Archivio | luglio 23, 2010

Terzo Mondo: Così sono riemersi 40 milioni di bambini-fantasma

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Terzo Mondo: così sono riemersi 40 milioni bambini-fantasma

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di Roberto Carnero

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«Quaranta milioni di bambini che semplicemente non esistono»: è lo slogan di una prodigiosa campagna per la registrazione delle nascite lanciata dall’organizzazione internazionale “Plan”. La mobilitazione umanitaria per censire le nascite dei bambini nei Paesi in via di sviluppo ha trovato 40 milioni di bambini che ufficialmente non esistevano: nell’arco di 4 anni e attraverso 3 continenti e 32 Paesi, Plan ha aiutato a proteggere centinaia di migliaia di bambini destinati a cadere vittime del traffico di minori, bambine appena dodicenni costrette a sposarsi e ha evitato che un numero altissimo di figlie femmine fossero abortite perché “del sesso sbagliato”.

Tutto questo è stato documentato nei suoi servizi da Nina Lakhani, giornalista inglese di “The Independent on Sunday”, alla quale va il “Premio Dario D’Angelo per la stampa europea”, nell’ambito del “Premio giornalistico Marco Luchetta 2010” (la cerimonia della premiazione verrà trasmessa sabato sera su Raiuno) .

“Obiettivo del progetto”,
spiega la giornalista che si è fatta promotrice e sponsor di questa importante campagna, “è dare a milioni di bimbi dei Paesi in via di sviluppo qualcosa che nel resto del mondo è del tutto scontato, cioè la registrazione della nascita e, attraverso quest’atto formale, garantire a tutti un’esistenza ufficiale. Prima della campagna promossa da Plan, organizzazione internazionale di assistenza all’infanzia, a diverse latitudini del mondo la registrazione delle nascite era un evento sporadico. In Cambogia, per esempio, fino al 2005 il 96% della popolazione non era registrata”.

Senza l’atto formale di nascita,
infatti, non è possibile avere un certificato, disporre di una carta di identità, di un passaporto, di un documento che attesti l’età o chi siano i genitori. Di conseguenza, milioni di minori rischiano di essere costretti a diventare bambini soldato o avviati sulla strada della prostituzione, di non poter ritornare alle proprie famiglie se saranno liberati, di avere un accesso limitato all’assistenza sanitaria e all’istruzione e di essere privati dei propri diritti.

Spiega Nina Lakhani: “Alcuni anni fa Plan realizzò che questo problema era diventato causa di immensa sofferenza e povertà, e decise così di lanciare il progetto ‘Count every Child’ (Conta ogni bambino). Un progetto ambizioso, che si prefiggeva di registrare la nascita di ciascun bambino al mondo. Il rapporto pubblicato qualche mese fa da Plan è la cronaca davvero eccezionale di come sia stato possibile far registrare 40 milioni di cittadini in tutto il mondo. In alcuni Paesi la mobilitazione ha stravolto il numero delle registrazioni e ha fatto pressione sui governi per abolire i costi delle procedure. Il risultato è che altri 153 milioni di persone potranno finalmente registrarsi gratuitamente”.

La posta in gioco è di proporzioni colossali. Secondo l’Unicef, sono 51 milioni i bimbi che ogni anno vengono al mondo senza registrazione ufficiale. In alcune comunità rurali dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, oltre il 90% dei bambini non sono registrati alla nascita. In un convegno che si è tenuto a Londra a fine 2009, Desmond Tutu e il giovane attore Anil Kapoor, protagonista del celebre film The Millionaire, si sono appellati ai governi e alle organizzazioni non-governative affinché seguissero l’esempio del progetto avviato da Plan, con risultati senza precedenti.

Ma perché è così basso
il tasso di registrazione delle nascite nel mondo? “Scarsa consapevolezza da parte dei genitori e della comunità, paura di essere identificabili e quindi perseguiti, povertà, difficoltà nei trasporti pubblici e analfabetismo. Cause che, insieme, concorrono tuttora a limitare la registrazione formale dei figli da parte dei genitori. Senza contare i problemi che derivano da sistemi di registrazione inadeguati e dall’incompetenza del personale. Si stima che siano almeno 300 mila i bambini-soldato impegnati nelle guerre di tutto il mondo. Se da un lato un certificato di nascita non può impedire che un bimbo venga rapito e costretto a combattere in armi, dall’altro esso è uno strumento essenziale per garantire il ricongiungimento dei bambini liberati alle loro famiglie. In Uganda, dove il sistema di registrazione delle nascite è arrivato al collasso, i bambini salvati dalla Lord’s Resistance Army devono spesso attendere mesi perché i funzionari rintraccino le famiglie e i villaggi di provenienza. Ma i rapitori potranno essere condannati solo se verranno prodotte le prove che il bambino soldato era minorenne, quando è stato reclutato. Nelle Filippine, un avvocato ha sostenuto che almeno il 50% delle cause per riduzione in prostituzione e lavoro minorile decadono proprio perché alla parte lesa mancano i documenti che ne attestino l’età o addirittura l’identità”.

Grazie all’interesse dei media per la campagna di censimento delle nascite, e grazie alla conferenza che si è svolta dopo la pubblicazione degli articoli di Nina Lakhani, la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite ha ufficialmente riconosciuto il problema. Molti Paesi stanno sperimentando proprie risposte al problema: il governo egiziano, per esempio, ha di recente convocato una riunione con la Banca Mondiale per affrontare questi temi. Meritato, dunque, il riconoscimento a questa brava giornalista che ha contribuito ad accendere i riflettori su un problema vasto e imponente.

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23 luglio 2010

fonte:  http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=101597

Tutto quello che bisogna sapere per evitare le code e viaggiare in sicurezza. Mappa dei cantieri

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Tutto quello che bisogna sapere per evitare le code e viaggiare in sicurezza. Mappa dei cantieri

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di Jacopo Giliberto

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Chi si metterà per strada il 31 luglio e il 7 d’agosto si munisca di generi di conforto e di una pazienza inossidabile da Giobbe. La società Autostrade per l’Italia ha presentato ieri le iniziative per rendere più scorrevoli i viaggi delle vacanze e ha messo il bollino nero su quelle due giornate che si annunciano le più terrificanti dell’anno per il traffico. Non dimenticatevi i controlli sull’auto prima di partire per evitare sorprese. E occhio agli autovelox e ai tutor, magari aiutati dai navigatori più evoluti.

