Archivio | luglio 2, 2010

PALESTINA – Fotografi contro l’occupazione

Fotografi contro l’occupazione

L’esperienza di Activestills, un collettivo di fotografi israeliani e internazionali impegnati contro il Muro, l’insediamento di nuovi coloni. L’occupazione israeliana in Palestina e in genere su tematiche etiche

di Gaia Raimondi

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Venerdì 12 marzo 2010 il Circolo dei Malfattori ha ospitato un collettivo di fotografi anarchici israeliani per un’iniziativa di presentazione del lavoro svolto da questi attivisti, che si trovavano in Italia per partecipare al Festival della Fotografia Etica, evento nato da un’idea del Gruppo Fotografico Progetto Immagine, dedicato all’approfondimento della relazione tra etica, comunicazione e fotografia.
Tra gli ospiti appunto, il collettivo degli Activestills, di cui avevamo scoperto l’esistenza già nel maggio 2009 quando insieme al Centro Studi Libertari di Milano si era organizzata una due giorni di dibattito con Uri Gordon, anarchico israeliano e attivista del collettivo degli “Anarchists against the wall”; ricercando informazioni sul collettivo ci eravamo imbattuti nei reportage fotografici che illustravano le azioni svolte da questi ultimi e portavano la firma degli Activestills, che abbiamo così deciso di invitare al Circolo per conoscere più da vicino la loro storia e i loro progetti, ritenendo fondamentale la diffusione del sapere in questo senso.

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Il collettivo Activestills è stato fondato nel 2005 da un gruppo di fotografi israeliani ed internazionali specializzati nel lavoro di “foto-documentario”, a partire dalla forte convinzione che la fotografia sia un veicolo di cambiamento sociale. Durante un campeggio di lotta e resistenza nel villaggio di Bil’in (1), sul quale era prevista la costruzione di una parte di muro di separazione fra lo stato di Israele e la terra palestinese (che avrebbe inglobato una parte del villaggio ed escludendone un’altra, dilaniando le esistenze degli abitanti e la logistica del luogo), si incontrano attivisti di tutto il mondo che decidono di creare, per affinità tematiche, collettivi che avessero come fulcro centrale delle lotte l’abbattimento del muro, la denuncia delle barbarie compiute dallo stato di Israele sul popolo palestinese e la diffusione dell’idea di pacifica convivenza fra i due popoli, senza bisogno di nazioni, confini, muri, violenza, intolleranza e repressione.
In un frangente simile nel marzo 2003, a Mascha, un altro villaggio palestinese a sud di Kalkilya, che si trova a pochi chilometri dalla “linea verde” ed è separato dalle terre coltivate dalla “barriera di sicurezza”, si erano formati anche gli AATW (Anarchists against the wall), di cui era già apparso un articolo sul numero estivo 346 di Arivista, con intervista a Uri Gordon, membro del collettivo. Liad, altro membro attivo, presenta gli intenti e gli obiettivi degli AATW con le seguenti parole:

Anarchists Against the Wall (“Anarchici e anarchiche contro il muro”) è un gruppo aperto il cui principale interesse è l’azione diretta non-violenta congiunta israelo-palestinese nei territori palestinesi occupati. I suoi scopi principali sono collaborare con la società civile palestinese nelle pratiche di disobbedienza civile all’occupazione, utilizzando l’insurrezione popolare dal basso come alternativa a politiche basate invece sulle diverse fazioni e partiti; creare un’alternativa alla violenza nella lotta di resistenza e far sì che israeliani e palestinesi resistano all’occupazione fianco a fianco. Anche se essere anarchici non è un criterio per unirsi al gruppo, la maggioranza delle attiviste e degli attivisti israeliani si riconoscono nell’anarchismo e il gruppo opera basandosi su principi anarchici. Dalla sua nascita nel marzo 2003 il gruppo si è prevalentemente concentrato sulla resistenza contro la costruzione del muro dell’apartheid nel West Bank. A partire dal 2002 Israele ha iniziato a costruire una barriera, nota come muro dell’apartheid, dentro ai territori occupati. Oltre ad aumentare in maniera consistente le sofferenze causate dall’occupazione rendendo ancora più difficili i movimenti della popolazione all’interno del West Bank, il percorso del muro comporta massicci furti di terra agricola ed espulsioni della popolazione palestinese dai propri terreni.
Quando è iniziato a diventare evidente che la costruzione del muro si sarebbe trasformata in un enorme strumento di oppressione, un gruppo anarchico israeliano ha deciso di usare la questione del muro come catalizzatore per azioni dirette congiunte israelo-palestinesi. Dall’inizio del conflitto questa è stata la prima volta in cui israeliani e israeliane e palestinesi si sono trovati fianco a fianco in azioni di resistenza all’occupazione. Per dedicarsi ad azioni congiunte di israeliani e palestinesi è necessario creare la base personale e relazionale che rende possibile il fare politica assieme. È necessario costruire fiducia. La gente in Europa si deve rendere conto che non usiamo la parola “Apartheid” solo come uno slogan. C’è una separazione assoluta tra le due società. Costruire relazioni personali e fiducia, che sono la base dell’azione politica, è il passo più difficile e contemporaneamente il più importante.”

