzi e questo significa che la crisi è caratterizzata da comportamenti omosessuali. (…) Negli ultimi 15 anni è diventato di routine chiedere al candidato il suo orientamento sessuale. Alcuni vescovi non accettano aspiranti con orientamento omosessuale, che considerano un impedimento all’ordinazione. (…) Uno psichiatra riferisce che alcuni preti con difficoltà affermano che “nel presbiterato si possono coprire problematiche sessuali”. (…) Ci sono molte altre problematiche relative al celibato che possono essere terreno fertile per altri scandali. Numerosi testimoni credono che vi siano molti più casi di relazioni sessuali tra preti e donne o adulti consenzienti. Sebbene non sia un crimine, queste persone sono spesso vulnerabili e in tutti i casi tale condotta è gravemente immorale. I vescovi non possono permettere che ciò si verifichi senza conseguenze. Dichiarare che “non è affare di nessuno” è fondamentalmente sbagliato. Se un prete tiene fede alle sue promesse e vive secondo i precetti morali della Chiesa è affare del vescovo, dei confratelli e dei parrocchiani”.

A ragione affermi trattarsi di preti che non avrebbero mai dovuto essere ordinati e che non dovrebbero esercitare questo ministero donato da Dio alla Chiesa.
Ma allora non avrebbero mai dovuto essere ordinati vescovi neppure quelli che hanno collaborato a produrre altre vittime, spostando i preti notoriamente pedofili da una parrocchia all’altra? Non sono complici dei misfatti successivi? Non dovrebbero dimettersi spontaneamente e fare penitenza? Il card. Law, l’arcivescovo di Firenze, il vescovo di Agrigento, e tanti altri, continuano a pontificare e a godere dei loro privilegi.

E ancora: Se la colpa è accertata e ammessa non può rimanere nella Chiesa; non può sentirsi in comunione con la comunità dei credenti. (…) E’ meglio per lui lasciare il ministero, volontariamente o con atti formali di “scomunica”.
Questo non vale anche per i vescovi? Senti cosa dice la Commissione dei vescovi americani:
“I membri della Commissione sollecitano, affinché si guardi allo scandalo come lo scandalo anche dei vescovi oltre che dei preti, che potrebbero domandarsi: perché i vescovi non hanno subito le stesse conseguenze? (…) Le azioni di quei preti sono gravemente peccaminose e l’inazione di quei vescovi che non hanno protetto i fedeli è altrettanto peccaminosa. In qualche modo, “il fumo di Satana” è stato lasciato entrare nella Chiesa e ne è rimasta profondamente ferita. La sua autorevolezza e credibilità in materia morale è stata gravemente danneggiata. (…) Le risposte di troppi vescovi sono state improntate al lassismo morale, eccessiva clemenza, insensibilità, segretezza, negligenza. Le principali trascuratezze sono: (i) relazione inadeguata con le vittime; (ii) aver permesso ai pedofili di restare in situazione di rischio; (iii) sono stati trasferiti senza informare i nuovi superiori; (iv) occultare le accuse alle autorità civili (v) evitare la riduzione allo stato laicale dei rei confessi. (…) Alcuni vescovi non hanno colto la gravità del problema. Hanno trattato le vittime come avversari e nemici del bene della Chiesa. Troppo spesso hanno trattato i preti accusati come persone che avevano bisogno di assistenza psicologica o di cambiare ambiente, piuttosto che veri e propri criminali che andavano rimossi dal ministero e denunciati alle autorità civili. Questi approcci non hanno risolto ma esacerbato il problema. (…) Alcuni vescovi sono stati troppo indulgenti e desiderosi di cercare una scappatoia per se stessi, favorendo il prete a scapito della vittima. Questa ingiustizia è attribuibile in parte al “clericalismo” – una attitudine per cui preti e vescovi sono un mondo a parte e superiori ai laici – e in parte alle idiosincrasie del diritto canonico. (…) Oggi è chiaro che la Chiesa avrebbe potuto prevenire molti abusi se i suoi leader avessero riportato le accuse alle autorità civili. (…) In alcuni casi i prelati hanno scoraggiato le vittime dal denunciare gli abusi, ma le nuove norme prevedono che le “informino del loro diritto di denunciare alle pubbliche autorità” e che perseguano questo obiettivo. Le vittime non si rivolgevano alla forza pubblica perché avevano fiducia che la Chiesa stessa si occupasse del problema. Tale fiducia è stata ripetutamente tradita, una grave mancanza; e il fatto che tale tradimento è diventato di dominio pubblico, ha ingigantito la perdita di fede da parte di alcuni laici. (…) Dei testimoni affermano che in molti casi i vescovi non hanno punito i colpevoli, perché da loro ricattati, minacciando di rivelare informazioni compromettenti… Va da sé che, se un prete ritiene di poter essere ricattato, non dovrebbe proporsi all’elezione di vescovo o accettare cariche di autorità. (…) Le vittime in troppi casi sono state emarginate e ri-vittimizzate. Alcune si sono suicidate. Altre soffrono depressione, dipendenza da droghe e disfunzioni sessuali. (…) Il non ascoltarle e non accoglierle ha fatto si che i vescovi non comprendessero a pieno la natura e la portata del problema e sono venuti meno ai propri doveri pastorali. L’incapacità di partecipare ai loro drammi è grave al pari del danno inflitto dai pedofili stessi. (…) Dopo due anni dalla promulgazione delle Norme Essenziali, molte centinaia di preti sono stati rimossi dal ministero, ma pochi vescovi hanno lasciato l’episcopato”.
In sintesi: 1 – Alcuni prelati spesso hanno anteposto le preoccupazioni istituzionali della Chiesa locale a quelle della Chiesa universale. Il timore dello scandalo li ha indotti a ricorrere alla segretezza e all’occultamento. 2- La minaccia del processo ha indotto alcuni a trascurare il loro dovere pastorale e a adottare un atteggiamento contrario e indegno per la Chiesa. 3 – Hanno riposto troppa fiducia negli psichiatri, psicologi e avvocati per trattare un problema che, mentre indubbiamente ha delle cause psicologiche e implicazioni legali, è, nel suo midollo, un problema di fede e di moralità. 4 – Alcuni hanno messo gli interessi dei colpevoli al di sopra di quelli delle vittime. 5 – Il codice e i procedimenti canonici hanno reso troppo difficile dimettere il prete pedofilo.
Affermi: L’abuso sessuale nei confronti dei bambini è un peccato grave contro Dio e contro tutta la comunità cristiana.
Non ti pare che, fino a quando il crimine di pedofilia verrà considerato come un peccato, non sentiremo mai l’obbligo morale e civile di denunciarlo alle autorità giudiziarie? L’ha ammesso, nel tribunale di Boston, il cardinal B. Law: “Non sapevamo fosse un crimine, pensavamo che si trattasse solo di un peccato”.

