Archivio | gennaio 25, 2009

2010: Cari Sindaci, pronti per l’espropriazione dell’acqua? / Tremonti: “L’acqua è più importante del petrolio”. E intanto vende qualla pubblica ai privati

Giù le mani dall’acqua del Sindaco

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di Paolo Rumiz

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La 133 privatizza anche l’acqua. Da Repubblica, 14 novembre 2008

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Cologno Monzese – Dal Piemonte alla Sicilia, nell’ Italia bastonata dalla crisi è nata una nuova resistenza, contro la privatizzazione dei servizi idrici. Una resistenza che parte dal basso e contesta non solo il Governo, ma il Parlamento, che il 6 agosto, mentre il Paese era in vacanza, ha approvato una norma-bomba (unica in Europa) con il “sì” dell’ opposizione. Non se n’ è accorto quasi nessuno: quel pezzo di carta obbliga i Comuni a mettere le loro reti sul mercato entro il 2010, e ciò anche quando i servizi funzionano perfettamente e i conti tornano. Articolo 23 bis, legge 133, firmata Tremonti. La stessa che privatizza mezza Italia e ha provocato la rivolta della scuola.

Leggere per credere. Ora i sindaci hanno letto. Quelli di destra e quelli di sinistra. E subito hanno mangiato la foglia. «Ci avete già tolto l’ Ici. Se ci togliete anche questo – dicono – che ci rimane?» La partita è chiara: non è solo una guerra per l’ acqua, ma per la democrazia. Col 23 bis essi perdono contemporaneamente una fonte di entrate e la sorveglianza sul territorio. Il federalismo si svuota di senso. Il rapporto con gli elettori diventa una burla. Lo scenario è inquietante: bollette fuori controllo, e i cittadini con solo un distante “call center” cui segnalare soprusi o disservizi. Insomma, l’ acqua come i telefonini: quando il credito si esaurisce, il collegamento cade. La storia parte da lontano, nel 2002, con una legge che obbliga i carrozzoni delle municipalizzate a snellirsi, diventare S.p.a. e lavorare con rigore. L’ Italia viene divisa in bacini idrici, i Comuni sono obbligati a consorziarsi e le bollette a includere tutti i costi, che non possono più scaricarsi sul resto delle tasse. Anche se i Comuni hanno mantenuto la maggioranza azionaria, nelle ex municipalizzate son potute entrare banche, industrie e società multinazionali. Ma quella che doveva essere una rivoluzione verso il meglio si è rivelata una delusione. Nessuno rifà gli acquedotti, le reti restano un colabrodo.

Il privato funziona peggio del pubblico, parola di Mediobanca, che in un’ indagine recente dimostra che le due aziende pubbliche milanesi, Cap ed Mm hanno le reti migliori d’ Italia e tariffe tra le più basse d’ Europa. Col voto del 6 agosto si rompe l’ ultima diga. L’ acqua cessa di essere diritto collettivo e diventa bisogno individuale, merce che ciascuno deve pagarsi. Questo spalanca scenari tutti italiani: per esempio i contatori regalati ai privati (banca, industria o chicchessia che incassano le bollette), e le reti idriche che restano in mano pubblica, con i costi del rifacimento a carico dei contribuenti. Insomma, la polpa ai primi e l’ osso ai secondi. Il peggio del peggio. È contro questo che si stanno muovendo i sindaci d’ Italia; a partire da quelli della Lombardia, che la guerra l’ hanno cominciata prima degli altri. È successo che centoquarantaquattro Comuni attorno a Milano han fatto muro contro la giunta Formigoni, la quale già nel 2006 aveva anticipato il 23 bis con una legge che separava erogazione e gestione del servizio. Quasi sempre all’ unanimità – destra, sinistra e Lega unite – i consigli comunali hanno chiesto un referendum per cancellare l’ aberrazione; e proprio ieri, dopo una lotta infinita e incommensurabili malumori del Palazzo, davanti al muro di gomma della giunta che apponeva alla legge solo ritocchi di facciata, hanno dichiarato di non recedere in alcun modo dalla richiesta di una consultazione popolare lombarda. “Si va allo scontro, non abbiamo scelta” spiega Giovanni Cocciro, iperattivo assessore del Comuni-capofila di Cologno Monzese, e delinea il futuro della rete in mano privata.

“Metti che i contatori passino a una banca, e questa stacchi l’ acqua a un condominio che non paga. Il sindaco, per questioni sanitarie, deve garantire il servizio minimo ma, non potendo più ordinare la riapertura del rubinetto, può solo intervenire con autobotti, con acqua che costa tremila volte di più~ Per non parlare dei problemi di ordine pubblico che ricadono sul Comune se la gente perde la pazienza”. Nei bar di Cologno, per ripicca, hanno messo l’ etichetta all’ acqua di rubinetto e ti dicono che le analisi l’ hanno dichiarata all’ altezza delle più blasonate minerali. Al banco la gente chiede “acqua del sindaco” rivendicandola come diritto, non come merce. E un po’ dappertutto, attorno a Milano, crescono le “case dell’ acqua”, dove il bene più universale viene distribuito gratis, rinfrescato e con bollicine, in confortevoli spazi alberati dove la gente può sedersi e chiacchierare. Un “water pride” in salsa lombarda, che ora sta contagiando anche il Piemonte. Premane in Valsassina, in provincia di Lecco, è un comune di montagna a maggioranza leghista già assediato da privati in cerca di nuove centraline idroelettriche, e sul tema dell’ acqua ha i nervi scoperti.

“Nel servizio idrico solo la gestione pubblica può garantire equità all’ utente” sottolinea con forza Pietro Caverio, che ha firmato la protesta dei 144 Comuni. Segnali di insofferenza arrivano da tutto il Paese; situazioni paradossali si moltiplicano. Sentite cos’ è accaduto a Firenze. Il Comune ha accettato di fare una campagna per il risparmio idrico e un anno dopo, di fronte a una diminuzione dei consumi, ecco che la “Publiacqua” manda agli utenti una lettera dove spiega che, causa della diminuita erogazione, si vede costretta ad alzare le tariffe per far quadrare i conti. Ovvio: il privato premia lo spreco, non il risparmio. L’ unica cosa certa sono i rincari: ad Aprilia in Lazio sono scattati aumenti del trecento per cento e un conseguente sciopero delle bollette che dura tuttora contro la società “Acqualatina”. Stessa cosa a Leonforte, provincia di Enna, paese di pensionati in bolletta. A Nola e Portici, nel retroterra napoletano, la società “Gori” ha quasi azzerato la pressione in alcuni condomini insolventi, senza avvertire il sindaco; e lavoratori della ditta hanno impedito ai partigiani dell’ acqua pubblica di tenere la loro assemblea. A Frosinone gli aumenti sono stati tali che il Comitato di vigilanza è dovuto intervenire e alzare la voce per ottenere la documentazione nei tempi previsti. Più o meno lo stesso a La Spezia, che ha le bollette più care d’ Italia. Per non parlare di Arezzo, dove la privatizzazione si sta rivelando un fallimento. L’ Acquedotto pugliese, dopo la privatizzazione, si è indebitato con banche estere finite nelle tempeste finanziarie globali. A Pescara, da quando è scattato il regime di S.p.a., s’ è scoperto un grave inquinamento industriale della falda e la magistratura ha fatto chiudere l’ impianto. A Ferrara il regime di privatizzazione è coinciso col trasferimento a Bologna del laboratorio di analisi, con conseguente allentamento dei controlli in una delle zone più a rischio d’ Italia, causa la falda avvelenata del Po.