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La cosiddetta “barriera di separazione” o per meglio dire Muro dell’Apartheid, o “recinto di sicurezza”, come lo chiama il governo israeliano, di cui sono già stati costruiti più di 150 dei primi 650 Km previsti, è in realtà una rete di muri di cemento, recinti di filo spinato ed elettrificato, trincee, strade di pattuglia, torri di guardia e videocamere. La sua larghezza è in media di 60 metri ed è lungo 590 km, il costo totale previsto: 1,2 milioni di Euro e il costo per ogni kilometro si aggira intorno ai 170.000 euro. La sua costruzione non si limita a separare, per presunti motivi di sicurezza, la popolazione israeliana da quella palestinese, ma penetrando nei territori occupati ed accerchiando molti centri abitati, espropria terre, distrugge coltivazioni e pozzi, separa la popolazione dalle proprie fonti di sussistenza, rende i movimenti interni ancora più difficoltosi di quando già non faccia l’attuale sistema di suddivisione in aree e annette, di fatto, una larga percentuale di territorio palestinese, soprattutto intorno alle zone degli insediamenti israeliani e a quelle strategicamente più interessanti.
Proteste, manifestazioni e campi politici contro il Muro, gestiti ed organizzati da segmenti della società civile palestinese, hanno rappresentato un ritorno dell’Intifada come movimento dal basso, sostanzialmente disarmato e non militarizzato. Le zone dove attualmente si compiono i lavori di costruzione sono state protagoniste di diffusi momenti di insurrezione popolare, spesso con la presenza e il sostegno di attiviste e attivisti internazionali e israeliani, tra cui Anarchists against the Wall ed Activestills a documentarne l’operato per poi diffonderlo a Tel a Viv e in tutto il mondo.

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La violenza della repressione ha comportato, oltre alla drammatica e consueta uccisione di civili palestinesi, anche il ferimento grave di compagni israeliani. Se in Italia solo l’informazione indipendente e di movimento ha dato spazio alle notizie delle azioni e della repressione conseguente, in Israele stampa, radio e televisione si sono trovate invece costrette ad affrontare il tema di giovanissimi cittadini israeliani, ebrei e disarmati, colpiti in maniera quasi mortale da un esercito cui tradizionalmente si attribuisce una funzione difensiva e protettiva.
Il villaggio di Bil’in diventa così al contempo luogo di resistenza ma anche fucina di idee e di nascita di gruppi organizzati che si impegnano quotidianamente nell’azione diretta declinata in molteplici forme, dal sabotaggio della costruzione del muro, dalla lotta antimilitarista contro la presenza dell’esercito nelle terre occupate, dal supporto pratico nei villaggi palestinesi, alla produzione di controinformazione libertaria che passa anche attraverso la denuncia diretta tramite la fotografia, il video reportage, le interviste e la diffusione in ambito internazionale di ciò che i media ufficiali tengono ben nascosto.

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Durante la presentazione, il collettivo di fotografi accende il proiettore e fa partire la prima di una serie presentazione di fotografie accompagnate da musica in lingua araba, inglese, yiddish e francese, che illustra proprio il villaggio di Bil’in.

“Gli israeliani devono vedere l’occupazione. È impossibile e inutile raccontargliela. La maggioranza delle persone che ha fatto questa esperienza, che ha visto, ha cambiato totalmente la propria vita. Si sono sentiti chiamati a risponderne personalmente, perché è diventato per loro impossibile non sentire profondamente l’ingiustizia.”