La Commissione afferma: “Il non aver riconosciuto che l’abuso sessuale sul minore è un crimine e non solo la manifestazione di una mancanza morale o disordine psicologico ha contributo moltissimo allo scandalo. (…) Un prete riferisce: “Credo che non abbiano mai considerato, che ci fosse una legge dello stato, per la quale (…) si va in prigione”. Dal momento in cui i vescovi non hanno compreso che (…) è un crimine, lo sbaglio deve risiedere in qualche modo nel supporto legale di cui si avvalgono. (…) Un abuso sessuale è di per sé un evento traumatico; se commesso da un prete lo è ancora di più, perché è una “figura paterna” ed è probabile che causi più danno, che l’abuso perpetrato da altri individui. (…) … considerando gli abusi più come un disturbo “di identità sessuale” e non un crimine o un peccato grave, i vescovi hanno mancato nell’ottemperare alle proprie responsabilità verso la società e verso la Chiesa”.

Se un’istituzione “divina” continua a considerare materia di foro interno, fatto privato, un delitto tanto grave, come potremo aiutare “i santi innocenti”, prevenire, far sì che gli aspiranti pedofili si rendano conto del loro crimine? Fino a quando non grideremo dai tetti e dai pulpiti che chi minimizza, copre, smista i rei da una parrocchia all’altra, si rende corresponsabile del delitto, non saremo mai “dalla parte” delle vittime. Se i preti consigliano di non sporgere denuncia (come alcuni parroci di Milano nell’inchiesta de “Le Jene”); se la legislazione continua riservare alla Congregazione competente un delitto che spetta al foro civile; se il prete continua ad essere un privilegiato per il suo “status” o casta; se un vescovo si arroga il diritto di citare in tribunale per diffamazione una vittima della pedofilia, come non dubitare che a monte ci sia qualcosa di grosso che non va?
Non ti sembra che l’autorità civile tutela, difende gli innocenti meglio dell’autorità religiosa? Per un delitto così abominevole la “giustizia umana” prevede la prigione e il risarcimento danni, la morale cattolica pare considerarlo un peccato da “smacchiare” con un pellegrinaggio o un pio digiuno.
Qui non si tratta di carità (“si vis”), ma di giustizia (obbligo morale), nella quale l’unico competente non è il tribunale ecclesiastico, ma quello civile. Se rompo la gamba a uno (reato penale) non posso aggiustargliela con la carità, con il perdono: il reo è tenuto per giustizia a riparare i danni, risarcire. E’ una cosa così semplice, ovvia che è entrata nei codici penali di tutti i popoli, tranne che in quelli ecclesiastici. Non si può obliterare la giustizia in nome della carità. Gesù propone la sua legge, la carità, il perdono nell’intimo della coscienza, non in piazza, cioè nelle regole della convivenza civile. E’ per questo che quando non si distinguono i due piani della carità e della giustizia si finisce per capovolgere la morale e uno da carnefice si dichiara vittima di un seminarista pedofilizzato!
Cosa vogliono le vittime? Giustizia, solo giustizia. Certa cultura catto-pagana sulla sessualità non ha indotto i cristiani a chiamare il figlio della ragazza madre: “figlio del peccato” come se l’avesse generato il diavolo? Agli orfani abbiamo saputo dare solo l’istituto e l’assistenza non la paternità/maternità “secondo Dio”. Un’ignominia, perché vuol dire che non siamo stati capaci di superare il vincolo del sangue. Don Zeno diceva: “L’orfano è una vergogna umana”. Non può esistere l’abbandonato se ci sono dei fratelli.

E il Vaticano è immune, esente da responsabilità? La Commissione ha qualcosa da ricordargli: “… sembra che la serietà del problema e la sua relativa vastità non furono tenute nel debito conto da Roma (…), perché si pensava che tali procedimenti avrebbero pregiudicato i diritti degli accusati. Alla fine degli anni ’80, alcuni vescovi influenti chiesero al Vaticano di istituire una procedura amministrativa per la rimozione dei preti pedofili. La richiesta era basata, in parte, sulle lacune del sistema canonico, che prevedeva la riduzione allo stato clericale quale punizione per gli abusi sessuali su minori, ma solo dopo un lungo processo, che richiedeva la partecipazione della vittima. Alcuni vescovi si sono opposti, perché le vittime avrebbero subito un ulteriore trauma. Inoltre, la dimissione dallo stato clericale non poteva essere imposta se il prete o il suo avvocato avessero dimostrato che aveva agito in base a qualche malattia mentale o disturbo psichico. Dato che molti erano stati mandati in centri terapeutici, dove sono stati diagnosticati disturbi psicologici, la dimissione dallo stato clericale, anche dopo la fine del processo canonico, non era applicabile. Nel tribunale ecclesiastico, una volta accertata la colpevolezza, il prete ha diritto di appello fino a due gradi superiori. Secondo la legge canonica, una sentenza per la quale si richiede l’appello decade immediatamente. Quindi il prete dichiarato colpevole, dopo il completamento del processo penale diocesano, non si troverà di fronte all’imposizione di nessuna pena fino a molti anni più tardi. Intanto continua a fare il prete, magari senza un particolare incarico. (…) Le richieste che il Vaticano ha ricevuto da un discreto numero di vescovi per una chiara procedura di dismissione avvennero ripetutamente negli anni ’90, ma inutilmente. (…) Molti attribuiscono l’immobilità Vaticana ad una generica riluttanza ad interferire con i vescovi, altri che il problema fosse unicamente Americano. (…) Il Codice di Diritto Canonico prevede l’immediata sospensione dallo stato clericale di chiunque commetta abusi sessuali su minori (canone 1395). Tuttavia, sebbene il canone 1389 preveda una simile punizione, inclusa la dismissione dal ministero, per un dirigente della Chiesa che, con colpevole negligenza mancasse di intraprendere azioni riparatrici, raramente la Chiesa ufficiale statunitense ha ottemperato a questa disposizione. Così come nessun vescovo negli Stati Uniti è stato mai punito secondo il canone 1389 per evidente inadempienza del canone 1395”.

Caro don Di Noto,
anche noi, le vittime, chiediamo “un atto di giustizia, coraggio, testimonianza forte”: se vuoi stare dalla nostra parte, aiuta preti e vescovi ad avere il coraggio di ammettere le loro colpe; a individuare le cause profonde della pedofilia clericale; a non minimizzare “Tanto in Italia si tratta solo di una cinquantina di casi…”. In un’Italia, parrocchia del papa, è troppo facile occultare, chiudere in cassaforte o negli archivi diocesani i nostri scheletri. Le associazioni che difendono le vittime sono concordi nel dire che da noi si vede solo la punta dell’iceberg. Vuoi stare con noi? Fai emergere il resto dell’iceberg, altrimenti la strage degli innocenti continuerà senza fine.