Ma se già ora la situazione è così grave, ci si chiede, cosa accadrà col “23 bis”? Sessantaquattro ambiti idrici territoriali – sui 90 in cui è compartimentata l’ Italia – tengono duro, rimangono pubblici, e organizzano laddove possibile la difesa contro i compratori dell’ acqua italiana. Ma è battaglia tosta: l’ acqua è il business del futuro. Consumi in aumento e disponibilità in calo, quindi prezzi destinati infallibilmente a salire. Conseguenza: nelle rimanenti 26 S.p.a. miste le pressioni sulla politica sono enormi, tanto più che nei consigli di amministrazione il pubblico è rappresentato da malleabili politici in pensione, e il privato da vecchie volpi capaci di far prevalere il profitto sulla bontà del servizio. Dai 26 ambiti che hanno accettato la privatizzazione sono cresciuti intanto quattro colossi: l’ Acea di Roma che ha comprato l’ acqua toscana; l’ Amga di Genova che s’ è alleata con la Smat di Torino e ha dato vita all’ Iride; la Hera di Bologna che cresce in tutta la Padania; la A2A nata dalla fusione dell’ Aem milanese e dell’ Asm bresciana. In tutte, una forte presenza di multinazionali come Veolia e Suez, banche, imprenditori italiani d’ assalto, e una gran voglia di crescere sul mercato. “Ormai il sistema idrico non segue più la geografia delle montagne ma quella dei pacchetti azionari” dice Emilio Molinari, leader nazionale dei comitati per il contratto mondiale per l’ acqua. Il che porta sorprese a non finire. Del tipo: il Fondo pensioni delle Giubbe Rosse canadesi che entra nella Hera e quello delle vedove scozzesi che trova spazio all’ interno dell’ Iride. E colpi di scena politici: l’ Acea guidata a suo tempo dal sindaco Veltroni mette le mani sull’ acqua toscana, costruendo nel Centro Italia un potentissimo polo dell’ acqua “rossa”, ma poi ti arriva Alemanno a sparigliare i giochi, e l’ acqua di una regione di sinistra oggi è in mano alla destra. Anni fa a Firenze sarebbe successo il putiferio.

Oggi tutto tace. Motivo? Lo spiega la Commissione Antitrust, che già nel 2007 ha individuato nei quattro attori forti i pilastri di una situazione di oligopolio. C’ è un cartello, che ora è pronto a comprarsi tutto il mercato proprio grazie al “23 bis”. Dietro alle Quattro Sorelle esiste lo stesso intreccio finanziario e lo stesso collegamento – rigorosamente bipartisan – con i partiti. I quali, difatti, il 6 agosto hanno votato in perfetta unanimità. Per questo i sindaci si sentono truffati. “L’ acqua è il nuovo luogo dell’ inciucio” ti dicono al bar di Cologno Monzese. Quando i comitati per l’ acqua pubblica, sparsi in tutt’ Italia, hanno raccolto 400 mila firme e depositato in parlamento nel luglio 2007 una proposta di legge di iniziativa popolare, sia sotto il governo Prodi che sotto quello di Berlusconi non s’ è trovato uno straccio di relatore, nemmeno d’ opposizione, capace di esaminare e illustrare la volontà dei cittadini così massicciamente espressa. La melina del palazzo sul tema dell’ acqua è trasparente, cristallina. Con l’ acqua che diventa un pacchetto azionario, c’ è anche il rischio che un bene primario della nazione passi in mani altrui, nel gioco di scatole cinesi della finanza. In Inghilterra è accaduto: le bollette si pagano a una società australiana, che ha triplicato le tariffe. Vuoi protestare per un guasto? Rivolgiti a un operatore agli antipodi. Può capitare anche qui. Ormai niente isola più l’ acqua dai fiumi avvelenati delle finanze che affondano l’ economia mondiale, e in molti Paesi si sta correndo ai ripari.

Persino in Francia, che pure è la sede delle multinazionali Suez e Veolia che comprano l’ acqua italiana. “Torniamo all’ acqua pubblica”, proclama il sindaco di Parigi Delanoe, che impernia su questo la campagna elettorale per la riconferma. Anche lì si rivuole l’ acqua del sindaco. E che dire della Svizzera e degli Stati Uniti, i Paesi della Nestlé e della Coca-Cola che imbottigliano fonti italiane. Non sono mica scemi: l’ acqua è protetta come fattore strategico e tenuta ben fuori dal mercato. Ormai si stanno muovendo tutti, anche la Chiesa. I vescovi di Brescia e Milano sono intervenuti proclamando il concetto del pubblico bene. La conferenza episcopale abruzzese ha messo per iscritto che l’ accesso all’ acqua “è un diritto fondamentale e inalienabile”. In Campania è battaglia dura e la difesa dell’ acqua si intreccia nel modo più perverso con gli interessi della camorra e l’ affare della monnezza. Al Nord, in piena zona leghista, sindaci come Domenico Sella (Mezzane, nella pedemontana veronese) deliberano che l’ acqua è cosa loro, ed è il perno del rapporto con i cittadini. “Se xe una perdita, la gente me ciama, e mi fasso subito riparar”. Più chiaro di così. Sul territorio sinistra e destra parlano ormai la stessa lingua. Nelle Marche il presidente della provincia di Ascoli Massimo Rossi (Rifondazione) spiega che “non si può imporre la privatizzazione”. E sempre ad Ascoli Paolo Nigrotti, An, presidente della società di gestione (tutta pubblica), una delle migliori del Paese, osserva che “la privatizzazione non è stata gran che in Italia” e va applicata solo là dove serve. La qualità costa, ma la può garantire anche un pubblico responsabile. Nel Friuli-Venezia Giulia, l’ ex presidente della provincia di Gorizia Giorgio Brandolin – uno che ha resistito alle pressioni privatrizzatrici della Regione e ha messo insieme una S.p.a pubblica tutta goriziana che da due anni e mezzo gestisce la rete in modo impeccabile – ora si ritrova capofila dei movimenti anti “23 bis”. In Puglia, 38 Comuni e due Province (Bari e Lecce) hanno formato un robusto pacchetto di mischia per la ripubblicizzazione e chiedono a Niki Vendola una legge regionale che definisca l’ acqua “bene privo di rilevanza economica”. Ragusa e Messina battono la stessa strada. A Parma è scesa in piazza pure la gioventù italiana della Destra di Storace. Succede che di fronte alla bolletta, la gente – toccata nel portafoglio – sta ripescando un concetto passato di moda, quello di bene comune. Nell’ acqua il cattolico vede la vita e il battesimo; il nazionalista un bene non alienabile agli stranieri; il leghista l’ autogoverno del territorio. Altri vi trovano il benessere, il dono ospitale, la pulizia e la sanità. “Tutti sentono l’ acqua come l’ ultima trincea” ammette Rosario Lembo, segretario del Contratto per l’ acqua. Tutti vi scoprono un simbolo potente, e quel simbolo è capace di rompere i giochi del Palazzo con nuove alleanze. Giuseppe Altamore – autore di bei libri-inchiesta sul tema, come “Acqua S.p.a.” – osserva che “il vero dramma è la mancanza di un’ authority capace di affrontare l’ emergenza di un Paese dove un abitante su tre non ha accesso all’ acqua potabile”. Quattro ministri se ne occupano, ma intanto nessuno pone rimedio a perdite spaventose e nessuno mette in sicurezza le falde avvelenate. Per esempio l’ arsenico oltre il limite a Grosseto e Velletri. E poi il fluoro, i cloriti, i trialometani~ Servono formidabili investimenti, o la rete va al collasso”. (1-continua)

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fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/giu-le-mani-dallacqua-del-sindaco/

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DAL BLOG DI mausipisa

Vi riporto su segnalazione di Tobruz (grazie!) l’articolo 23bis della famigerata legge 133. Quella che contiene i tagli all’università.- l’art. 23 consegna l’acqua ai privati. ho messo in evidenza le parti più salienti cercando di dribblare l’abile gioco di taglia e cuci per mitigare la verità nuda e cruda.

Prepariamoci a bollette ancora più salate. Mi spiace……

recente Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112 – convertito in Legge 6 agosto 2008, n. 133, all’art 23bis, nella parte relativa alle liberalizzazioni in tema di servizi pubblici (Sempre il DL TREMONTI). Beninteso l’art. 23 non c’entra un fico secco con il 23 bis.

Art. 23-bis.
Servizi pubblici locali di rilevanza economica

1. Le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonche’ di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione. Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili.

2. Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità.

3. In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria. (?)

4. Nei casi di cui al comma 3, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione.

5. Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati.