Molti lo chiamano esodo, il termine biblico della migrazione del popolo d’Israele, esodo raccontato da tanti film italiani, da Sordi a Verdone, fino ad Aldo, Giovanni e Giacomo. C’è chi preferisce chiamarlo transumanza, termine dispregiativo per chi viaggia in modo non consapevole. Nei fatti, i viaggi delle ferie muovono milioni di persone tra gli italiani e gli stranieri in visita. Così anche quest’anno Autostrade per l’Italia – insieme con la polizia stradale – ha programmato le iniziative delle “partenze consapevoli”. Un esempio per tutti: in genere sulle autostrade sono aperti ogni giorno 140 cantieri (vai sulla mappa); verranno chiusi e nel periodo di traffico torrido ne rimarranno aperti 14 in tutto.

I periodi più difficili per viaggiare saranno venerdì 30 e sabato 31 luglio (rosso fisso, e bollino nero la mattina di sabato 31) e tra giovedì 6 e domenica 8 agosto (bollino nero la mattina di sabato 7) nella direzione sud e verso le spiagge. Per il ritorno, l’intasamento sarà tra venerdì 20 e lunedì 23 agosto e tra giovedì 26 e lunedì 30 agosto (una grandinata di bollini rossi a tutte le ore) nella direzione nord e verso le città. I tratti più difficili saranno quelli legati alle vacanze: l’A4 da Trieste a Torino, l’Autostrada del sole, l’Adriatica, l’autostrada ligure, le frontiere principali.

Le sale operative vengono rafforzate con turni speciali; le aree di servizio sono rese più accoglienti (con spazi gioco per i piccoli, allestiti con la collaborazione del Moige, un’associazione di genitori); le informazioni al telefono (il numero verde 840042121) hanno un centralino con 200 linee per rispondere a 50mila domande al giorno. «Abbiamo cercato di fare al meglio la nostra parte, però – ammonisce Giovanni Castellucci, amministratore delegato di Autostrade per l’Italia – per assicurare un viaggio sicuro è necessario che gli automobilisti facciano la loro parte e si impegnino a rispettare il codice della strada e le regole contenute nel nostro decalogo del viaggiatore». Regole semplici dettate soprattutto dal buonsenso, oltre che dalla legge: allacciare le cinture anche nei sedili posteriori e viaggiare riposati, fermarsi al primo cenno di stanchezza, programmare il viaggio con intelligenza, avere in ordine l’automobile («Il 35% degli automobilisti viaggia con le gomme non in sicurezza», ricorda preoccupato il direttore generale della Pirelli Italia, Alessandro D’Este), e soprattutto: informarsi.

Non a caso uno dei punti forti del programma estivo delle autostrade riguarda l’informazione. Ai tabelloni luminosi, che sono più di mille, al centralino e all’Isoradio della Rai (103,3) si affianca anche la radio Rtl 102,5. In questo modo i guidatori sono più attenti: «Negli ultimi 4 anni, tra luglio e agosto, abbiamo registrato una diminuzione della mortalità di oltre il 50% – ricorda Castellucci – e una riduzione del 34% del tempo di percorrenza».
Oltre alla rete della società Autostrade per l’Italia lunga 3.400 chilometri ci sono anche le altre autostrade e le strade statali. Per questo la Polizia stradale ha disposto ogni giorno 1.450 pattuglie in auto e altre cento in moto, 281 postazioni tutor e 95 velox fissi e mobili, 50 provida per il controllo a distanza della velocità, 530 etilometri.

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23 luglio 2010

fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-22/traffico-rischio-vacanze-luglio-211702.shtml?uuid=AYCd3KAC

Tempeste e trombe d’aria sul Nord Italia. Un morto nel Veronese

Tempeste e trombe d’aria sul Nord Italia
Un morto nel Veronese

Devastazioni e black-out in Veneto, Friuli e Lombardia. Capannoni distrutti e case danneggiate. Gente evacuata

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ROMA (23 luglio) – Un’ondata di maltempo si è abbattuta a partire dal pomeriggio sul Nord Italia, colpendo in particolare Veneto, Friuli e Lombardia, con diverse trombe d’aria che hanno danneggiato le abitazioni e causato una vittima.

Una vittima nel Veronese, a Zimella: alcuni operai, impauriti dal maltempo, avrebbero cercato rifugio sotto un capannone, che però è crollato: uno di loro sarebbe morto e altri due sarebbero rimasti feriti. Una tromba d’aria ha colpito un versante dell’Alto Vicentino, compreso tra Schio, Thiene e Carré. Nel comprensorio industriale tra Schio e Thiene a fare le spese della furia degli elementi alcune case e capannoni scoperchiati. A Schio il traffico ferroviario è rimasto bloccato per oltre un’ora, nella zona industriale, a causa di un black-out elettrico provocato dalla caduta di un traliccio dell’Enel. Nel Basso Vicentino dove si registrano danni soprattutto nei comuni di Lonigo, Orgiano, Sossano e Alonte, i cui residenti sono rimasti senza corrente elettrica per molte ore a causa di un black-out.

Nel Padovano un nubifragio, con grandine e forti raffiche di vento, quasi un tornado, ha colpito nel pomeriggio il capoluogo e molti Comuni della fascia a sud. Particolarmente colpiti alcuni quartieri tra i comuni di Albignasego di Montegrotto, Legnaro e Casalserugo. Per più di un’ora alcuni quartieri del centro di Padova sono rimasti senza energia elettrica.

Nel Veneziano una tromba d’aria si è abbattuta su Pellestrina, colpendo soprattutto la zona di Portosecco. La Protezione civile, ad una prima stima, ritiene rilevanti i danni: alberi abbattuti, barche danneggiate, tetti colpiti dalla furia del vento. Ingenti i danni al palazzetto dello sport. Decine le abitazioni con danni più o meno ingenti ai tetti e, in genere, alle coperture e altrettante situazioni con camini e cornicioni pericolanti.

Violente tempeste di vento si abbattute in serata in una vasta zona del Friuli, dalle colline alla bassa pianura, al confine con il Veneto. Il vento ha scoperchiato decine di capannoni industriali e ha causato la caduta di rami e tronchi di alberi in più di una ventina di comuni, dove si segnalano disagi alla circolazione. Decine di squadre dei Vigili del fuoco e circa 200 volontari della Protezione Civile Regionale sono al lavoro per fronteggiare oltre 200 segnalazioni di danni. I comuni più colpiti sono Pavia di Udine, Santa Maria La Longa, Gonars, Corno di Rosazzo, San Giovanni al Natisone, Chiopris, Manzano, Pasian di Prato, Palmanova, Muzzana, Castions di Strada, Azzano decimo, Codroipo, Polcenigo, Rivignano, Forgaria e Lestizza.