Così, non sia.

PS. Ti consigliamo qualche buona lettura:
1- R. Sipe, T. Doyle, P. Wall, Sex, priests & secret codes, Volt Press, Los Angeles, 2006 (non sono degli anticlericali, ma consulenti di vescovi, insegnanti nei seminari, che da tanti anni difendono le vittime in tribunale. Sipe è psicoterapeuta da 34 anni. Le cifre riportate parlano di più di 5.000 preti accusati o già condannati e di oltre 11.000 vittime. Secondo alcuni autori potrebbero arrivare a 100.000. Si noti che spesso l’abusato è portato ad abusare o diventa incline all’omosessualità)
2- La rivista internazionale di teologia, Concilium, dedica il numero 3 del 2004 al tema dal titolo molto significativo: “Il tradimento strutturale della fiducia”.

Fausto Marinetti

La lettera è stata sottoscritta dai siti:
il dialogo.org
chiesaincammino.org
AMS, associazione mobilitazione sociale (Marco Marchese)
Bispensiero.it

Fausto Marinetti | altre lettere di Fausto Marinetti

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Mostri marini in Cina, lo dice YouTube

Due esemplari neri lunghi più di dieci metri. Secondo gli studiosi sono una specie di salmone di grandi dimensioni

I presunti mostri del lago Kansai
I presunti mostri del lago Kansai

PECHINO – Anche in Cina esiste un mostro di Loch Ness. O meglio, ne esisterebbero diversi. Lo confermerebbe l’emittente di Stato cinese Cctv, che nei giorni scorsi ha trasmesso un video amatoriale, visibile anche su YouTube, che mostra le immagini di misteriosi ed enormi pesci che nuotano nelle acque del lago Kanasi (kanasi in mongolo significa «bello, ricco e misterioso»), nella remota provincia dello Xinjiang, in Cina occidentale nella regione dei monti Altai. Da decenni ormai, nell’ex Celeste Impero, esiste la leggenda della presenza in questo lago di una incredibile creatura marina, soprannominata «il mostro di Loch Ness cinese» che, proprio come il mitico «Nessie», vive in un lago molto grande ed è stato avvistato da pochissimi esseri umani.

AVVISTAMENTO – L’ultimo avvistamento di «creature non identificate» nel lago, fa sapere la tv che ha trasmesso il filmato, risale al 7 giugno 2005 quando due creature nere, lunghe più di 10 metri apparvero sulla superficie del lago mentre nuotavano velocemente verso il centro dello specchio d’acqua. «A volte si avvicinavano l’uno all’altra, a volte si allontanavano», commenta la giornalista cinese mentre scorrono le immagini del video amatoriale. «La scena era impressionante e le due creature sembravano una flotta», prosegue la commentatrice. Alla fine la giornalista termina il racconto con la frase a effetto: «In quel periodo un gran numero di creature non identificate furono intraviste in quelle acque, rendendo ancora più misterioso il lago Kanasi».

STUDI – Il professor Yuan Guoying, dell’Istituto di protezione ambientale dello Xinjiang, è sulle tracce del mostro marino dal 1980 e nel 1985 vide per la prima volta, proprio sotto la superficie del lago, più di 50 mostruose creature: «All’inizio, siccome potevo vedere solo la loro testa sulla superficie dell’acqua, pensavo che fossero girini di coloro rosso e marrone», commenta lo studioso al quotidiano britannico The Times. «Successivamente aprirono la loro bocca per respirare e vidi che erano molto grandi e misuravano dai 10 ai 15 metri». Il professor Yuan rivide animali misteriosi nel lago il 28 maggio 2004: «Pensavo che in acqua ci fosse un enorme pezzo di plastica nera. Ma ben presto capii che si trattava della parte posteriore di un enorme pesce. Rimasi scioccato perché era davvero grande, sembrava un sottomarino».

MOSTRI – Secondo uno studio di ricercatori cinesi del 1980, il leggendario «mostro» marino del lago Kanasi appartiene a una delle otto specie di salmoni presenti nel lago, ma ha dimensioni decisamente più grandi. Il lago Kanasi è lungo 24 km, ha una larghezza di due e supera i 180 metri di profondità. Secondo il professor Yuan sarà impossibile per l’uomo riuscire a catturare pesci così grandi: «Questo pesce avrà una forza straordinaria», ribadisce lo studioso. Tuttavia non tutti gli scienziati credono ai racconti del professor Yuan e affermano che in realtà lo studioso si è fatto suggestionare dalla leggenda. Egli invece controbatte: «Le persone pensano che io voglia prenderle in giro. Ma ho visto con i miei occhi quei mostri. Sono uno scienziato. Non ho scelta, devo credere a ciò che vedo».

Francesco Tortora

Il Video

Travet, 45 giorni di assenze l’anno

Il 50% in più rispetto ai privati

di LUCA IEZZI

Assenteismo nelle aziende pubbliche: enti previdenziali e agenzie fiscali in testa


ROMA
– Sette settimane lontano dalla scrivania. Le statistiche confermano il luogo comune del dipendente pubblico meno presente al lavoro rispetto ai colleghi del settore privato: i dati annuali della Ragioneria dello Stato, aggiornati al 2005, dicono che per gli uomini l’assenza media è di 47 giorni e per le donne di 52. Cifra complessiva che comprende ferie, malattie e permessi vari. Visto che la quota delle vacanze può essere considerata identica sia nel settore pubblico che nel privato, la differenza è consistente: quasi il 50% in più. Nella Pubblica Amministrazione il 20% del periodo lavorativo lo si passa da assenti più o meno o giustificati contro il 16% registrato nell’industria e il 12,3% dei servizi.

La tendenza è al peggioramento: nel 2000 i giorni di lavoro complessivamente persi per malattia e permessi erano 65.209.385, cinque anni dopo sono saliti a 66.368.095 con l’aggravante che nel quel monte assenze è diviso tra un totale di impiegati più basso di 29 mila unità. Se si guarda alla malattia, in cinque anni ogni dipendente pubblico in media ha chiesto un giorno in più di riposo, facendo pagare allo Stato 3 milioni di giorni lavorati in meno. Confermata inoltre che sono le dipendenti donne a chiedere mediamente più tempo per rimanere lontano dall’ufficio.