6. E’ consentito l’affidamento simultaneo con gara di una pluralità di servizi pubblici locali nei casi in cui possa essere dimostrato che tale scelta sia economicamente vantaggiosa. In questo caso la durata dell’affidamento, unica per tutti i servizi, non può essere superiore alla media calcolata sulla base della durata degli affidamenti indicata dalle discipline di settore.

7. Le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze e d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono definire, nel rispetto delle normative settoriali, i bacini di gara per i diversi servizi, in maniera da consentire lo sfruttamento delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell’espletamento dei servizi, nonche’ l’integrazione di servizi a domanda debole nel quadro di servizi più redditizi, garantendo il raggiungimento della dimensione minima efficiente a livello di impianto per più soggetti gestori e la copertura degli obblighi di servizio universale.

8. Salvo quanto previsto dal comma 10, lettera e) le concessioni relative al servizio idrico integrato rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2010, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante. Sono escluse dalla cessazione le concessioni affidate ai sensi del comma 3.

9. I soggetti titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati mediante le procedure competitive di cui al comma 2, nonche’ i soggetti cui e’ affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, ne’ svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, ne’ direttamente, ne’ tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, ne’ partecipando a gare. Il divieto di cui al periodo precedente non si applica alle società quotate in mercati regolamentati. I soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali possono comunque concorrere alla prima gara svolta per l’affidamento, mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica, dello specifico servizio già a loro affidato. In ogni caso, entro la data del 31 dicembre 2010, per l’affidamento dei servizi si procede mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica.

10. Il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni ed entro centottanta giorni alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonche’ le competenti Commissioni parlamentari, emana uno o più regolamenti, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di:
a) prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e l’osservanza da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale;
b) prevedere, in attuazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza di cui all’articolo 118 della Costituzione, che i comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata;
c) prevedere una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni di gestione dei servizi pubblici locali, anche attraverso la revisione della disciplina sulle incompatibilità;
d) armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonche’ in materia di acqua;
e) disciplinare, per i settori diversi da quello idrico, fermo restando il limite massimo stabilito dall’ordinamento di ciascun settore per la cessazione degli affidamenti effettuati con procedure diverse dall’evidenza pubblica o da quella di cui al comma 3, la fase transitoria, ai fini del progressivo allineamento delle gestioni in essere alle disposizioni di cui al presente articolo, prevedendo tempi differenziati e che gli affidamenti diretti in essere debbano cessare alla scadenza, con esclusione di ogni proroga o rinnovo;
f) prevedere l’applicazione del principio di reciprocità ai fini dell’ammissione alle gare di imprese estere;
g) limitare, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale e razionalità economica, i casi di gestione in regime d’esclusiva dei servizi pubblici locali, liberalizzando le altre attività economiche di prestazione di servizi di interesse generale in ambito locale compatibili con le garanzie di universalità ed accessibilità del servizio pubblico locale;
h) prevedere nella disciplina degli affidamenti idonee forme di ammortamento degli investimenti e una durata degli affidamenti strettamente proporzionale e mai superiore ai tempi di recupero degli investimenti;
i) disciplinare, in ogni caso di subentro, la cessione dei beni, di proprietà del precedente gestore, necessari per la prosecuzione del servizio;
l) prevedere adeguati strumenti di tutela non giurisdizionale anche con riguardo agli utenti dei servizi;
m) individuare espressamente le norme abrogate ai sensi del presente articolo.

11. L’articolo 113 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, e’ abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni di cui al presente articolo.

12. Restano salve le procedure di affidamento già avviate alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto

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fonte: http://mausipisa.splinder.com/post/18997565

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https://i0.wp.com/www.santantonio.org/messaggero/upload/foto/0506_52.jpgLago di Tiberiade

TREMONTI: l’acqua è più importante del petrolio

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Massimiliano Fanni Canelles, docente di diritti umani all’Università Cattolica di Milano, esperto di relazioni d’aiuto in contesti di povertà, direttore del giornale ministeriale SocialNews che ha dedicato un numero intero sul problema dell’acqua, commenta le parole del Ministro Tremonti.

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Trieste, 25/09/2008 (informazione.it – comunicati stampa) Il Petrolio verrà sostituito mentre l’acqua è insostituibile. A dirlo è Giulio Tremonti, Ministro dell’Economia, alla IV Conferenza mondiale sul futuro della scienza alla Fondazione Cini di Venezia incentrata proprio sul tema del cibo e dell’acqua: “l’acqua è più importante del petrolio e nel prossimo futuro sarà possibile sostituire il petrolio con altre fonti di energia, ma non sarà mai possibile sostituire l’acqua”.

La domanda globale di acqua è triplicata negli ultimi 50 anni e nel 2030 aumenterà del 25%. E’ quindi necessario che i Governi adottino le misure necessarie ad evitare l’esaurirsi delle risorse primarie e per scongiurare il rischio di una “separazione sociale tra ricchi e poveri”. La crescita demografica della popolazione, l’aumento del consumo nei paesi più ricchi, l’inquinamento, il cambiamento del clima stanno infatti rendendo sempre più difficile l’accesso all’acqua.

Ogni anno ci sono 1,5 milioni di decessi provocati dalla sua carenza e secondo dati delle Nazioni Unite ogni giorno muoiono 5000 bambini a causa della mancanza di acqua potabile. Così mentre 2 miliardi di persone non hanno accesso al minimo giornaliero indispensabile (20 litri) gli italiani, in cima alle classifiche dello spreco, consumano mediamente in un giorno 250 litri d’acqua e nel nostro Paese si irrigano 5 milioni di ettari di terreno, buttando poi gran parte dei raccolti per mantenere il prezzo dei prodotti elevato.

Nei prossimi anni il prezioso liquido blu
sarà coinvolto in un giro d’affari del valore di centinaia di miliardi di euro superando i record raggiunti dal petrolio. L’elemento fondamentale per la vita si trasformerà così da bene universale e gratuito in elemento principe per le trattative economiche e politiche. Già oggi il terzo mondo paga l’acqua cinque volte più cara dei paesi industrializzati. In Medio Oriente, in Asia, in Africa e nell’America latina l’acqua è già fonte di contrasto e principale causa di conflitto in almeno 30 paesi.

Israele controlla le acque del Lago di Tiberiade e la sorgente del Giordano, la Turchia controlla l’acqua che giunge in Iraq e in Siria. Ma anche in India e Pakistan, Sudan ed Egitto, Mozambico e Sud Africa, per fare qualche esempio, le tensioni legate al controllo dell’acqua sono sempre più drammatiche. è quindi necessario riordinare le competenze sulle risorse idriche sia al livello nazionale che internazionale, aiutare i paesi poveri ad utilizzare al meglio le risorse, incentivare nuovi sistemi di irrigazione con meno sprechi, elaborare un adeguato riciclo dell’acqua potabile per usi agricoli, rafforzare la raccolta dell’acqua piovana, inventare metodiche di dissalazione efficaci, ma soprattutto trasmettere una cultura nuova incentrata sulla solidarietà nella distribuzione idrica e sulla condanna dello spreco e della speculazione.

L’acqua è patrimonio dell’umanità, il diritto all’acqua, da sempre presente in tutte le legislazioni, è inalienabile, individuale e collettivo e l’uomo ha il dovere di preservare, proteggere e tutelare la vita e le risorse che la sostengono. Oggi c’è il tentativo di declassare l’acqua da diritto universale dell’uomo a semplice necessità per poi tentare di ridurla a mercanzia per facili guadagni. Un progetto in mano a pochi che necessita di una chiara presa di posizione da parte di tutti in modo che il simbolo della vita possa continuare a mantenere viva un’umanità più pura.

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fonte: http://www.informazione.it/c/f10e39f5-4533-4666-be2f-2933fecbe4ef/TREMONTI-l-acqua-e-piu-importante-del-petrolio


Noi vittime dei preti pedofili / Video choc: testimonianze ex allievi

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Decine di bambini e ragazzi sordi violentati e molestati in un istituto di Verona fino al 1984. E dopo decenni di tormenti, gli ex allievi trovano la forza di denunciare gli orrori. Ma molti dei sacerdoti sono ancora lì

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di Paolo Tessadri

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Per oltre un secolo è stato un simbolo della carità della Chiesa: una scuola specializzata per garantire un futuro migliore ai bambini sordi e muti, sostenendoli negli studi e nell’inserimento al lavoro. L’Istituto Antonio Provolo di Verona ospitava i piccoli delle famiglie povere, figli di un Nord-est contadino dove il boom economico doveva ancora arrivare. Fino alla metà degli anni Ottanta è stato un modello internazionale, ma nel tetro edificio di Chievo, una costruzione a metà strada tra il seminario e il carcere, sarebbero avvenuti episodi terribili.