Le tempeste in Friuli «hanno causato danni significativi» a strade, capannoni e ad alcune abitazioni, dice l’assessore regionale alla Protezione Civile, Riccardo Riccardi. L’area più colpita appare quella fra Pavia di Udine e Santa Maria La Longa (Udine), dove è stata chiusa al traffico la strada regionale 352 Udine-Palmanova a causa degli alberi caduti. Segnalazione di danni ad abitazioni e capannoni artigianali e industriali, scoperchiati dalle violente raffiche di vento, arrivano da molti comuni, sia della bassa pianura, sia dell’area collinare.

I vigili del fuoco sono impegnati in provincia di Brescia per i danni provocati da alcune trombe d’aria. Nel pomeriggio sono stati danneggiati tetti nella zona di Castegnato; in serata una tromba d’aria ha colpito la periferia settentrionale di Brescia nel quartiere Casazza: si è resa necessaria l’evacuazione da un immobile di circa 30 persone. Allagamenti si sono poi registrati in diverse zone della provincia dal Garda all’Ovest bresciano.

Una tromba d’aria si è abbattuta verso le 15.30 sull’alto Mantovano e su alcuni Comuni attorno a Mantova. Non si segnalano feriti, ma i danni sono ingenti. In particolare a Volta Mantovana, Roverbella e alcune frazioni del comune di Marmirolo alcune case sono state scoperchiate dalla furia del vento. Decine gli interventi dei vigili del fuoco anche per alberi sradicati e i pali dell’illuminazione divelti. Allagamenti si registrano in alcune zone dell’alto mantovano, colpito anche da una violenta grandinata.

Una tromba d’aria ha causato gravi danni in provincia di Cremona. All’aeroporto del Migliaro, alle porte della città, un monomotore si è ribaltato contro un hangar. Altri sette aerei sono stati danneggiati in varie parti. I tetti di due hangar sono stati scoperchiati. Il maltempo ha causato gravi danni anche in campagna, attorno a Cremona, tra i comuni di Casalbuttano, Castelverde, Sesto, Paderno e Annicco. Il bilancio è pesante: colture distrutte e danni per centinaia di migliaia di euro, raccolti di mais a rischio, tetti scoperchiati, piante cadute, case allagate e seri disagi alla circolazione stradale e ferroviaria. Il paese più colpito è stato Casalbuttano. Una pianta caduta sui binari ha costretto un treno a fermarsi in aperta campagna, a due passi dal passaggio a livello e un altro ad aspettare in stazione provocando inevitabili ritardi sulla linea Cremona-Treviglio.

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=112052&sez=HOME_INITALIA

PEDOFILIA – Padova, violentato dall’amico di famiglia. Gli diceva: «La mamma e il papà sono d’accordo»

Padova, violentato dall’amico di famiglia:
«La mamma e il papà sono d’accordo»

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Operaio di 46 anni accusato di abusi sessuali su un minore: regali e bugie sul consenso dei genitori per farlo tacere

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PADOVA (23 luglio) – Era un amico di famiglia, una persona “sicura” che frequentava la casa di una coppia del Padovano. Coppia con un figlio minorenne del quale quell'”amico” abusava sessualmente.

Sono queste le accuse nei confronti di un operaio di 46 anni. L’uomo ricompensava il ragazzino con regali e lo rassicurava circa il consenso dei genitori, gli diceva insomma che il padre e la madre erano d”accordo. Ma sono stati proprio questi ultimi, notando strani comportamenti del figlio, a rivolgersi alla polizia confidando i loro timori.

Gli agenti hanno raccolto una serie di elementi a carico dell’indagato riferendoli poi al pm euganeo Maria D’Arpa. Il magistrato, sulla base di un dettagliato rapporto, ha chiesto e ottenuto dal gip Mariella Fino un provvedimento restrittivo nei confronti dell’uomo che è stato rintracciato e arrestato in provincia di Venezia.

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=111920&sez=HOME_INITALIA

LUCCA – Uccide due ex datori di lavoro e si suicida: Era stato licenziato sei mesi fa

Uccide due ex datori di lavoro e si suicida
Era stato licenziato sei mesi fa

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Uccide due ex datori di lavoro e si suicida Era stato licenziato sei mesi fa

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MASSAROSA (Lucca) – Sei mesi fa era stato licenziato dall’azienda per cui lavorava come rappresentante. Oggi pomeriggio è tornato e ha ucciso l’amministratore delegato e il responsabile delle vendite all’estero della ditta, poi si è tolto la vita. L’assassino si chiamava Paolo Iacconi e aveva 51 anni. Le vittime sono Luca Ceragioli, 48 anni, e Jan Frederik Hillerm, 33 anni. Quest’ultimo, tedesco residente ad Altopascio, era da venti giorni padre di una bambina.

L’uomo si è presentato nella sua ex ditta, la Gifas-Electric di Massarosa (Lucca), per un appuntamento con la direzione. Oggetto dell’incontro, secondo indiscrezioni, la richiesta di discutere di un’eventuale collaborazione con i suoi ex datori di lavoro, anche se potrebbe essersi trattato solo di un pretesto. In base a una prima ricostruzione, dopo aver preso un caffè con le vittime nell’ufficio dell’amministrazione, Iacconi ha esploso quattro o cinque colpi di pistola – probabilmente una calibro 7.65 tirata fuori dalla borsa – uccidendole, e poi si è barricato nella stanza dando fuoco a una parte dell’ufficio con la benzina che aveva portato con sé in una bottiglietta. All’arrivo della prima volante e della prima pattuglia di carabinieri l’uomo ha rivolto la pistola contro di sé e si è sparato alla testa.

“Quando è entrato sembrava sereno. Poi, dopo un po’, ho sentito gli spari”. Così un impiegato della ditta racconta quanto avvenuto. L’uomo ha spiegato che oggi pomeriggio Iacconi aveva un appuntamento in azienda: “Ci siamo salutati, pareva tranquillo. Poi è entrato negli uffici della direzione, mentre io sono rimasto nella mia stanza. Niente faceva pensare cosa sarebbe successo. Dopo un po’ ho sentito gli spari. Ho avuto paura, non ho capito cosa stesse succedendo: sono corso fuori a dare l’allarme”. Eventuali discussioni per motivi di lavoro, sempre secondo indiscrezioni, Iacconi li avrebbe avuti anche con un terzo dirigente dell’azienda che, però, oggi pomeriggio non era nella sede della Gifas.

Iacconi viveva a Sacile, in provincia di Pordenone. Fino a circa un anno fa era rappresentante dell’azienda in Trentino Alto Adige. Abitava da solo, nella stessa palazzina in cui vivevano i genitori e la sorella, che in serata sono stati ascoltati dalle forze dell’ordine per ricostruire i suoi ultimi movimenti prima della partenza per Massarosa. Pare che in passato avesse sofferto di problemi di salute e in quei frangenti proprio Ceragioli era andato a trovarlo per portargli un po’ di conforto. L’omicida-suicida non avrebbe lasciato biglietti.