Ministeri e Pa. Nel dettaglio il confronto può non essere omogeneo per l’enorme differenza di dimensione tra i vari enti, comunque tra i più “cagionevoli” spiccano gli oltre 2400 addetti alla presidenza del consiglio con quasi 16 giorni di malattia a testa. Nei ministeri si passa dai 22,5 giorni di media per i dipendenti della difesa fino ai soli 4,6 del ministero degli Interni e i 6,8 degli Esteri.

Nelle altre istituzioni si segnalano gli alti tassi di assenza delle Agenzie fiscali e degli Enti pubblici non economici (Aci, Inail, Inps, Inpdap), una tendenza storica per queste istituzioni che peggiora anziché migliorare.

Infine la palma di stakanovisti invece va a diplomatici e magistrati, i primi stanno lontano dal lavoro solo 25 giorni all’anno, i secondi addirittura 13, ferie comprese. La toga inoltre sembra garantire una salute di ferro visto che i certificati di malattia coprono appena 3,4 giorni per addetto.

Enti locali. Tra comuni, province e regioni emergono differenze Nord-Sud solo sulle motivazioni dell’assenza dall’ufficio. Nella provincia di Treviso per esempio l’addetto medio è lontano dalla scrivania per 35 giorni l’anno escluse le ferie, nel comune di Bolzano per 38,9 giorni. In entrambi i casi pesano i permessi retribuiti (i giorni di malattia a Treviso sono appena 8), negli stessi uffici di Reggio Calabria i motivi di salute rendono inabile gli addetti per 26 giorni di media. L’uso smodato dei permessi malattia non è solo meridionale: ai primi posti spicca Alessandria (22 giorni), mentre tra i più virtuosi ci sono le province di Catanzaro e gli impiegati comunali di Avellino.

Oltre le rilevazioni statistiche, per scoprire i reali abusi servono dati puntuali, fino al caso singolo. La Ragioneria ha promesso già dal 2006 dati più dettagliati, e le stesse amministrazioni hanno aumentato i controlli. E quando non basta, come a Perugia, interviene la magistratura.

Nelle altre istituzioni si segnalano gli alti tassi di assenza delle Agenzie fiscali e degli Enti pubblici non economici (Aci, Inail, Inps, Inpdap), una tendenza storica per queste istituzioni che peggiora anziché migliorare.

Infine la palma di stakanovisti invece va a diplomatici e magistrati, i primi stanno lontano dal lavoro solo 25 giorni all’anno, i secondi addirittura 13, ferie comprese. La toga inoltre sembra garantire una salute di ferro visto che i certificati di malattia coprono appena 3,4 giorni per addetto.

(18 luglio 2007)

fonte: http://www.repubblica.it/2007/07/sezioni/cronaca/perugia-assenteisti/dossier-assenteisti/dossier-assenteisti.html

Debutta la Tesla Roadster

Finalmente debutta l’auto completamente elettrica con autonomia e prestazioni fino a ieri inimmaginabili.. E’ quello che ci hanno sempre fatto credere, che fosse, cioè, solo una pura teoria industrialmente inapplicabile. E invece.. Invece funziona!

Ma perché farne un prodotto solo per ricchi?
Elementare, Watson!


Finalmente svelata la Tesla Roadster. La spider elettrica disegnata e prodotta in collaborazione con Lotus sarà disponibile sul mercato californiano a partire dalla tarda primavera del 2007, per poi essere disponibile su altri mercati statunitensi nel corso del 2007.

Alcuni dati: velocità massima oltre 210 km/h, accelerazione da 0-100 km/h in circa 4 secondi, il motore elettrico sviluppa 185 KW (251 cv), con una linea rossa a 13.500 giri/minuto e una curva di coppia decisamente diversa da quelle a cui ci hanno abituato i motori a scoppio: la coppia massima di oltre 240 Nm è sviluppata a 0 giri/min e scende gradualmente fino a 95 Nm a 13.500 giri/min (vedere grafico nel seguito). Curiosità: la Tesla Roadster ha un cambio a due marce più retromarcia (in prima si arriva quasi a 115 km/h).

L’autonomia di 400 chilometri è più che sufficiente per un uso da “pendolare di lungo raggio”. Certo, per viaggi più lunghi il tempo di ricarica potrebbe diventare un problema: se le batterie sono completamente scariche, sono necessarie tre ore e mezza per una ricarica.

fonte: http://www.autoblog.it/post/4605/tesla-roadster-foto-e-dati

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L’automobile spinta dall’etere di Nikola Tesla


Di Igor Spajic – tratto da Nexus Gold maggio-giugno 2005
www.nexusitalia.com


La città di Buffalo, nel nord dello stato di New York negli USA, fu silenziosa testimone di un fatto straordinario nel corso di una settimana durante l’estate del 1931. Nonostante la depressione economica avesse compromesso la produzione e i commerci, la città nondimeno rimaneva una fucina di attività. Un giorno, tra le migliaia di veicoli che ne percorrevano le vie, una lussuosa automobile si fermò accanto, al marciapiede presso il semaforo di un incrocio. Un passante notò come si trattasse di una berlina Pierce-Arrow ultimo modello, coi fari che s’integravano con grazia nei parafanghi nel tipico stile di questa marca. Quello che caratterizzava l’auto in quella fredda giornata estiva era l’assoluta assenza di emissione di vapore o fumi dal tubo di scarico. Il passante si avvicinò al guidatore e attraverso il finestrino aperto commentò l’assenza di fumi dallo scarico. Il guidatore ringraziò il passante per i complimenti sottolineando che era così perché l’automobile “non aveva motore”.
Questa dichiarazione non è stravagante o maliziosa come potrebbe sembrare. C’era una certa verità in essa. Infatti, la Pierce-Arrow non aveva un motore a combustione interna; aveva invece un motore elettrico. Se l’autista si fosse preoccupato di completare la sua spiegazione al passante, avrebbe potuto dirgli che il motore elettrico non era alimentato da batterie – da nessun tipo di “carburante”.
L’autista era Petar Savo, e nonostante stesse guidando quell’auto non era il responsabile delle sue incredibili caratteristiche. Queste erano il lavoro dell’unico passeggero, un uomo che Petar Savo conosceva come uno “zio”: non altri che il genio dell’elettricità Nikola Tesla (18 56-1943).
Negli anni ’90 del 19′ secolo Nikola Tesla aveva rivoluzionato il mondo con le sue invenzioni per sfruttare l’elettricità, dandoci il motore elettrico a induzione, la corrente alternata (AC), la radiotelegrafia, il radiocomando a distanza, le lampade a fluorescenza ed altre meraviglie scientifiche. In realtà fu la corrente alternata polifase di Tesla e non la corrente continua di Thomas Edison ad inaugurare la moderna epoca tecnologica.
Tesla non rimase a dormire sugli allori ma continuò a fare scoperte fondamentali nei campi dell’energia e della materia. Scoprì i raggi cosmici decenni prima di Millikan e fu il primo a sviluppare i raggi-X, il tubo a raggi catodici e altri tipi di valvole.