Solo oggi, rincuorati dalle parole di condanna pronunciate da papa Ratzinger contro i sacerdoti pedofili, decine di ex ospiti hanno trovato la forza per venire allo scoperto e denunciare la loro drammatica esperienza: Preti e fratelli religiosi hanno abusato sessualmente di noi. Un’accusa sottoscritta da oltre 60 persone, bambini e bambine che hanno vissuto nell’Istituto, e che ora scrivono: “Abbiamo superato la nostra paura e la nostra reticenza”.

Gli abusi di cui parlano sarebbero proseguiti per almeno trent’anni, fino al 1984. Sono pronti a elencare una lunga lista di vittime e testimoni, ma non possono più rivolgersi alla magistratura: tutti i reati sono ormai prescritti, cancellati dal tempo. I sordomuti che dichiarano di portarsi dentro questo dramma sostengono però di non essere interessati né alle condanne penali né ai risarcimenti economici. Loro, scrivono, vogliono evitare che altri corrano il rischio di subire le stesse violenze: una decina dei religiosi che accusano oggi sono anziani, ma restano ancora in servizio nell’Istituto, nelle sedi di Verona e di Chievo. Per questo, dopo essersi rivolti al vescovo di Verona e ai vertici del Provolo, 15 ex allievi hanno inviato a ‘L’espresso’ le testimonianze – scritte e filmate – della loro esperienza. Documenti sconvolgenti, che potrebbero aprire uno squarcio su uno dei più gravi casi di pedofilia in Italia: gli episodi riguardano 25 religiosi, le vittime potrebbero essere almeno un centinaio.

La denuncia
Gli ex allievi, nonostante le difficoltà nell’udito e nella parola, sono riusciti a costruirsi un percorso di vita, portandosi dentro le tracce dell’orrore. Dopo l’esplosione dello scandalo statunitense che ha costretto la Chiesa a prendere atto del problema pedofilia, e la dura presa di posizione di papa Benedetto XVI anche loro hanno deciso di non nascondere più nulla. Si sono ritrovati nell’Associazione sordi Antonio Provolo e poi si sono rivolti alla curia e ai vertici dell’Istituto. Una delle ultime lettere l’hanno indirizzata a monsignor Giampietro Mazzoni, il vicario giudiziale, ossia il magistrato del Tribunale ecclesiastico della diocesi di Verona. È il 20 novembre 2008: “I sordi hanno deciso di far presente a Sua Eminenza il Vescovo quanto era loro accaduto. Nella stanza adibita a confessionale della chiesa di Santa Maria del Pianto dell’Istituto Provolo, alcuni preti approfittavano per farsi masturbare e palpare a loro volta da bambine e ragazze sorde (la porta era in quei momenti sempre chiusa a chiave).

I rapporti sodomitici avvenivano nel dormitorio, nelle camere dei preti e nei bagni sia all’Istituto Provolo di Verona che al Chievo e, durante il periodo delle colonie, a Villa Cervi di San Zeno di Montagna”. E ancora: “Come non bastasse, i bambini e ragazzi sordi venivano sottoposti a vessazioni, botte e bastonature. I sordi possono fare i nomi dei preti e dei fratelli laici coinvolti e dare testimonianza”. Seguono le firme: nome e cognome di 67 ex allievi.

Le storie
I protagonisti della denuncia citano un elenco di casi addirittura molto più lungo, che parte dagli anni Cinquanta. Descrivono mezzo secolo di sevizie, perfino sotto l’altare, in confessionale, dentro ai luoghi più sacri.
Quei bambini oggi hanno in media tra i 50 e i 70 anni: il più giovane compirà 41 anni fra pochi giorni. Qualcuno dice di essere stato seviziato fino quasi alla maggiore età. Gli abusi, raccontano, avvenivano anche in gruppo, sotto la doccia. Scene raccapriccianti, impresse nella loro memoria. Ricorda Giuseppe, che come tutti gli altri ha fornito a ‘L’espresso’ generalità complete: “Tre ragazzini e tre preti si masturbavano a vicenda sotto la doccia”. Ma la storia più angosciante è quella di Bruno, oggi sessantenne, che alla fine degli anni Cinquanta spiccava sugli altri bambini per i lineamenti angelici: era il ‘bello’ della sua classe. E solo ora tira fuori l’incubo che lo ha tormentato per tutta la vita: “Sono diventato sordo a otto anni, a nove frequentavo il Provolo che ho lasciato a 15 anni. Tre mesi dopo la mia entrata in istituto e fino al quindicesimo anno sono stato oggetto di attenzioni sessuali, sono stato sodomizzato e costretto a rapporti di ogni tipo dai seguenti preti e fratelli.”. Ha elencato 16 nomi. Nella lista anche un alto prelato, molto famoso a Verona: due sacerdoti del Provolo avrebbero accompagnato Bruno nel palazzo dell’ecclesiastico.

“Era il 1959, avevo 11 anni. Mi ha sodomizzato e preteso altri giochi sessuali. È stata un’esperienza terribile che mi ha procurato da adulto gravi problemi psicologici”.

Il dramma
Un altro ex allievo, Guido, dichiara di essere stato molestato da un prete: “Avveniva nella sua stanza all’ultimo piano. E mi costringeva a fare queste cose anche a Villa Cervi durante le colonie estive e al campeggio sul lago di Garda”. Carlo è rimasto all’istituto dai 7 ai 18 anni, e chiama in causa un altro sacerdote: “Mi costringeva spesso con punizioni (in ginocchio per ore in un angolo) e percosse (violenti schiaffi e bastonature) ad avere rapporti con lui”. Altre volte si sarebbe trattato di bacchettate sulle mani, mentre di notte “nello stanzone dove dormivo con altri sordi spesso mi svegliava per portarmi nei bagni dove mi sodomizzava o si faceva masturbare. Non ho mai dimenticato”.
Sono racconti simili. Tragedie vissute da bambini di famiglie povere, colpiti dalla sordità e poi finiti tra le mura dell’istituto; drammi tenuti dentro per decenni. Ricostruisce Ermanno: “La violenza è avvenuta nei bagni e nelle stanze dell’Istituto Provolo e anche nella chiesa adiacente”. “Se rifiutavo minacciava di darmi un brutto voto in condotta, questi fatti mi tornano sempre in mente”, scrive un altro. Giuseppe qualche volta a Verona incontra il suo violentatore, “ancora oggi quando lo vedo provo molto disagio. Non sono mai riuscito a dimenticare”. Stando alle denunce, le vittime erano soprattutto ragazzini. Ma ci sono anche episodi testimoniati da bambine. Lina ora ha cinquant’anni, è rimasta “all’istituto per sordomuti dai sei ai 17 anni. A tredici anni nella chiesa, durante la confessione faccia a faccia (senza grata), il sacerdote mi ha toccata il seno più volte. Ricordo bene il suo nome. Io mi sono spaventata moltissimo e da allora non mi sono più confessata”. Giovanna scrive che un altro prete “ha tirato fuori il membro e voleva che lo toccassi”. E per molte ragazzine i fatti avvenivano nella chiesa dell’istituto, sotto l’altare. A qualcuna, però, è andata molto peggio.