I dipendenti della Gifas, in particolare i 4 o 5 del settore commerciale che si trovavano negli uffici attigui a quello di Ceragioli, sono fuggiti quando hanno udito i primi colpi di pistola. Lo conferma Massimo Bianchi, uno di loro, che ha cercato di dare l’allarme e di far uscire tutti gli operai.

“E’ la più grossa tragedia che abbia mai colpito il nostro Comune – ha detto il sindaco di Massarosa Franco Mugnai – Siamo sotto shock. Mi hanno subito informato di quello che era successo alla Gifas, un’azienda che conosco, una realtà importante per il nostro territorio. Costruisce quadri elettrici per le navi. E’ un’azienda giovane. La crisi certo si fa sentire ma nel nostro territorio a parte la cantieristica navale il settore più in sofferenza è quello legato agli stagionali del turismo”.

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23 luglio 2010

fonte:  http://firenze.repubblica.it/cronaca/2010/07/23/news/licenziato_uccide-5781894/?rss

INTERCETTAZIONI – Udc: “Ddl migliorato, ma non basta”. E parte la protesta sul bavaglio ai blog

INTERCETTAZIONI

Udc: “Ddl migliorato, ma non basta”
E parte la protesta sul bavaglio ai blog

Di Pietro: “Daremo battaglia”. Finocchiaro: “Modifiche come specchietti per allodole. Non firmeremo”. Dal web un appello a Fini e Bongiorno

 Udc: "Ddl migliorato, ma non basta"   E parte la protesta sul bavaglio ai blog

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ROMA – Il ddl sulle intercettazioni continua a far discutere e se da una parte l’Udc si dichiara “parzialmente soddisfatta” per le ultime modifiche, dall’altra il disegno di legge così com’è continua a destare preoccupazioni tra le forze politiche di opposizione e a suscitare reazioni anche molto dure. “Grazie al lavoro costruttivo delle opposizioni – ha detto il deputato Udc Roberto Rao – il testo sulle intercettazioni è stato stravolto e visibilmente migliorato: segno che, come ha sottolineato anche il presidente Napolitano, il confronto e l’approfondimento parlamentare aiutano a migliorare i provvedimenti e non sono né uno spreco di tempo né un segnale di cattivo funzionamento delle istituzioni”. “Gli emendamenti dell’Udc, in particolare, sono riusciti ad allentare il ‘bavaglio’, garantendo – ha concluso il deputato – maggiore libertà di stampa, e ad eliminare i privilegi per i parlamentari, che ora saranno intercettabili al pari degli altri cittadini”.

Tutto questo, però, all’Udc non basta: il partito di Casini chiede un rinvio a settembre dell’esame del provvedimento da parte dell’aula, “mese nel quale siamo pronti a dare battaglia alla camera – ha concluso Rao – per arrivare alla migliore legge possibile. Una legge che trovi il punto d’equilibrio tra libertà d’informazione, tutela della privacy ed efficacia di uno strumento fondamentale per le indagini dei magistrati come le intercettazioni”.

Ancora più radicale la posizione del Pd: “Così com’è, il ddl non lo voteremo mai”, ha dichiarato il capogruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro, secondo la quale le modifiche apportate altro non sono che uno specchietto per le allodole: “Berlusconi – ha detto – ha ceduto sul punto che per lui è meno costoso, perchè la parte a cui tiene di più è come limitare l’azione investigativa dei magistrati”. Il Pd chiede anche che venga corretta “l’impropria e inopportuna equiparazione dei blog alla carta stampata”, come ha precisato il deputato Pd e capogruppo in commissione Telecomunicazioni, Michele Meta. Il principale partito di opposizione invita governo e maggioranza a correggere quella che “rischia di determinare un freno insopportabile alla libertà di espressione e alla creatività di migliaia di blogger. Vista l’immediata e gratuita fruibilità di internet, i blog fanno del web una ‘piazza virtuale’ aperta, di confronto e arricchimento collettivo, sfidando spesso i grandi media pieni di risorse, sulla qualità e obiettività dell’informazione”.

Sulla stessa linea il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro, secondo cui ”la Rete è uno degli ultimi rifugi delle voci libere e della libera informazione. Consapevoli dell’importanza rappresentata dal web continueremo la nostra battaglia contro il ddl bavaglio e, in particolare, contro l’obbligo per i blogger a pubblicare la rettifica entro 48 ore. E’ una battaglia in difesa della democrazia e della giustizia che porteremo avanti senza se e senza ma”.

Anche il mondo del web si mobilita e manda un appello al presidente della Camera, Gianfranco Fini, e a quello della commissione Giustizia di Montecitorio, Giulia Bongiorno, perché venga eliminato dal ddl l’articolo che obbliga i blog alla rettifica, equiparando la loro situazione a quella dei giornalisti della carta stampata. Tra i firmatari dell’appello Guido Scorza, Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione, Vittorio Zambardino (Scene Digitali), Alessandro Gilioli (Piovono Rane), Filippo Rossi (Direttore Ffwebmagazine e Caffeina magazine), Arianna Ciccone (Festival Internazionale del Giornalismo e Valigia Blu), Stefano Corradino (Articolo 21). L’appello ricorda che l’altro ieri la presidente Bongiorno, all’inizio del voto sul ddl intercettazioni, ha dichiarato  inammissibili gli emendamenti presentati da Roberto Cassinelli (PDL) e da Roberto Zaccaria (PD) al comma 29 dell’art. 1 del ddl intercettazioni, chiedendone l’abrogazione.

“Esigere che un blogger proceda alla rettifica entro 48 ore dalla richiesta – spiega il documento – esattamente come se fosse un giornalista, sotto pena di una sanzione fino a 12.500 euro, significa dissuaderlo dall’occuparsi di temi suscettibili di urtare la sensibilità dei poteri economici e politici”. I firmatari dell’appello hanno chiesto al presidente Fini che in Aula possano essere discussi gli emendamenti dichiarati inammissibili in commissione. “L’accesso alla Rete, in centinaia di Paesi al mondo – conclude l’appello – si avvia a divenire un diritto fondamentale dell’uomo, non possiamo lasciare che, proprio nel nostro Paese, i cittadini siano costretti a rinunciarvi”.