Comunque, la scoperta potenzialmente più significativa di Nikola Tesla fu che l’energia elettrica può essere propagata attraverso la Terra ed anche attorno ad essa in una zona atmosferica chiamata cavità di Schumann. Essa si estende dalla superficie del pianeta fino alla ionosfera, all’altezza di circa 80 chilometri . Le onde elettromagnetiche di frequenza estremamente bassa, attorno agli 8 hertz (la risonanza di Schumann, ovvero la pulsazione del campo magnetico terrestre) viaggiano, praticamente senza perdite, verso ogni punto del pianeta. Il sistema di distribuzione dell’energia di Tesla e la sua dedizione alla free energy significavano che con l’appropriato dispositivo elettrico sintonizzato correttamente sulla trasmissione dell’energia, chiunque nel mondo avrebbe potuto attingere dal suo sistema.
Lo sviluppo di una simile tecnologia rappresentava una minaccia troppo grande per gli enormi interessi di chi produce, distribuisce e vende l’energia elettrica.
La scoperta di Tesla finì con la sospensione dell’appoggio finanziario alle sue ricerche, l’ostracismo da parte della scienza ufficiale e la graduale rimozione del suo nome dai libri di storia. Dalla posizione di superstar della scienza nel 1895, Tesla nel 1917 era virtualmente un “signor nessuno”,, costretto a piccoli esperimenti scientifici in solitudine. Nei suoi incontri annuali con la stampa in occasione del suo compleanno, una figura sottile nel cappotto aperto di stile anteguerra avrebbe annunciato ai giornalisti le scoperte e gli sviluppi delle sue idee. Era un triste miscuglio di ego e genio frustrato.
Nel 1931, Nikola Tesla compì 75 anni. In una rara dimostrazione di omaggio da parte dei media, la rivista Time gli dedicò la copertina e un profilo biografico. L’anziano ingegnere e scienziato appariva emaciato anche se non sofferente, i suoi capelli ancora di un nero lucido e lo stesso sguardo lontano nei suoi occhi di sognatore.


Le Auto Elettriche Rimangono Indietro

All’inizio del ventesimo secolo, per le automobili elettriche le prospettive erano luminose. Futuristi come Jules Verne avevano anticipato veicoli elettrici alimentati da batterie che erano meccanicamente più semplici, silenziosi, inodori, facili da adoperare e con meno problemi di qualunque automobile con motore a benzina.
Nell’automobile con motore a benzina occorreva regolare la valvola a farfalla, l’anticipo dell’accensione, pompare sull’acceleratore e far girare il motore con una manovella. In un’auto elettrica bastava soltanto girare una chiave e premere l’acceleratore. Rilasciando l’acceleratore l’auto rallentava immediatamente.
Se necessario, in un’epoca in cui vi erano poche officine per auto, un normale elettricista poteva eseguire la manutenzione del semplice motore a corrente continua. Non vi era olio da cambiare, né radiatore da riempire, né pompe della benzina o dell’acqua da sistemare, nessun problema di carburazione, nessuna marmitta che si arrugginiva, nessun differenziale o trasmissione da controllare, e nessun inquinamento! Il grasso e l’olio erano limitati a un paio di cuscinetti a sfere del motore elettrico e ad alcuni raccordi del telaio.
Per le loro consegne i grandi magazzini impiegavano camion elettrici. I medici iniziarono a recarsi alle visite al domicilio dei pazienti con “l’elettrica”, sostituendo il proprio cavallo e calesse con qualcosa di altrettanto semplice da mantenere. Le donne preferivano le auto elettriche per la facilità di guida. Poiché le vetture elettriche erano limitate in velocità e autonomia dalle loro batterie, diventarono popolari come trasporti cittadini.

Al di fuori delle città, le strade dell’America di allora erano così primitive che diventarono riservate ai veicoli con motore a combustione interna, più veloci, con autonomia maggiore e in rapido progresso. Così, negli USA vi fu una specie di età dell’oro per i veicoli elettrici dopo che il resto del mondo iniziò ad abbandonarli. Detroit Electric, Columbia, Baker, Rauch & Lang e Woods furono le principali aziende tra quelle che producevano questo tipo di veicoli elettrici; si svilupparono nella loro nicchia di mercato con una serie di carrozzerie formali, spesso eleganti.
Il tallone d’Achille delle vetture elettriche, comunque, fu sempre la densità energetica delle sue batterie, ovvero la sua scarsità. Le batterie erano dei tipo al piombo, pesanti e ingombranti, e sottraevano molto spazio prezioso. Il peso eccessivo riduceva la maneggevolezza e limitava le prestazioni, anche per gli standard di quegli anni. I veicoli elettrici non potevano superare i 70- 80 Km/h , poiché a queste velocità la batteria si poteva distruggere in un attimo. Spunti attorno ai 60 Km/h si potevano sostenere per tempi brevissimi, e la tipica gamma di velocità dei percorsi era di 25- 35 Km/h . Le batterie richiedevano ricariche ogni notte e l’autonomia massima superava difficilmente i 160 chilometri . Nessun costruttore di veicoli aveva mai installato un generatore elettrico di corrente continua, che avrebbe potuto restituire piccole quantità di energia alle batterie mentre il veicolo era in movimento, aumentandone così l’autonomia. Vi furono promesse su future potenti batterie innovative sin dai tempi di Edison, ma alla fine non se ne vide traccia.
Non appena la velocità e l’affidabilità delle automobili a benzina migliorarono, le auto elettriche furono abbandonate e rimasero le preferite dai pensionati e dalle signore anziane. L’introduzione della messa in moto elettrica nelle auto a benzina mise il chiodo finale alla bara delle auto elettriche.