Gli esposti
Oggi l’Istituto Antonio Provolo ha cambiato completamente struttura e missione. Le iniziative per il sostegno ai sordomuti sono state ridimensionate e vengono finanziate anche dalla Regione Veneto. Adesso l’attività principale è il Centro educativo e di formazione professionale, gestito interamente da laici, che offre corsi d’avanguardia per giovani ed è specializzato nella riqualificazione di disoccupati. Al vertice di tutto ci sono sempre i religiosi della Congregazione della Compagnia di Maria per l’educazione dei sordomuti, che dipendono direttamente dalla Santa Sede. Alla Congregazione si sono rivolti gli ex allievi chiedendo l’allontanamento dei sacerdoti chiamati in causa. Secondo la loro associazione, “c’è già stata più di un’ammissione di colpa”. La più importante risale al 2006, quando don Danilo Corradi, superiore generale dell’Istituto Provolo, avrebbe incontrato più di 50 ex allievi. Secondo l’Associazione, il superiore a nome dell’Istituto avrebbe chiesto 12 volte scusa per gli abusi commessi dagli altri religiosi. I testimoni ricostruiscono una riunione dai toni drammatici: don Corradi che stringe il capo fra le mani, suda, chiede perdono, s’inginocchia. Ma i sordomuti avrebbero preteso l’allontanamento dei sacerdoti coinvolti, senza ottenerlo. A ‘L’espresso’ don Danilo Corradi fornisce una versione diversa: “Ho sentito qualcosa, ma io sono arrivato nel 2003 e di quello che è successo prima non so. Non rispondo alle accuse, non so chi le faccia: risponderemo dopo aver letto l’articolo”.

La Curia
Da quasi due anni gli ex allievi si sono appellati anche alla Curia di Verona, informandola nel corso di più incontri. Il presidente della Associazione sordi Antonio Provolo, Giorgio Dalla Bernardina, ne elenca tre: a uno hanno preso parte 52 persone. E scrive al vescovo: “Nonostante i nostri incontri in Curia durante i quali abbiamo fatto presente anche e soprattutto gli atti di pedofilia e gli abusi sessuali subiti dai sordomuti durante la permanenza all’istituto, a oggi non ci è stata data alcuna risposta”. L’ultima lettera è dell’8 dicembre 2008. Pochi mesi prima, a settembre, avevano fatto l’ennesimo tentativo, inviando una raccomandata al vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti. Senza risposta, “nonostante le sue rassicurazioni e promesse di intervento”. Questa missiva è stata firmata da tre associazioni di sordi: Associazione Sordi Antonio Provolo, Associazione non udenti Provolo, Associazione sordi Basso Veronese-Legnago.

Il vescovo, interpellato da ‘L’espresso’, replica con una nota scritta: “Il Provolo è una congregazione religiosa. In quanto tale è di diritto pontificio e perciò sotto la giurisdizione del Dicastero dei religiosi. La diocesi di Verona, sul cui territorio è sorta la Congregazione, apprezza l’opera di carattere sociale da essa svolta in favore dei sordomuti”. Poi monsignor Giuseppe Zenti entra nel merito: “Per quanto attiene l’accusa di eventuale pedofilia, rivolta a preti e fratelli laici, che risalirebbe ad alcune decine di anni fa, la diocesi di Verona è del tutto all’oscuro. A me fecero cenno del problema alcuni di una Associazione legata al Provolo, ma come ricatto rispetto a due richieste di carattere economico, nell’eventualità che non fossero esaudite. Tuttavia a me non rivolsero alcuna accusa circostanziata riferita a persone concrete, ma unicamente accuse di carattere generico. Non ho altro da aggiungere se non l’impegno a seguire in tutto e per tutto le indicazioni contenute nel codice di diritto canonico e nelle successive prese di posizione della Santa Sede. Nella speranza che presto sia raggiunto l’obiettivo di conoscere la verità dei fatti”.

L’Associazione sordi Antonio Provolo risponde al vescovo negando qualunque ricatto o interesse economico: “Gli abbiamo soltanto fatto presente i problemi, noi vogliamo che quei sacerdoti vengano allontanati perché quello che hanno fatto a noi non accada ad altri”.

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Silenzio in nome di Dio

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Esiste una rete di sacerdoti pedofili? La Procura di Roma ritiene di aver scoperto un collegamento tra due casi di abusi sessuali ai danni di minorenni affidati ai campi estivi di due prelati.

Il primo è don Ruggero Conti, parroco romano della chiesa di Selva Candida, arrestato il 30 giugno scorso per ripetuti abusi su minorenni. Il pubblico ministero Francesco Scavo, indagando su Conti, è arrivato a iscrivere nel registro degli indagati per gli stessi reati su quattro minori e per possesso di materiale pedopornografico anche il parroco 48enne di una chiesa di Fiumicino.

Anche a Brescia i religiosi accusati di certi reati sono più di uno. Mentre si sta celebrando il processo d’appello per don Stefano Bertoni, già assolto nel 2007, un altro alto prelato è stato arrestato ed è finito alla sbarra: don Marco Baresi, vicerettore del seminario di Brescia, è stato accusato da un minorenne. Nel computer del sacerdote la polizia ha trovato materiale pedopornografico scambiato in Rete, ma don Baresi si è difeso dicendo che quel pc era accessibile a molti e i fedeli lo difendono.

Nessun parrocchiano ha invece preso le parti di don Roberto Berti, sacerdote di Lastra a Signa, denunciato da cinque presunte vittime. La vicenda è emersa solo nello scorso giugno, quando l’allora cardinale di Firenze, Ennio Antonelli, trasferì il prete, coprendo però la vicenda. Un insabbiamento che Antonelli mise in atto anche nei confronti di don Lelio Cantini, 84enne parroco fiorentino, responsabile di decine di abusi su minorenni. ‘Coperto’ finché le vittime non si sono rivolte ai giornali, denunciando il vecchio sacerdote. G.D’I.

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22 gennaio 2009

fonte:  http://espresso.repubblica.it/dettaglio//2059083/&print=true

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22 gennaio 2009

fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Noi-vittime-dei-preti-pedofili/2059082&ref=hpsp

Sardegna, Soru: «Il premier viola tutte le regole del gioco»

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Il presidente uscente della Regione ha accusato il premier di violare tutte le regole della par condicio

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«Se al Presidente del Consiglio stava così a cuore la Sardegna poteva dimettersi, prendere la residenza a Porto Rotondo e candidarsi alla presidenza della Regione. E ci veniva coi suoi mezzi, come faccio io, e non con le forze dell’ordine, a fare una campagna elettorale che non gli compete». L’ha sostenuto Renato Soru, candidato alla presidenza della Regione del centrosinistra, chiudendo in serata una manifestazione a Carbonia.

Il presidente uscente della Regione ha accusato il premier di violare tutte le regole della par condicio. «Avrebbe dovuto fare come me, contare i minuti, invece – ha spiegato Soru – impazza a reti unificate. E almeno, quando parla della Sardegna, quando parla di numeri, dovrebbe citare le fonti. Invece sta facendo campagna elettorale in Sardegna come ritiene che la campagna elettorale debba essere fatta: lo diceva già tempo fa che gli elettori hanno la testa di un bambino di 12-13 anni e neanche tanto sveglio. Ecco, crede che siamo così e per questo ci racconta panzane».

Soru ha, quindi, ribattuto ai richiami a Tiscali del leader del Pdl: «Oggi è venuto a parlare di un’azienda che io ho fondato tanti anni fa e di cui vado orgoglioso. Diversamente da lei, signor presidente del Consiglio, io da 5 anni – ha aggiunto – non mi sono più occupato della mia azienda. Non ho mai fatto leggi regionali ad hoc per mie questioni personali, né per mie aziende, mentre il monopolio delle tv commerciali è in mano a una sola impresa». Sottolineato che il bilancio della Sardegna non è fallimentare, Soru ha respinto l’accusa, che ha definito una calunnia, di aver buttato giù degli ulivi nella sua villa per vedere il mare: «Io gli alberi li pianto e la nostra regione è stata anche premiata dal suo governo per questo. E gli ulivi li pianto anche a casa mia e quest’anno ho fatto 700 litri d’olio». «Lei ha 73 anni, signor presidente del Consiglio, io 51, siamo grandi, abbiamo figli, siamo nonni – ha concluso Soru – Lasciamo ai nostri figli la certezza che i loro genitori non sono persone che mentono».