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23 luglio 2010

fonte:  http://www.repubblica.it/politica/2010/07/23/news/udc_ddl_migliore_ma_non_basta_e_il_pd_annuncia_battaglia-5782589/?rss

Università, la chiamano riforma, ma sono solo tagli. Atenei in rivolta

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Università, la chiamano riforma, ma sono solo tagli. Atenei in rivolta

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di Jolanda Bufalini

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Paese reale paese legale, nel paese reale 26.000 ricercatori coprono, assolvendo un compito che non compete loro, il 30% degli insegnamenti universitari. In quello legale si discute una riforma del ministro Gelmini, ieri in Aula al Senato, che afferma alcuni principi condivisi e li nega subito dopo: autonomia e responsabilità , diritto allo studio, una percentuale di almeno il 7 per cento dei fondi assegnati sulla base di un principio valutativo naufragano sotto i colpi d’ascia di Tremonti. Per far partire una riforma ci vorrebbe una dote, invece la manovra prevede il taglio di un miliardo e 300 milioni per il 2011. Il risultato è che la fascia più debole ma anche più essenziale al funzionamento degli atenei è in rivolta, soprattutto nelle sedi più qualificate, da Bologna a Firenze, a Pisa, a Modena-Reggio Emilia. E l’inizio del prossimo anno accademico a rischio. Una corsa contro il tempo: il ministro vorrebbe il voto in Senato prima della chiusura estiva, per essere pronta al passaggio alla Camera in autunno.

Doppia penalizzazione
Per i ricercatori c’è il danno e la beffa. non si potrà fare i ricercatori per non più di sei anni. È una misura – sostiene il ministro – che dovrebbe aprire ai giovani, senza chance d’ingresso, «non tutta la ricerca – sotiene Maria Stella Gelmini – deve concludersi con la carriera universitaria». Bel discorso virtuale, nel paese reale i ricercatori sono fra i 40 e i 50, sostituiscono i prof nella docenza da anni e da decenni. È il cane che si morde la coda da un quarantennio nella storia dell’università italiana. La beffa viene dalla manovra che blocca gli scatti di anzianità: è una imposta progressiva al contrario che dura per l’eternità: oltre il 37 per cento di decurtazione per i giovani, intorno al 6 % per chi è a fine carriera. Di qui lo slogan della “Rete 29 aprile” che raccoglie la maggioranza dei ricercatori: «Tremonti tassaci», una tassa non è per sempre ma per l’emergenza. Lo stesso relatore di maggioranza Giuseppe Valditara chiede che gli scatti, «già restituiti ai magistrati, siano ripristinati per gli universitari».

Opposizione
Ci sono due emendamenti del Pd finalizzati agli obiettivi del ringiovanimento e del risparmio: anticipare il pensionamento dai 70 attuali ai 65 anni e istituire una sorta di intra moenia per gli atenei, con una quota di proventi professionali che vada all’università. Ma c’è da considerare che i soldi risparmiati con il pensionamento dei baroni non si trasformeranno in risorse per gli atenei: il 50% dei risparmi finirà nelle casse del Tesoro.

A sorte

Il ddl Gelmini modifica profondamente il meccanismo dei concorsi: una commissione composta da quattro ordinari estratti a sorte e da un professore di un paese Ocse selezionerà i candidati all’abilitazione, gli atenei attingeranno dalla lista unica nazionale che si sarà così formata. Ma non tutti gli atenei potranno permettersi di reclutare forze nuove, soprattutto con gli attuali hiari di luna.

Quota 90
Se il disegno di legge non verrà modificato, saranno penalizzati gli atenei che spendono il 90 per cento dei loro fondi in stipendi perché non potranno bandire concorsi. e l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione dell’università) deciderà a quali atenei virtuosi assegnare il 7% di fondi in più.

Residenze
In teoria dovrebbe essere incentivato il numero delle residenze universitarie e delle borse di studio: ferme restando quelle assegnate in base al reddito vi dovrebbero essere assegni e debiti d’onore per gli studenti più bravi. Anche qui – per dirla parafrasando lo slogan di un noto immobiliarista – la solida realtà dei tagli si scontra con i sogni.

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23 luglio 2010

fonte:  http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=101573

Il governo a Bolzano: via i cartelli in tedesco o lo facciamo noi

Il governo a Bolzano: via i cartelli
in tedesco o lo facciamo noi

Ultimatum di Fitto: 60 giorni per farli sparire. Si rischia di riaprire un altro fronte nell’annosa questione «etnica»

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I cartelli in lingua tedesca
I cartelli in lingua tedesca

Sarà che gli «italiani» del Tirolo hanno perso la pazienza. O forse perché il ministro s’è innamorato delle montagne dell’Alto Adige («Ci vado ogni anno da quando sono diventato papà», ha dichiarato al Corriere dell’Alto Adige). Fatto sta che il ministro per le Regioni, Raffaele Fitto, ha deciso di passare ai fatti: «In Alto Adige, i 36 mila cartelli in montagna scritti solo in lingua tedesca devono sparire». Se non lo farà la Provincia autonoma di Bolzano, provvederà lo Stato. Fissato il tempo per sostituirli: 60 giorni. Parole dure. Che rischiano di aprire un altro fronte nell’annosa questione «etnica» del Tirolo, tra italiani e comunità tedesca. La querelle non è nuova. Da anni si combatte una vera e propria battaglia sulla «toponomastica ».

Da una parte la minoranza tedesca, rappresentata soprattutto dai partiti che stanno alla destra della Svp (il partito di maggioranza relativa) che spingono per una «germanizzazione » dei nomi di vie, piazze e sentieri. Dall’altra gli italiani, che denunciano il sopruso. E il pericolo. Quale? Di andare in montagna e rischiare di cadere o perdersi perché le scritte sono solo in tedesco. In Alto Adige, il «Cai» versione tedesca si chiama «Alpenverein », finanziato dalla Svp. Sono loro che piazzano i cartelli scritti solo in lingua tedesca. Il Landeshauptmann (il presidente della provincia di Bolzano), «re» incontrastato della Svp, Luis Durnwalder, dice di non saperne nulla: «I cartelli della Provincia sono tutti bilingui. Quelli contestati sono stati installati da terzi che non spettava a me come gestirli». E per la prima volta, ieri, ha risposto in modo durissimo all’ultimatum del ministro: «Me ne frego».