La Comparsa di Nikola Tesla

Negli anni ’60 un ingegnere aeronautico di nome Derek Alilers incontrò Petar Savo e sviluppò una lunga amicizia con lui. Durante il loro sodalizio durato dieci anni, Savo gli parlò del suo illustre “zio” Nikola Tesla e delle sue realizzazioni negli anni ’30. (Savo era un giovane parente di Tesla anche se non un nipote, ma si riferiva a lui come “zio”.)
Nel 1930 Nikola Tesla chiese a suo “nipote” Petar Savo di venire a New York. Savo (nato in Jugoslavia nel 1899, quindi 43 anni più giovane di Tesla) era stato nell’esercito austriaco ed era un esperto pilota, così colse fervidamente l’opportunità di lasciare la Jugoslavia (paese natale di Nikola Tesla). Si trasferì negli USA stabilendosi a New York.
Nel 1967, in una serie di interviste, Savo descrisse la sua parte nell’episodio dell’auto elettrica di Tesla.
Durante l’estate del 1931, Tesla invitò Savo a Buffalo, nello stato di New York, per mostrargli e collaudare un nuovo tipo di automobile che aveva sviluppato di tasca sua. Casualmente, Buffalo è vicina alle cascate del Niagara – dove era entrata in funzione nel 1895 la stazione idroelettrica a corrente alternata di Tesla che lo aveva innalzato al culmine della stima da parte della scienza ortodossa. La Westinghouse Electric e la Pierce-Arrow avevano preparato questa automobile elettrica sperimentale seguendo le indicazioni di Tesla. (George Westinghouse aveva acquistato da Tesla i brevetti sulla corrente alternata per 15 milioni di dollari all’inizio del 20′ secolo.)
La Pierce-Arrow adesso era posseduta e finanziata dalla Studebacker Corporation, e utilizzò questo solido appoggio finanziario per lanciare una serie di innovazioni. Tra il 1928 e il 1933 l ‘azienda automobilistica presentò nuovi modelli con motori ad 8 cilindri in linea e 12 cilindri a V, i futuristici prototipi Silver Arrows, nuovi stili e miglioramenti di tecnica ingegneristica. La clientela reagì positivamente e le vendite della Pierce-Arrow aumentarono la quota aziendale nel mercato delle auto di lusso, nonostante nel 1930 quest’ultimo fosse in diminuzione. In una situazione così positiva, progetti “puramente teorici” come l’auto elettrica di Tesla erano all’interno di questa sfera concettuale. Nella tradizionale mistura di arroganza e ingenuità dell’azienda, niente sembrava impossibile.
Così, per le sperimentazioni era stata selezionata una Pierce-Arrow Eight del 1931, proveniente dall’area di collaudo dell’azienda a Buffalo, nello stato di New York. Il suo motore a combustione interna era stato rimosso, lasciando intatti la frizione, il cambio e la trasmissione verso l’asse posteriore. La normale batteria da 12 volt rimase al suo posto, ma alla trasmissione era stato accoppiato un motore elettrico da 80 cavalli.

Tradizionalmente, le auto elettriche montavano motori a corrente continua alimentati da batterie, dato che quella continua è il solo tipo di corrente che le batterie possono fornire. Si sarebbe potuto utilizzare un convertitore corrente continua/corrente alternata, ma a quei tempi tali dispositivi erano troppo ingombranti per essere montati su un’automobile.
Il crepuscolo delle auto elettriche era già passato da tempo, ma questa Pierce-Arrow non venne dotata di un semplice motore a corrente continua. Si trattava di un motore elettrico a corrente alternata progettato per raggiungere 1.800 giri al minuto. Il motore era lungo 102 centimetri con un diametro di 76, senza spazzole e raffreddato ad aria per mezzo di una ventola frontale, e presentava due terminali di alimentazione indirizzati sotto il cruscotto ma lasciati senza collegamento. Tesla non disse chi costruì il motore elettrico, ma si ritiene che fu una divisione della Westinghouse. Sul retro dell’automobile era stata fissata un’antenna di 1,83 metri .


L’Affare “Etere-Arrow”

Petar Savo raggiunse il suo famoso parente, come quest’ultimo gli aveva chiesto, e a New York salirono assieme su un treno diretto verso il nord dello stato omonimo. Durante il viaggio l’inventore non commentò la natura dell’esperimento.
Arrivati a Buffalo, si recarono presso un piccolo garage dove trovarono la nuova Pierce-Arrow. Il Dr. Tesla sollevò il cofano e fece qualche regolazione sul motore elettrico a corrente alternata sistemato al suo interno. In seguito si recarono a predisporre gli strumenti di Tesla. Nella camera di un hotel delle vicinanze il genio dell’elettricità si mise a montare il suo dispositivo. In una valigia a forma di cassetta si era portato dietro 12 valvole termoioniche. Savo descrisse le valvole “di costruzione curiosa”, sebbene in seguito almeno tre di esse siano state identificate come valvole rettificatrici 70L7-GT. Furono inserite in un dispositivo contenuto in una scatola lunga 61 centimetri , larga 30,5 e alta 15. Non era più grande di un ricevitore radio ad onde corte. Al suo interno era predisposto tutto il circuito elettronico comprese le 12 valvole, i cablaggi e le resistenze. Due terminali da 6 millimetri di diametro e della lunghezza di 7,6 centimetri sembravano essere le connessioni per quelli del motore.
Ritornati all’auto del l’esperimento, misero il contenitore in una posizione predisposta sotto il cruscotto dalla parte del passeggero. Tesla inserì i due collegamenti controllando un voltmetro.

“Ora abbiamo l’energia”, dichiarò, porgendo la chiave d’accensione a suo nipote. Sul cruscotto vi erano ulteriori strumenti che visualizzavano valori che Tesla non spiegò.
Dietro richiesta dello zio, Savo mise in moto. “Il motore è partito”, disse Tesla. Savo non sentiva alcun rumore. Nonostante ciò, coi pioniere dell’elettricità sul sedile del passeggero, Savo selezionò una marcia, premette sull’acceleratore e portò fuori l’automobile.
Quel giorno Petar Savo guidò questo veicolo senza combustibile per lungo tempo, per circa 80 chilometri attorno a Buffalo, avanti e indietro nella campagna. Con un tachimetro calibrato a 190 chilometri orari a fondo scala, la Pierce-Arrow venne spinta fino a 145 km/h , e sempre con lo stesso livello di silenziosità del motore.
Mentre percorrevano la campagna Tesla diventava sempre più disteso e fiducioso sulla sua invenzione; cominciò così a confidare a suo nipote alcuni suoi segreti. Quel dispositivo poteva alimentare le richieste di energia del veicolo per sempre, ma poteva addirittura soddisfare il fabbisogno energetico di un’abitazione – e con energia in avanzo.
Pur se riluttante, inizialmente, a spiegarne i principi di funzionamento, Tesla dichiarò che il suo dispositivo era semplicemente un ricevitore per una “misteriosa radiazione, che proviene dall’etere” la quale “era disponibile in quantità illimitata”.