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25 gennaio 2009

fonte: http://ilsecoloxix.ilsole24ore.com/italia_e_mondo/2009/01/25/1202040684484-sardegna-soru-il-premier-viola-tutte-regole-gioco.shtml

Eluana, gli italiani senza dubbi “La Chiesa non influenzi lo Stato”

Demos: lo dice l’83%. E uno su due, se in coma, vorrebbe morire

I giudizi attraversano tutto lo spazio politico

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di FABIO BORDIGNON

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Eluana, gli italiani senza dubbi "La Chiesa non influenzi lo Stato"
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IL CONFINE tra la vita e la morte rappresenta un terreno estremamente delicato, in cui diverse prospettive medico-scientifiche, opposti convincimenti etici e religiosi si confrontano e si scontrano, attraverso una molteplicità di casi concreti. Tuttavia, dalle risposte del campione interpellato da Demos per La Repubblica (TABELLE), emerge un orientamento maggioritario, che si oppone all’accanimento terapeutico, privilegia la scelta individuale del malato (o della sua famiglia) e si spinge fino ad ammettere l’eutanasia. Per quanto l’identità cattolica attenui, in qualche misura, queste posizioni.

La lunga battaglia per Eluana Englaro porta l’attenzione su questioni che da tempo lacerano la società italiana. Oltre la metà degli intervistati (50,4%), se si trovasse in stato di coma per un periodo così lungo, preferirebbe essere “lasciata morire”. Una persona su cinque lascerebbe la scelta ai propri cari (21%), mentre una quota appena inferiore (19%) vorrebbe essere comunque tenuta in vita. Nel momento in cui si parla, esplicitamente, di eutanasia, il dato cambia, ma lascia inalterato un orientamento generale che mette al centro la volontà del malato. Anche in questo caso, il numero di quanti ritengono giusto che la medicina possa “aiutare” il paziente a morire, in presenza di una malattia incurabile, supera la soglia del 50%. Non si tratta, peraltro, di un dato di oggi, ma che ormai da anni si ripresenta nell’atteggiamento dell’opinione pubblica.

La base dei favorevoli, infine, diventa ancora più ampia nel considerare il ricorso a uno strumento diverso, ma che va comunque nella direzione di dare più peso alla libertà individuale: il 79% degli intervistati, infatti, si schiera a favore del testamento biologico.

I giudizi in base alle intenzioni di voto mostrano come le divisioni su questi argomenti attraversino l’intero spazio politico. La quota dei favorevoli al testamento biologico è maggioritaria nell’elettorato di tutti i principali partiti. Ma avviene lo stesso, con la sola eccezione dell’Udc, anche per quanto riguarda l’eutanasia. Maggiori divergenze emergono, invece, a partire dalla frequenza alla messa. Tra chi partecipa in modo assiduo ai riti religiosi, circa una persona su tre ammette la “buona morte”, ma già tra i saltuari il dato sale al 59% e cresce di altri dieci punti tra i non praticanti (68%). Sebbene le opinioni si leghino in modo stretto alla pratica religiosa, i risultati mettono in evidenza una posizione piuttosto netta e trasversale (maggioritaria anche tra i praticanti assidui): la Chiesa deve limitarsi a intervenire sulle coscienze dei fedeli, senza però “fare pressione” sullo Stato (83%).

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25 gennaio 2009
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La Fao: la tensione intorno all’acqua potrebbe causare prossima crisi mondiale

Un quinto della popolazione vive con scarse risorse idriche, presto si aggiungeranno altri 500 milioni di persone

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Carenza d'acqua nella diga di Valle de Bravo, in Messico ROMA (25 gennaio) – Pasquale Steduto, capo dell’Unità della Fao di Sviluppo e Gestione dell’acqua, lancia un allarme sulla scarsità di acqua, che potrebbe essere il motivo scatenante della prossima crisi mondiale, per via dell’aumento di tensione che si registra intorno alle risorse idriche. Secondo Steduto «è necessario un cambio di rotta, l’unica soluzione a questo problema globale è la cooperazione internazionale».

Nel mondo 2,6 miliardi di persone non hanno accesso a servizi sanitari, 1,1 miliardi non dispongono di acqua pulita e 1,2 miliardi, pari a un quinto della popolazione mondiale, vive in zone con scarsità d’acqua e a questi, secondo la Fao, presto si aggiungeranno altri 500 milioni di persone. La pressione demografica, l’aumento della domanda alimentare, la crescita della domanda di energia sono tutti fattori che portano, secondo Steduto, ad un «necessario ripensamento del rapporto tra acqua, cibo ed energia».

Forum mondiale a marzo in Turchia. Il 16 marzo ad Istambul, in Turchia, si aprirà il quinto Forum Mondiale sull’acqua, che ha all’ordine del giorno un piano d’azione mondiale sulla gestione dell’acqua.

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fonte: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=43652&sez=HOME_NELMONDO


Maroni su Lampedusa: Maroni: «È la sinistra che li aizza. Non cedo, fermi lì fino al rimpatrio» / Lampedusa: addio Silvio!

Il ministro: “Denunciato il sindaco di Lampedusa, ha commesso un reato. Martedì l’accordo con la Tunisia”

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Il ministro Maroni (Fotogramma)

ROMA – Altre migliaia di soldati nelle città? «Sono i sindaci a chiederli, li accontenteremo». Gli arresti domiciliari allo stupratore di Roma? «Decisione sbagliata. Prenderemo misure». La rivolta degli immigrati? «Chi li ha aizzati se ne assumerà le responsabilità, anche penali. Io non mi fermo: resteranno a Lampedusa fino al rimpatrio». Di fronte alle emergenze di questi giorni il ministro dell’Interno Roberto Maroni ostenta decisionismo. E all’opposizione manda a dire: «La campagna elettorale è finita. Se davvero hanno a cuore la sicurezza dei cittadini, votino con noi il provvedimento che è all’esame del Parlamento».

Non eravate stati voi ad accusare l’allora sindaco Walter Veltroni per la morte della signora Reggiani?
«Noi avevamo denunciato come molte zone fossero abbandonate al degrado, situazione che favorisce episodi di violenza, si è visto a Guidonia. Ne stiamo ancora pagando le conseguenze, soprattutto a Roma. Ci vuole tempo, ma abbiamo i mezzi e le risorse per garantire un controllo capillare del territorio. Gianni Alemanno sta svolgendo molto bene questo compito. E non è l’unico. C’è ottima sintonia anche con il sindaco di Torino, e di Milano».

Il premier Silvio Berlusconi ha detto che gli stupri «possono succedere anche in uno Stato di polizia, sono episodi che non possono essere previsti». Concorda?
«Non commento le parole del presidente. Dico che questi fatti devono essere prevenuti con un’azione congiunta di forze di polizia e amministratori locali. A volte può bastare illuminare una strada per renderla più sicura. L’operazione è complessa, ma noi siamo determinati a raggiungere l’obiettivo. E lo faremo siglando nuovi patti per la sicurezza».

Parla degli accordi messi a punto dal suo predecessore Giuliano Amato?
«Sì, peccato che il precedente governo li abbia lasciati sulla carta. Noi finalmente gli stiamo dando attuazione, concentrandoci su un utilizzo più efficace delle forze dell’ordine, sugli interventi nei quartieri a rischio e sui campi nomadi. A Roma abbiamo già iniziato a sgomberarne alcuni. Nelle prossime settimane attueremo il programma per la chiusura di tutti gli altri».

Che fine faranno queste persone?
«Chi ha i requisiti verrà trasferito in campi attrezzati e sorvegliati giorno e notte. Gli altri saranno immediatamente rimpatriati».

Lei ha promesso rimpatri immediati anche a Lampedusa, però sull’isola è scoppiata la protesta di centinaia di extracomunitari.
«Meno male che li abbiamo lasciati lì, altrimenti ora sarebbero in giro per l’Italia. Nego che ci sia un’emergenza, come ha sottolineato il prefetto Mario Morcone c’è qualcuno che soffia sul fuoco. È un atteggiamento grave e irresponsabile».

Si riferisce al sindaco Bernardino De Rubeis?
«Gli avevo spiegato la nostra scelta, chiarendo che nessuno vuole fare carceri a cielo aperto o imitare Guantanamo. Queste sono fesserie che servono solo a eccitare gli animi e lui lo sa visto che gli avevo dato precise garanzie. Dunque è in malafede. La polizia sta predisponendo un rapporto per l’autorità giudiziaria perché comportamenti che fomentano i clandestini sono penalmente rilevanti».