Luis, come lo chiamano tutti, non è un estremista ed è molto amato dal suo popolo. Ha avuto un leggero appannamento d’immagine solo quando è stato lasciato dalla moglie: s’era messo con una donna di Monaco molto più giovane di lui (particolare omesso in un libro Der Luis, edito da Athesia, che ha fatto finire la sua biografia al 1998 proprio per non ricordare il divorzio). Il suo «me ne frego» si spiega con la politica tutta interna alla comunità tedesca. La Svp negli ultimi anni ha perso consenso elettorale, a favore dell’aggressivo Die Freiheitlichen, una forma di opposizione antitaliana e degli Schützen, il movimento indipendentista capeggiato da Eva Klotz, che vorrebbe ritornare ai nomi precedenti al periodo fascista e che dalla Corsica commenta: «Fitto? Faccia pure, faccia pure…». Così Luis per non perdere contatto con il suo popolo (che riceve fuori orario d’ufficio, tutti i giorni, a partire dalle 6 del mattino) ha virato a destra.

La guerra dei nomi delle vie s’inquadra in questa logica. Due anni fa italiani e tedeschi s’erano azzuffati per un outlet: alcuni imprenditori austriaci avevano osato chiamare al confine un centro commerciale con il nome italiano «Brennero ». Per i tedeschi c’era una «o» di troppo (in tedesco è Brenner). Alla fine, su pressioni della Svp, la «o» era stata rimossa. Sulla questione ha esternato pure il procuratore capo Guido Rispoli: «La soluzione è semplice: basta mettere davanti a tutti i nomi via, malga o rifugio. Applicare la legge è l’unica cosa sensata».

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Agostino Gramigna
23 luglio 2010

fonte:  http://www.corriere.it/cronache/10_luglio_23/Il-governo-a-Bolzano_3b8ff9c0-9621-11df-852a-00144f02aabe.shtml

MAFIA – Pasta connection: 5000 ristoranti in mano ai boss

INCHIESTA ITALIANA

Pasta connection
5000 ristoranti in mano ai boss

A Roma e Milano un locale su 5 è della mafia. Se ci fosse una contabilità unica, si scoprirebbe che i clan possiedono una holding dal 16 mila addetti. Pagamento in contanti, pochi tavoli occupati: è la formula che permette di evitare i controlli

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di ENRICO BELLAVIA

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Pasta connection 5000 ristoranti in mano ai boss Il Café de Paris
in via Veneto

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È LA più grande catena di ristoranti in Italia, conta almeno 5 mila locali, 16 mila addetti, e fattura più di un miliardo di euro l’anno. Non ha un marchio unico e i proprietari sono diversi. È la catena dei ristoranti dei boss. Spuntano lontano dai territori tradizionali, compaiono dietro marchi prestigiosi, hanno bilanci sempre in attivo. Gigantesche lavanderie alla luce del sole dei capitali del narcotraffico. Tutti insieme costituiscono una holding che ha dieci volte i ricavi del gruppo Sebeto (Rossopomodoro e Anima e Cozze), incassa 15 volte di più dei Fratelli La Bufala e un quinto di un colosso internazionale come Autogrill, che però di insegne ne ha 5.300 in 42 Paesi. Ma perché proprio i ristoranti? In che modo costituiscono un canale di riciclaggio? Quali sono i sistemi utilizzati?

LA PRESENZA DEI BOSS
Da Roma a Milano, passando per la Toscana, l’Emilia, la Liguria, non c’è indagine recente sulla presenza dei clan dalla quale non salti fuori il nome di un ritrovo alla moda creato dal nulla o ristrutturato senza badare a spese per portare a galla il denaro sporco delle cosche in un vortice di cambi societari, di insegne che hanno stravolto uno dei comparti più celebrati dell’economia del Belpaese, attanagliato da una morsa criminale che – stima Enzo Ciconte, già presidente dell’Osservatorio sulla legalità del Lazio – “assoggetta complessivamente il 15 per cento dell’intero settore”.

Nelle città più grandi, Roma e Milano, si calcola che un locale su cinque sia nell’orbita dei boss. I Piromalli della Piana di Gioia Tauro a Roma e sul Garda, i Coco Trovato da Catanzaro tra Lecco e la Madonnina, i Papalia di Platì sotto al Duomo, gli Iovine, i Bidognetti e gli Schiavone da San Cipriano d’Aversa e Casal di Principe a Campo de Fiori, a Ostia o a Fimicino come a Modena. Gli Arena da Isola Capo Rizzato in Romagna, forti di una radicata presenza nel settore turistico-alberghiero. I Pesce-Bellocco di Rosarno e poi gli Alvaro di Sinopoli nel cuore della Dolce Vita romana. I Morabito da Africo a dettar legge all’Ortomercato di Milano dove Salvatore, il nipote di Giuseppe, ‘u tiradritto, entrava in Ferrari esibendo un regolare pass da facchino. E lì si era fatto autorizzare il “For the King”, un night che era il suo ufficio di rappresentanza nel cuore della Wall Street – 3 miloni di euro al giorno – della frutta e verdura italiana.
Clan che si fanno la guerra in Calabria si ritrovano soci in affari a migliaia di chilometri. E negli affari alimentari si mischiano obbedienze diverse. In un locale di Brera, gestito da calabresi, era di casa il figlio di Tanino Fidanzati, il siciliano re della droga milanese. I Caruana da Siculiana, in provincia di Agrigento, con base a Ostia, si erano spinti a Chioggia, per trattare un complesso turistico. Nel litorale laziale, il boss Carmine Fasciani era in affari con i napoletani, gestendo il “Faber Village” e un ristorante. È questa la nuova frontiera di una mafia che non conosce confini. “La quinta mafia”, la definisce Libera.

Nella capitale lavorava Candeloro Parrello, boss di Palmi, che nel portafoglio delle sue attività sequestrate, per un totale di 130 milioni, aveva “La Veranda” a Fiano Romano e uno stabilimento balneare a Punta Ala in provincia di Grosseto. Dalla pizzeria “Bio Solaire” di via Valtellina a Milano, di cui era socio occulto, Vincenzo Falzetta amministrava gli affari di Francesco Coco Trovato che all’Idroscalo aveva impiantato il “Cafè Solaire”. I Molè che con i Piromalli controllavano i container cinesi al porto di Gioia Tauro avevano invece individuato nel complesso di “Villa Vecchia”, hotel storico con due ristoranti a Monteporzio Catone un ottimo investimento per far fruttare una fetta dei 50 milioni a disposizione. A curare l’affare era Cosimo Virgiglio, titolare di una ditta di import-export. L’hotel era diventato la base del clan e quando i vecchi proprietari avevano provato a protestare, Virgiglio aveva provveduto a farli sloggiare nottetempo. Nino Molè, erede di Rocco ucciso nel 2008, per dire alla fidanzata che lì era ormai tutto della famiglia, spiegava: “Tu mangi la pasta gratis”.