Riflettendo, mormorò che “il genere umano dovrebbe essere molto grato per la sua presenza”.
Nel corso dei successivi otto giorni Tesla e Savo provarono la Pierce-Arrow in percorsi urbani ed extraurbani, dalle velocità estremamente lente ai 150 chilometri all’ora. Le prestazioni erano analoghe a quelle di qualunque potente automobile pluricilindrica dell’epoca, compresa la stessa Pierce Eight col motore da 6.000 cc di cilindrata e 125 cavalli di potenza.
Tesla raccontò a Savo che presto il ricevitore di energia sarebbe stato utilizzato per la propulsione di treni, natanti, velivoli e automobili.
Alla fine della sperimentazione, l’inventore e il suo autista consegnarono l’automobile in un luogo segreto, concordato in precedenza – il vecchio granaio di una fattoria a circa 30 chilometri da Buffalo. Lasciarono l’auto sul posto, ma Tesla si portò dietro il suo dispositivo ricevitore e la chiave d’accensione.
Questo romanzesco aspetto dell’affare continuò. Petar Savo raccolse delle indiscrezioni secondo le quali una segretaria aveva parlato delle prove segrete ed era stata licenziata. Ciò spiegherebbe un impreciso resoconto sulle sperimentazioni che apparve su diversi quotidiani.
Quando chiesero a Tesla da dove arrivasse l’energia, data l’evidente assenza di batterie, egli rispose riluttante: “Dall’etere tutto attorno a noi”.
Alcuni suggerirono che Tesla fosse pazzo e in qualche modo collegato a forze sinistre e occulte. Tesla fu incensato. Rientrò assieme alla sua scatola misteriosa al suo laboratorio di New York. Terminò così la breve esperienza di Tesla nel mondo dell’automobile.
Questo incidente dell’infrazione nella sicurezza può essere apocrifo, dato che Tesla non disdegnava di utilizzare la pubblicità per promuovere le sue idee ed invenzioni, sebbene quando questi dispositivi mettevano in pericolo lo status quo dell’industria egli aveva ogni buona ragione per essere circospetto nei suoi rapporti.
L’azienda Pierce-Arrow aveva già toccato il culmine del suo successo nel 1930. Nel 1931 era in calo. Nel 1932 l ‘azienda perse 3 milioni di dollari. Nel 1933 vi furono problemi amministrativi anche nell’azienda madre Studebacker che vacillò sull’orlo della liquidazione. L’interesse passò dall’innovazione alla pura sopravvivenza, e qui la Pierce-Arrow abbandona il nostro racconto.


Un mistero all’interno di un enigma

Circa un mese dopo la pubblicazione dell’episodio, Petar Savo ricevette una telefonata da Lee DeForest, un amico di Tesla e pioniere nello sviluppo delle valvole termoioniche. Egli chiese a Savo se i test lo avessero soddisfatto. Savo rispose con entusiasmo e DeForest lodò Tesla come il più grande scienziato vivente al mondo.
In seguito, Savo chiese a suo “zio” sugli sviluppi del ricevitore energetico in altre applicazioni. Tesla rispose che era in contatto con uno dei principali cantieri nautici per realizzare una nave con un dispositivo simile a quello dell’automobile elettrica sperimentale. Tuttavia, non gli si potevano chiedere maggiori dettagli dato che era ipersensibile riguardo alla sicurezza del suo dispositivo – e non si può dargli torto. In passato, potenti interessi avevano cercato di ostracizzare Tesla, ostacolando ogni suo sforzo per promuovere ed applicare le proprie tecnologie.
Chi scrive non è a conoscenza di alcun documento pubblico che descriva un esperimento nautico, o se quest’ultimo accadde. Non venne divulgata alcuna informazione.
Il New York Daily News del 2 aprile 1934 riportava un articolo intitolato “Il sogno di Tesla di un’energia senza fili vicino alla realtà”, che descriveva un “esperimento programmato per spingere un’automobile utilizzando la trasmissione senza fili di energia elettrica”. Questo successe dopo l’episodio e non vi era menzione di “free energy”.
Nel periodo in cui l’automobile dovrebbe essere stata svelata, la Westinghouse Corporation , sotto la presidenza di F. A. Merrick, pagò per la sistemazione di Tesla al New Yorker, il più nuovo e lussuoso hotel di New York. In esso l’anziano scienziato visse gratuitamente per tutto il resto della sua vita. Tesla venne anche reclutato dalla Westinghouse per ricerche non ben specificate sulle trasmissioni senza fili ed egli interruppe le sue dichiarazioni pubbliche sui raggi cosmici.
Forse che la Westinghouse comprò il riluttante silenzio di Tesla sulle sue scoperte free energy? Oppure venne finanziato per proseguire dei progetti segreti talmente speculativi da non costituire una minaccia per il complesso industriale nell’immediato futuro? Cala il sipario su un mistero all’interno di un enigma.

Tesla’s Pierce-Arrow



– M
anuale per costruire la cella: http://it.wikibooks.org/wiki/Utente:Ssspera/sandbox

fonte: http://www.disinformazione.it/automobiletesla.htm


V8 per tutti

17 Luglio 2007

La Corte dei Conti sostiene il V-day

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foto di Lor3nzo

La Corte dei Conti è d’accordo con il V-day e con la proposta di legge popolare per un Parlamento Pulito.

Riporto integralmente l’articolo da Repubblica.it.

Ragazzi fate informazione. Mettete la bandierina del V-day nel vostro blog (cliccare qui). Occhio che faccio un giro in Rete a vedere chi non ce l’ha ancora…

CORTE CONTI: OK BEPPE GRILLO, VIA I POLITICI CORROTTI

“”Via, per sempre, i politici corrotti: chi riveste una carica pubblica e viene condannato in via definitiva per “cattiva amministrazione”, non deve avere la possibilita’ di candidarsi di nuovo. A sorpresa, la Corte dei Conti si dichiara d’accordo con la proposta, che definisce “un po’ forte, clamorosa”, come quella di Beppe Grillo che recentemente ha depositato alla Cassazione una richiesta di legge popolare per un “Parlamento pulito”.

Il procuratore generale della magistratura contabile Claudio De Rose, in occasione di una riflessione sui risultati raggiunti dalla Procura generale in vista del suo prossimo collocamento a riposo, si spinge ancora piu’ in la’: “Chi e’ condannato in via definitiva deve essere destituito dalla carica che riveste”. L’ineleggibilita’ e la revoca del mandato dovrebbe riguardare in particolare chi si macchia di corruzione in tema di appalti o di frodi comunitarie, fenomeno questo che “non accenna a diminuire“.

Sulla stessa linea, il viceprocuratore generale aggiunto Mario Ristuccia: “C’e’ una domanda nel paese di corretto uso delle risorse pubbliche. Se c’e’ un amministratore che le usa in modo distorto, una sanzione accessoria di questo tipo sarebbe la garanzia di cui la Nazione avrebbe bisogno”.”