Nel centro di accoglienza ci sono circa 1.300 persone, come fa a dire che non c’è emergenza?
«Abbiamo deciso di aprire per decreto un Centro di identificazione ed espulsione proprio per fare fronte al record di sbarchi, ma siamo perfettamente in grado di gestire la situazione».

Però riconoscerà che la linea dura annunciata in campagna elettorale è fallita, visto che i clandestini continuano ad arrivare?
«Nessuno pensa che un fenomeno così complesso si possa risolvere in sei mesi. Io posso però assicurare che il 2009 sarà l’anno della svolta perché l’Ue sosterrà anche economicamente l’azione di contrasto. E perché l’accordo con la Libia è ormai in fase attuativa, dunque cominceremo i pattugliamenti congiunti».

Ne è sicuro?
«Mi fido dell’impegno ribadito dalle autorità di Tripoli una settimana fa. In attesa di cominciare voglio essere chiaro: chi pensa di entrare clandestinamente in Italia e circolare liberamente, si sbaglia. Chi arriva a Lampedusa rimarrà lì in attesa del rimpatrio».

Solo l’Egitto accetta il rientro dei propri connazionali.
«Martedì sarò in Tunisia e definirò i termini per ottenere rimpatri diretti anche lì».

Secondo il vicesegretario del Pd Dario Franceschini «a Lampedusa sono violati i diritti umani».
«Questa sinistra che va giù a sobillare gli animi degli stranieri e a stringere la mano al sindaco, è la stessa che lo definì razzista e xenofobo quando De Rubeis disse “non vogliamo gente di colore perché puzza”. È un atteggiamento di violenta strumentalizzazione quando invece sarebbe necessaria collaborazione per gestire il fenomeno».

Berlusconi ha annunciato l’impiego di altri 30.000 soldati. Lei è d’accordo?
«Il mio giudizio sul contingente impiegato adesso è molto positivo. Se esaudissimo tutte le richieste dei sindaci arriveremmo ben oltre 30.000. Ho convocato il Comitato nazionale proprio per valutare come rimodulare il dispositivo e quanti soldati utilizzare».

Le forze dell’ordine protestano.
«Io parlo con il capo della Polizia e con i comandanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Non mi risulta che siano contrari».

I sindacati contestano la mancanza di risorse e rivendicano il ruolo di poliziotti e carabinieri.
«Non abbiamo problema di fondi: ci sono quelli del ministero della Difesa e possiamo usare i soldi sequestrati alla mafia. Nessuno sarà penalizzato».

Il giovane che la notte di Capodanno ha violentato una ragazza, ha ottenuto gli arresti domiciliari. Che ne pensa?
«È una brutta notizia, nei casi che suscitano allarme la risposta delle istituzioni e dei magistrati deve essere di massimo rigore. Io l’avrei tenuto in carcere perché una scelta simile è forte e serve da deterrente. Ho già predisposto un sistema di sicurezza e sorveglianza nei confronti di questo signore per evitare che esca o scappi. Sono decisioni che mi permetto di contestare in quanto vanno nel segno opposto a quelli che sono i nostri obiettivi».

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Fiorenza Sarzanini
25 gennaio 2009

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fonte: http://www.corriere.it/politica/09_gennaio_25/maroni_lampedusa_sinistra_aizza_immigrati_denunciato_sindaco_83c616da-eab9-11dd-9c57-00144f02aabc.shtml

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Lampedusa: addio Silvio!

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Da 15 anni a questa parte i cittadini delle Pelagie hanno dato sempre un appoggio incondizionato al partito di Forza Italia prima, e al Popolo delle libertà dopo. Basta guardare le ultime 8 tornate elettorali per vedere che Forza Italia è stato sempre il primo partito (con circa il 45% dei voti) seguito da Alleanza nazionale.

E tu Silvio, hai permesso ieri al Ministro Maroni di trasformare Lampedusa in una colonia penale. Tutto il popolo è sceso in piazza per dire no a questa decisione. Benché a Lampedusa lo Stato è assente da anni e anni (non abbiamo una scuola, un ospedale, mezzi di trasporto idonei per viaggiare, paghiamo il carburante 35 centesimi in più al litro di quanto costa nel resto d’Italia), non siamo scesi in piazza per chiedere i nostri diritti, quelli che uno stato democratico dovrebbe garantirci.

Siamo scesi in piazza per dire NO ad un nuovo centro per immigrati. Perché non vogliamo che Lampedusa diventi Guantanamo. Perché vogliamo continuare a vivere di turismo.

E voi invece che avete fatto?
Infischiandovene delle proteste di un intero popolo, con la mano pesante dello Stato avete imposto la vostra decisione. E tu Silvio, in Consiglio dei ministri, non hai detto niente. E nemmeno gli altri politici siciliani, presenti in consiglio dei ministri, hanno mosso un dito per prendere le difese di questo popolo martoriato, che porta già i segni di aggressioni e sfregi perpetrati in piena regola dallo Stato.

Con quale faccia ritorneranno a Lampedusa i vari Alfano, Cimino, Miccichè? Coloro che si definiscono amici di Lampedusa. Sempre presenti in campagna elettorale per fare il pieno di voti!

Quante lotte fatte per te Silvio. Dai tempi del liceo, sempre pronto a tenere alta la bandiera di Forza Italia. Quante lotte fatte per raccogliere firme. Quante giornate passate ai gazebo per convincere la gente a votarci. Quante notte insonni per fare la campagna elettorale. Ed io che credevo tanto in quell’inno “Forza Italia che siamo in tanti a crederci, per essere liberi, per fare e per crescere…”

Caro Silvio, alla prima occasione ci hai traditi. Ma il popolo di Lampedusa non lo dimenticherà. Fammi ricredere Silvio, altrimenti dovrò rispedirti la tessera a casa.

Filippo Mannino

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24 gennaio 2009

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fonte: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=43621&sez=HOME_MAIL

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Sos Isole Pelagie, siamo italiani o no?

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Piove da qualche giorno a Lampedusa e questa pioggia sembra rispecchiare pienamente lo stato d’animo dell’isola e dei suoi abitanti. Lampedusa è su tutti i giornali. L’immigrazione clandestina è al centro di ogni discussione si crei attorno a quest’isola. I giornalisti ne parlano in continuazione. Le informazioni spesso false l’hanno fatta diventare l’isola degli orrori. E’ difficile parlare di un argomento così delicato. Si rischia, di passare per razzisti, come già i giornalisti e le televisioni hanno lasciato credere. Non lo siamo.

I lampedusani sono stati i primi a soccorrere gli immigrati quanto 20 anni fa sono cominciati i veri primi sbarchi. Ho passato un Natale bellissimo, quando i miei, in quel periodo invitarono a casa nostra un gruppo di immigrati a passare con noi la notte di Natale. Oggi le cose sono cambiate. L’afflusso degli immigrati clandestini si è, anno dopo anno, incrementato e non è mia competenza stabilire se, a Lampedusa, va fatto, o no un altro Centro di accoglienza, o un carcere come qualcuno lo sta già chiamando né se sia l’espulsione immediata la soluzione. Ma credo che adesso il problema Immigrazione debba essere preso seriamente e non solo dal governo Italiano. Credo che Lampedusa adesso abbia bisogno di aiuto. Credo che abbia bisogno di farsi sentire.

Ogni giorno sui giornali, alla tele,
alla radio sentiamo parlare di Lampedusa. Di clandestini, di barconi affondati, di morti in mare, di CPT affollati. Come si sente il popolo di Lampedusa in tutto questo? Impotente. Angosciato. Abbandonato. E a rendere tutto questo ancora più triste ci si mettono i giornali diffondendo notizie false purché interessanti: si chiama sbarco sulla spiaggia un soccorso effettuato dalla polizia a 60 miglia dalle nostre coste? Notizie false che hanno messo in ginocchio il turismo, unica fonte economica. La gente è stanca e l’idea che la nostra isola diventi una grande caserma a cielo aperto ci toglie la prospettiva di un futuro sereno.