DOVE C’E’ PIZZA C’E’ MAFIA
“Dove c’è pizza c’è mafia”, ha sostenuto un dei pochi pentiti calabresi all’indomani della strage di Duisburg, che rivelò al mondo quanto la Germania che mangiava italiano fosse infestata dal bubbone. Lo aveva intuito negli anni Ottanta anche Giovanni Falcone indagando sulla Pizza Connection. Il sistema però si è evoluto. Come mai i boss si interessano sempre di più ai ristoranti? Una premessa è d’obbligo: tra i tavoli gira normalmente molto contante. Una condizione essenziale per non lasciare tracce. I pagamenti elettronici, al contrario, sono facilmente riscontrabili, costituiscono uno degli strumenti per la cosiddetta tracciabilità del denaro. Ecco perché tra le attività commerciali i locali pubblici sono quelli più ambiti, complice quella che Lino Stoppa, presidente della Fipe, la federazione dei pubblici esercizi, chiama “liberalizzazione di fatto”.

Il flusso di contante è la condizione essenziale sia per chi investe in attività ad alto rendimento sia per chi, invece, è a caccia solo di un paravento. Alla “Rampa”, il locale di Trinità dei Monti che la magistratura romana voleva sequestrare perché ritenuto di proprietà dei Pelle-Vottari di San Luca in Aspromonte, la prima cosa che notarono i finanzieri incaricati delle indagini è che non si accettavano carte di credito e lo scrissero nel loro rapporto. La Rampa, anche per via della posizione, ha sempre avuto una folta clientela, ma ci sono ristoranti acquistati per milioni, rimessi totalmente a nuovo eppure drammaticamente deserti. Posti in cui non entra mai nessuno. Ma le luci rimangono accese fino a tardi e il personale è sempre presente. A che servono quei locali fantasma? Primo, per giustificare lavori edili e acquisti di arredi ampiamente sovrastimati, pagamenti di merce mai acquistata che nessuno ha mai veramente consegnato e di piatti che non sono stati cucinati. Quei locali servono a far girare pezzi di carta. Per far affiorare soldi che erano già nel cassetto. Chi li gestisce non ne ha alcun bisogno: sono solo una copertura per introiti altrimenti ingiustificabili. Il sistema funziona a prescindere dal numero effettivo di clienti. E naturalmente è ampiamente praticato da chi riempie i coperti per davvero ma può moltiplicarli.

In un caso o nell’altro, il ristorante è il terminale di una filiera alimentare: dai prodotti della terra alle carni, dalle mozzarelle al caffè. E il giro di fatture parte da lontano. Dalla produzione, al trasporto, dallo smistamento alla vendita. Un sistema economico parallelo fittizio o sovrastimato. “Negli ortomercati e nella grande distribuzione c’è il cuore dell’interesse delle mafie che si spinge fino ai ristoranti”, dice l’ex presidente della commissione antimafia Francesco Forgione.

Il fisco diventa un costo necessario per far tornare in circuito il denaro sporco, ma presenta dei vantaggi. Costa meno di quel 30 per cento che in media tengono le agenzie che a livello internazionale si occupano di occultare il denaro delle mafie ed è ampiamente recuperabile con altri artifizi contabili. E poi è a rischio zero: “Non esiste l’autoriciclaggio”, sottolinea Maurizio De Lucia, pm della Direzione nazionale antimafia.

LE FAMIGLIE IN CUCINA
Quasi mai i boss compaiono direttamente nella gestione delle attività. Usano i prestanome e difficilmente tengono un’insegna a lungo. Scelgono come forma giuridica le società, comprano e vendono rapidamente. Sbaraccano e ricominciano da un’altra parte. “Un turn over frenetico” che è più di una spia di inquinamento, fa notare Lorenzo Frigerio di Libera Lombardia. Ogni anno aprono 2.000 nuovi ristoranti e le società sono in numero doppio rispetto a quelle che chiudono i battenti.

I boss si fidano solo di mogli e figli. Ma qui confidano nella oggettiva difficoltà delle indagini, nella farraginosità della procedura, nelle lungaggini di un processo che parte largo con i sequestri e finisce nell’imbuto strettissimo delle effettive confische. Ai parenti prossimi è riservata la porzione meno fragile di quella costruzione. Salvata quella il meccanismo si autorigenera e la prima attività commerciale “pulita” può giustificare successive acquisizioni. Fino a nuove indagini. “Ormai – dice Alberto Nobili, memoria storica della procura di Milano – arrestiamo i nipoti dei capimafia degli anni Ottanta”.

Ma come entra un clan
nel mondo della ristorazione? L’acquisto è solo una delle forme. Lontano dai territori del Sud dove l’usura è praticata ma sotto traccia anche dove, come in Sicilia con Cosa nostra, è espressamente vietata agli uomini d’onore, i boss usano il prestito come forma di finanziamento di attività fino a quel momento perfettamente legali. Il boss sostiene i conti del ristorante e punta a prendersi tutto, magari lasciando il vecchio proprietario come intestatario senza potere e senza soldi. Era la specialità del clan di Biagio Crisafulli che aveva base a Quarto Oggiaro e alla Comasina a Milano. È Accaduto ad Amelia, in provincia di Terni dove il clan calabrese dei Marando aveva acquisito per un credito da 50 mila euro il 50 per cento del “Parco degli Ulivi”. Era accaduto al ristoratore Nino Istrice a Palermo che si era fatto aiutare dal boss Salvatore Cocuzza. Il rischio di esproprio per usura è in cima alle preoccupazioni dei ristoratori romani e i dati sul turnover delle aziende confermano i timori. A Roma interessa 26 mila commercianti, alle prese con 3 mila istanze di fallimento ogni anno.

Per Vincenzo Conticello, il titolare della “Antica focacceria San Francesco” di Palermo, che ha denunciato gli estorsori in un drammatico confronto d’aula cominciò tutto, non diversamente che per i ristoratori campani, con una fornitura di mozzarelle. Il grossista era il rampollo del boss Masino Spadaro. Del resto l’ultima indagine sul racket nel capoluogo siciliano ha svelato come l’imposizione di un marchio di caffè fosse una moderna testa d’ariete per entrare nelle aziende.

DALLA VERANDA AL CAFE’ DE PARIS
A Napoli quasi non fa sensazione che Giuseppe Setola, il capo degli stragisti casalesi si sia impadronito della “Taverna del Giullare” in piazza dei Martiri. O che Carmine Cerrato, a capo degli scissionisti di Scampia avesse a disposizione per i summit l’ex “Etoile” chiuso al pubblico. E Palermo non si è certo sorpresa quando i Graviano volevano comprarsi “La Cuba”, uno dei locali più in della città, né quando Provenzano ha fatto capolino dietro la proprietà di un resort sulle Madonie con cantina d’eccellenza. Roma invece ebbe un sussulto quando l’anno scorso Ros e Scico e le Procure di Reggio Calabria e Roma scoprirono che il “Cafè de Paris” di via Veneto, dopo un periodo di declino, era finito nelle mani del clan alleato degli Alvaro-Palamara di Sinipoli e Cosoleto: gli avevano piazzato un barbiere calabrese come manager. Ma l’acquisto del Cafè de Paris non era che il coronamento di un’architettura finanziaria, una scalata da 200 milioni di euro costruita con cura a partire dal 2001.