V-day:
1. Partecipa al V-day
2. Scarica il volantino
3. Inserisci le tue foto su www.flickr.com con il tag: Vaffa-day

fonte: http://www.beppegrillo.it/2007/07/corte_dei_conti.html

Borsellino, i pm interrogheranno 5 boss pentiti

Palermo | 18 luglio 2007

Sarà interrogato anche Provenzano

Bernardo Provenzano

Bernardo Provenzano

Dopo le indiscrezioni sulla riapertura delle indagini sulla strage di via d’Amelio da parte della procura di Caltanissetta, che segue ora la pista del coinvolgimento dei servizi segreti deviati, il procuratore aggiunto Renato Di Natale interrogherà una decina di mafiosi, tra cui vi sarebbero 5 boss pentiti pronti a colloborare. Lo scrive il Giornale di Sicilia , che fa anche il nome di Bernardo Provenzano. Ma il magistrato precisa: “Non ci facciamo illusioni”.

La Rai per ricordare
Il 23 luglio alle 21 Raitre trasmetterà il documentario In un altro Paese (92′) sulla storia del maxi-processo di Palermo e dei due magistrati che lo hanno reso possibile, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Il documentario, diretto da Marco Turco, prodotto da Doclab e da Rai Radiotelevisione Italiana Raitre, ha ottenuto grande successo di critica e pubblico in numerosi festival italiani e internazionali (quali Festival di Locarno, FIPA a Biarritz 2006, INPUT a Taipei 2006), e ha ricevuto anche premi prestigiosi (46 Festival dei Popoli 2005, Festival del Cinema di Taormina 2006, Globo d’Oro 2006, Efebo d’oro 2006). Il film è stato anche nominato per il premio ABC News Videosource dell’International Documentary Academy 2005.

Il documentario esamina il rapporto fra la mafia siciliana e lo Stato italiano negli anni della prima Repubblica ed è soprattutto la storia di una clamorosa vittoria nella lotta contro la mafia, quella del più grande processo alla mafia mai celebrato. Ma è anche la storia di una lenta, inesorabile morte. In un altro Paese, racconta Alexander Stille, “gli artefici di una tale vittoria sarebbero stati considerati un patrimonio nazionale. Dopo aver vinto la prima battaglia a Palermo, ci si sarebbe aspettato che Falcone e i suoi colleghi fossero messi nelle condizioni di vincere la guerra. Invece in Italia avvenne proprio il contrario”.

Vedi anche Borsellino, nuova pista per la strage di via D’Amelio. Indagine sui servizi deviati

Ucraina, deraglia treno carico di fosforo

Evacuate 900 persone. Ventuno intossicati, uno è grave
Il vice-premier evoca lo spettro di Chernobyl, ma le autorità rassicurano

Allarme per un’enorme nube tossica

Il luogo dell’incidente


KIEV
– Una gigantesca nube tossica scatena il panico in Ucraina. Ieri un treno che trasportava fosforo giallo liquido è deragliato, provocando l’incendio di sei carri cisterna. Così un’area di 86 chilometri quadrati vicino al villaggio di Ojydiv, a 70 chilometri da Leopoli, nella parte occidentale del Paese, è stata ricoperta da “una quantità importante di fumo e gas tossici”, come ha affermato un responsabile dell’amministrazione regionale, Taras Batenko.

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Gli intossicati, al momento, sono 21, tra i quali soccorritori e due lavoratori delle ferrovie. Uno è in gravi condizioni. Un centinaio di persone ha già fatto ricorso a cure mediche, ma si prevede un aumento degli intossicati nei prossimi giorni, quando il fosforo sarà entrato nella catena alimentare. Alla popolazione è stato consigliato di non mangiare verdura e animali prodotti localmente.

Nella zona interessata dalla nube abitano circa 11.000 persone, ma soltanto 900 di loro hanno chiesto di essere evacuati. Probabilmente quello che temono è il rischio di sciacallaggi. Tuttavia, molti residenti hanno indossato maschere anti gas e si sono barricati in casa. Anche a Leopoli, dove abitano ben 800mila persone, in molti hanno scelto di non far uscire i propri figli per evitare rischi.

Il fosforo giallo, utilizzato per la produzione di fertilizzanti, pesticidi ed esplosivi, è considerato una sostanza tossica di prima categoria, dagli effetti letali se viene inalato o entra in contatto con la pelle, anche in una concentrazione di un decimo di grammo. Facilmente infiammabile, intacca le ossa, il cervello e il fegato.

Le cause dell’incidente non sono ancora chiare. Il treno merci, composto da 58 carri, 15 dei quali trasportavano fosforo giallo, era partito da Dzhambul, in Kazakhstan, ed era diretto a Kleska, in Polonia. Poi è deragliato, tra Krasnoye e Ozhidov. L’autorità statale per le ferrovie ha escluso la possibilità di un sabotaggio, ipotizzando che il deragliamento sia stato causato dalle cattive condizioni dei binari o dalla violazione delle norme per il trasporto di carichi pericolosi. La procura locale ha comunque aperto un’inchiesta. Il convoglio, assicurato da una compagnia straniera, forse russa, appartiene a imprenditori kazaki.

Il vice-premier di Kiev, Aleksander Kuzmuk, che guida la commissione statale d’inchiesta sull’episodio, ha evocato lo spettro di Chernobyl, ancora vivo nella memoria del popolo ucraino. La centrale nucleare teatro del celebre incidente del 1986 si trovava infatti nella parte settentrionale del Paese, all’epoca sotto il dominio sovietico. Kuzmuk ha parlato di “un evento incredibile, di cui è impossibile prevedere le conseguenze” e di “minaccia seria per gli abitanti”. Ma il Ministero per le emergenze ha smorzato l’allarme, affermando che “la situazione è completamente sotto controllo”. Il responsabile della protezione civile di Leopoli, Piotr Grebenyuk, ha aggiunto che “la nube è stata neutralizzata, e non c’è alcun pericolo per i residenti”.

Il panico ha varcato i confini ucraini, arrivando fino in Romania, Polonia, Ungheria e Bulgaria, per una sorta di sindrome-Chernobyl. Ma il ministero della Difesa bulgaro ha escluso qualsiasi pericolo tossico per la propria popolazione. E da Bruxelles è arrivata un’altra conferma. La Direzione Generale per l’Ambiente dell’Unione Europea ha detto di non avere ricevuto alcuna richiesta di assistenza.

(17 luglio 2007)

fonte: http://www.repubblica.it/2007/07/sezioni/esteri/ucraina-fosforo/ucraina-fosforo/ucraina-fosforo.html