Da una settimana i nostri bambini non vanno a scuola. La pioggia ha danneggiato i tetti degli edifici scolastici e non ci sono altri locali disponibili. Ogni mattina per tutta la settimana, in centinaia, ci siamo recati in piazza, genitori e bambini, chiedendo, attraverso i giornali l’attenzione del governo ma nessuno ha dedicato una sola riga a questo nostro problema. I giornali, stavolta, non hanno voluto ascoltarci.

Nessuno sa che a Lampedusa la sanità
è una cosa solo per chi se lo può permettere. Se ti fratturi un braccio e parti con l’aereo di soccorso per fartelo ingessare negli ospedali di Palermo, se vuoi tornare a casa non appena finita l’urgenza, devi pagarti il biglietto dell’aereo. Nessuno sa che a Lampedusa benzina e gasolio (anche quello delle barche dei pescatori) sono i più cari d’Italia. Nessuno sa che a Lampedusa non c’è una biblioteca e le strutture scolastiche sono fatiscenti. Nessuno sa che la gente di Lampedusa non riesce più ad affrontare le difficoltà in cui si trova. In questi gioni è nata un’associazione SOS isole pelagie, www.sosisolepelagie.net, che ha uno slogan che è già un programma: Siamo italiani o no? Spero che possiate accogliere la nostra disperata richiesta d’aiuto perchè possiamo credere ancora nel diritto d’informazione e d’espressione e perchè la liberta di manifestazione del pensiero non resti nelle mani e nella voce di pochi

Giovanna

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23 gennaio 2009

fonte: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=43494&sez=HOME_MAIL


Un sopravissuto del commando in Bolivia: «Che Guevara tradito da Castro su ordine dell’Unione Sovietica»

Accusa l’ex guerrigliero. Condannato a morte, dal 1996 vive a Parigi. E’ uno dei tre sopravissuti del commando

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PARIGI — È l’ultimo che ha visto il Che nella giungla della Bolivia. È l’ultimo testimone di un’esecuzione ancora oggi oscura. Dariel Alarcón Ramírez, detto «Benigno», ex guerrigliero della rivoluzione cubana, vive dal 1996 a Parigi, inseguito da una condanna a morte e dall’accusa di aver tradito il regime per il quale ha combattuto con onore. Che Guevara fu il capo seguito fino alla fine, un fratello che gli insegnò «a leggere e scrivere» e a «rispettare i nemici e i prigionieri». Ha ancora gli occhi umidi, Benigno, quando racconta la «trappola mortale» in cui cadde il mito rivoluzionario di intere generazioni.

E sfoga rabbia e delusione per una «macchinazione di cui furono responsabili Fidel Castro e l’Unione Sovietica ». «Volevamo esportare la rivoluzione. Fummo abbandonati nella giungla. Il Che andò incontro alla morte, sapendo di essere stato tradito. Il 9 ottobre 1967, eravamo a pochi metri dalla scuola dove l’esercito boliviano lo teneva prigioniero. Il nostro commando si era disperso. Altrimenti avremmo tentato di liberarlo a costo di morire». Nel 1956, Benigno era un «campesigno » di 17 anni, quando i soldati del dittatore Batista incendiarono la fazenda sulle montagne della Sierra Maestra, e uccisero sua moglie Noemi, quindicenne, incinta di otto mesi. Entrò nel gruppo di Cienfuegos, uno dei capi rivoluzionari. «Mi arruolai nella rivoluzione per vendicare i miei cari. Ero il più bravo con la mitragliatrice. Ho ucciso molti soldati. Non sapevo che cosa fosse il socialismo. Il Che mi insegnò tutto. Non era facile conquistare la sua fiducia. Ma era un uomo buono e onesto. Era l’unico, fra i leader, a pagare di tasca propria l’auto di servizio», racconta al Corriere.

Oggi Benigno ha quasi settant’anni. Dopo la rivoluzione, divenne capo della polizia e responsabile della sicurezza, poi dirigente dei campi di addestramento dei guerriglieri da inviare nel mondo a sostegno dei movimenti rivoluzionari. È in quegli anni che intuisce che il socialismo cubano non corrispondente agli ideali. «Cienfuegos e Guevara facevano ombra a Fidel. C’erano contrasti nel gruppo dirigente. Poi Cienfuegos morì, in un misterioso incidente. Ero con Guevara in Congo, quando Fidel rese pubblica una lettera in cui Guevara dichiarava di rinunciare ad ogni incarico e alla nazionalità cubana. Il Che prese a calci la radio e urlò: ecco dove porta il culto della personalità! Il comandante aveva scritto la lettera dopo il discorso di Algeri in cui aveva messo in guardia i Paesi africani dall’imperialismo sovietico. Credo che quel discorso fu la sua condanna a morte. Quando tornammo all’Avana, Fidel gli propose di andare a combattere in Sud America». «Il líder máximo —ricorda Benigno—partecipò ai preparativi. Veniva al campo d’addestramento, ci garantiva l’appoggio del partito comunista boliviano, la copertura degli agenti segreti, la formazione di nuove colonne. Avremmo dovuto sbarcare nel nord del paese, in territorio favorevole alla guerriglia. Imparammo anche il dialetto locale. Quando Fidel era presente, il Che se ne stava in disparte. Capimmo poi il perché».

Nell’ottobre 1967 scatta l’operazione. Il commando di rivoluzionari cubani penetrò in una foresta infestata da insetti e agenti segreti, isolata, dove si parlava un altro dialetto. «Scoprimmo che il partito comunista boliviano non ci sosteneva, probabilmente su istruzioni di Mosca. Il Che non era più lui. Sembrava disperato e depresso. Ci lasciò liberi di continuare o rinunciare. Rimanemmo, ma alla fine eravamo ridotti a diciassette, circondati da tremila soldati. Ci dividemmo in tre gruppi e una mattina cominciò la battaglia finale. Il Che fu fatto prigioniero. Lo ammazzarono il giorno dopo». Tre guerriglieri riuscirono a raggiungere il confine. Benigno, Urbano e Pombo si salvarono con l’aiuto di Salvador Allende, allora presidente del Senato. Nel viaggio di ritorno, passarono da Tahiti e dalla Grecia, fino a Parigi. Furono ricevuti all’Eliseo da De Gaulle e infine accolti a Cuba da Fidel come eroi. In patria, l’ultimo compagno del Che continuò a far carriera.

Urbano fu poi arrestato e internato. Pombo divenne generale. «Io cominciai a vivere una doppia vita». Chiediamo: per quali ragioni Castro e i sovietici avrebbero avuto interesse alla scomparsa del Che dalla scena politica? «I sovietici consideravano Guevara una personalità pericolosa per le loro strategie imperialistiche. Fidel si piegò alla ragion di Stato, visto che la sopravvivenza di Cuba dipendeva dall’aiuto di Mosca. Ed eliminò un compagno di lotta ingombrante. Il Che era il leader più amato dal popolo. La nostra rivoluzione è durata pochi anni, oggi è una dittatura come quella di Batista. I cubani hanno conquistato la cultura, non la libertà, e sono ancora poveri. E la causa non è soltanto l’embargo americano. È Fidel ad aver tradito la rivoluzione. Difficile prevedere il futuro, ma non vorrei che il potere finisse agli esuli di Miami che sono corrotti». Benigno decide di fuggire. Approfitta di un permesso dell’unione degli scrittori cubani. Si fa raggiungere dalla moglie a Parigi. «Se fossi fuggito in America, dove vive un mio figlio, avrei tradito il Che. Mi considero ancora un rivoluzionario. Il rivoluzionario è chi riesce a indignarsi per le ingiustizie». La sua vita diventerà un film, diverso da quello sul Che di Steven Soderbergh prossimamente sugli schermi italiani. «Il film è bello, ma non trasmette lo spirito del comandante e soprattutto non risponde alle domande: perché fallì in Congo e in Bolivia? Chi lo ha tradito e perché?».

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Massimo Nava
(ha collaborato Alessandro Grandesso)

25 gennaio 2009

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fonte: http://www.corriere.it/esteri/09_gennaio_25/massimo_nava_che_guevara_tradito_da_castro_b2e6d440-eac8-11dd-9c57-00144f02aabc.shtml