Era cominciato tutto quando Vincenzo Alvaro, figlio di Nicola che aveva ereditato il bastone del comando a Cosoleto, e la moglie Grazia Palamara si era stabilito a Roma per scontare il divieto di soggiorno in Calabria facendosi assumere come aiuto cuoco da un cugino al “Bar California” di via Bissolati, a una manciata di metri da via Veneto. In sette anni Vincenzo Alvaro ha chiuso accordi che gli garantivano il controllo di sei bar e tre ristoranti. È al California che fa la sua comparsa Damiano Villari, un barbiere di Sant’Eufemia di Aspromonte che ha un reddito da 15 mila euro e conclude per 2,2 milioni di euro l’acquisto del Cafè de Paris, dopo aver comprato anche l’esclusivo “George’s” di via Sicilia: un affare da 1 milione di euro. Oggi il George’s è chiuso. Un cartello avverte di rivolgersi alla portineria vicina. Dove ricordano ancora la folla di auto di lusso che intasavano la strada all’ora dell’aperitivo. Il California è ancora aperto, lo gestisce un amministratore giudiziario. Alla cassa c’è un giovane calabrese che non vuol dire il nome, non conosce Grazia Palamara e Vincenzo Alvaro e dice di non aver visto mai Damiano Villari. Racconta che il bar è di un certo suo cugino calabrese, “persona che si alza alle 4 del mattino”. Sostiene che il bar gli sarà restituito. “Sta finendo, sta finendo”, ripete scrollando le spalle. La pensa così anche l’egiziano che serve compito ai tavoli del Cafè de Paris: “Finirà presto, con i proprietari si stava meglio. Loro sì che hanno i soldi”.

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23 luglio 2010

fonte:  http://www.repubblica.it/cronaca/2010/07/23/news/inchiesta_pasta_connection-5765957/?rss

AMBIENTE – «Crea un logo “sporco” per Bp»: Greenpeace lancia un concorso di idee

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La scelta verrà effettuata con un sondaggio online. Già migliaia i voti espressi sul sito

«Crea un logo “sporco” per Bp»
Greenpeace lancia un concorso di idee

L’associazione invita i suoi sostenitori a inventare il marchio che sarà usato nelle prossime campagne

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MILANO – Il logo di Bp, la compagnia petrolifera proprietaria della Deepwater Horizon, la piattaforma su cui si è verificata l’esplosione da cui si è generata la falla che dallo scorso aprile sta riversando greggio nelle acque del Golfo del Messico, è una sorta di girasole stilizzato con gradazioni di colore che vanno dal bianco al giallo, al verde. Ma visto quanto accaduto e considerando che a detta di Greenpeace l’attività della compagnia è un «dirty business», ovvero affari sporchi, così come sporchi sono ora il mare e le coste inquinati dal petrolio, gli ambientalisti hanno lanciato dalla versione britannica del loro sito web una sorta di concorso invitando i lettori a votare per quello che ritengono possa essere un marchio più consono alla compagnia.

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Il logo anti-marea nera Il logo anti-marea nera Il logo anti-marea nera Il logo anti-marea nera

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NERO PETROLIOE’ possibile scegliere tra una ventina di varianti, la maggior parte delle quali ha giocato sul colore nero per meglio associare l’immagine di Bp al petrolio, mentre l’attuale logo ha i colori del sole e dell’ambiente. E il più votato di tutti, al momento, è il tradizionale marchio della compagnia la cui parte inferiore è completamente nera, come una pozza di greggio, da cui emerge la sagoma di un pellicano, anch’essa rigorosamente nera. Un richiamo diretto alla grande quantità di animali che si sono ritrovati avviluppati dalla massa oleosa e che per questo ci hanno lasciato le penne. Questa versione del logo è nettamente in testa nella graduatoria parziale , davanti a un bozzetto che rappresenta il tradizionale logo come un sol levante che si solleva dal mare e la cui ombra proiettata sull’acqua è in realtà una macchia di greggio. Tra le altre varianti ideate per il concorso vanno segnalate il logo trasformato in una tartaruga con una macchia di petrolio sulla corazza, quello trasformato in un minaccioso teschio dagli occhi nei, quello che rappresenta una lisca bianca di pesce su fondo nero – solo la lisca perché il resto è evidentemente andato perduto – la cui testa è rappresentata dalla «b» del marcio bp.

LOGO DA BATTAGLIA Il logo che risulterà vincitore sarà utilizzato da Greenpeace per tutte le campagne che l’associazione porterà avanti sul tema dell’inquinamento da petrolio, nel caso della vicenda Horizon e magari anche in futuro, considerando quanto l’episodio in questione sia diventato emblematico ed evocativo e immaginando che anche per il futuro il caso Bp diventerà probabilmente per antonomasia sinonimo di disastro ambientale legato al greggio.

GLI SLOGAN Non c’è tuttavia solamente il logo. Il concorso è stato ripartito in altre tre categorie: quella per le migliori illustrazioni, utilizzabili eventualmente come manifesti o copertine di volantini e pieghevoli; quella per i disegni dedicati in particolare al tema della fauna e della wildlife; e quella degli slogan. Molti tra questi ultimi giocano sull’acronimo bp, che diventa «big profits» (grandi guadagni), «beyond pollution» (oltre l’inquinamento), «bloody petroleum» (petrolio insangunato), «beach polluters» (inquinatori di spiagge) e altre varianti sul genere. Ma il più votato di tutti è quello che recita «It’s time to think outside the barrel» (è ora di pensare fuori dal barile), uno slogan già utilizzato in altri ambiti come motto ambientalista e per lo sviluppo sostenibile da gruppi e enti – tra loro l’Energy Education Foundation che ha lanciato un sito omonimo interamente dedicato alle forme alternative di produzione energetica – che ha che vogliono andare oltre la dipendenza del petrolio e pensare ad un futuro all’insegna delle energie rinnovabili.

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Al. S.
22 luglio 2010

fonte:  http://www.corriere.it/esteri/10_luglio_22/greenpeace-nuovo-logo-bp_ca6a2db6-9593-11df-91c3-00144f02aabe.shtml