Anche perché per gli israeliani non è facile entrare nella striscia di Gaza dunque, come ci raccontano nel dibattito i due compagni di Activestills, riuscire ad avere contatti con fotografi che invece si trovano sul posto ma che non possono diffondere i loro materiali diventa occasione per collaborare e attivarsi per portare in Israele e in tutto il mondo quello che realmente succede a Gaza, che altrimenti avrebbe scarse possibilità di avere risonanza a livello internazionale.
Scambio, cooperazione, supporto sono la base delle relazioni fra gli individui che compongono il collettivo e con chi entra a contatto con loro e la scelta di non pubblicare fotografie con il nome del singolo fotografo ma sempre con il nome del collettivo veicola un concetto politico importante: ad Activestills non interessa fare belle foto, che vincano premi o che vengano pubblicate sulla stampa nazionale e internazionale, non interessa la carriera professionale, bensì la possibilità comunicativa elevata perché immediata e visiva, intuitiva, di impatto, che una fotografia stimola in chi la fruisce, stimolando sentimenti ed emozioni. – Spesso, ci raccontano Oren Ziv e Yotam Ronen mentre illustrano i loro lavori, la prima reazione delle persone nei confronti delle fotografie attacchinate per le strade di Tel a Viv in maniera di impatto, come fossero una vera e propria mostra d’arte, ha un portato di vergogna che sfocia in atti rabbiosi, in scritte sulle fotografie, nello strappare il materiale dal muro. Ma per loro anche questo è un dato positivo in quanto significa aver raggiunto un duplice obiettivo, la conoscenza della situazione tragica che vivono i palestinesi e il suscitare qualcosa in chi vive a pochi km di distanza, volontariamente ignaro, complice silente, l’orrore dell’occupazione.

“Noi crediamo nel potere delle immagini di plasmare l’opinione pubblica e sensibilizzare sui temi che sono generalmente assenti dal discorso pubblico. Ci consideriamo parte della lotta contro ogni forma di oppressione, di razzismo, e le violazioni del diritto fondamentale alla libertà. Lavoriamo su diversi argomenti, tra cui il movimento e la lotta popolare contro l’occupazione israeliana, i diritti delle donne, l’immigrazione, i richiedenti asilo, la giustizia sociale, l’assedio di Gaza, e il diritto alla casa o problematiche come la disoccupazione in Israele . Il lavoro, come collettivo, si basa sulla convinzione che il mutuo appoggio serva più delle dichiarazioni personali di ogni fotografo, e che i progetti congiunti creeranno rivendicazioni condivise più potenti di quelli individuali.”

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Il collettivo, ora composto da dieci fotografi, opera in Israele e in Palestina e si concentra sulla documentazione sociale e politica, nell’ideazione di progetti e nella loro successiva elaborazione in mostre che non si limitano ad essere ospitate in luoghi ufficiali di fruizione, ma che vengono soprattutto attacchinate la notte dai membri del collettivo, come azione diretta, cercando luoghi di alto impatto visivo, scegliendo schemi di composizione logici ad alto potere comunicativo e ordinando le stampe come fossero una vera e propria mostra nelle strade, nei luoghi pubblici vissuti dalle persone, nelle ambientazioni di passaggio e incontro quotidiano. L’opinione pubblica israeliana è monopolizzata ovviamente dai media ufficiali che, asserviti allo stato, diventano sempre più razzisti e violenti. L’impatto di questo cambiamento è evidente nell’esplicitazione sempre maggiore del sostegno pubblico alle violente operazioni militari, alla legislazione razzista e alle politiche discriminatorie.

“Vogliamo sfidare questi cambiamenti con il nostro lavoro. Ogni volta che le nostre foto vengono pubblicate, o nei media mainstream o in canali alternativi, trasmettono messaggi che sfidano l’oppressione e portano la voce dei senza voce e degli inascoltati nell’opinione pubblica. Per questo Activestills utilizza spesso lo spazio pubblico per le mostre, le strade, le case, le pensiline dei mezzi o a fianco ai negozi, al fine di influenzare più direttamente l’opinione pubblica e stimolare cambiamenti di ordine sociale.”

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I reportage degli Activestills sono tutti visionabili all’indirizzo web www.activestills.org; il sito è ben organizzato per tematiche, e reportage svolti, con una breve presentazione anche del collettivo e link interessanti. Altro luogo virtuale dove visionare le fotografie del collettivo è http://www.flickr.com/photos/activestills/. La professionalità tecnica dei suoi membri unita all’obiettivo di lotta, di denuncia e di propaganda di idee che sfidano confini, stati, nazioni e mura si sono concretizzati in lavori di foto-reportage notevoli, non solo per la bellezza estetica quanto per il profondo contenuto che emerge attraverso gli sguardi dei fotografati, carichi dell’emozione e della convinzione di chi in quel momento li stava fotografando, delle angolazioni di ripresa di chi sta in prima fila e testimonia la barbarie umana, di chi lotta e per sostenere le ragioni di un popolo oppresso, cercando di guardare al di là della mera immagine, non fermandosi alla composizione estetica, ma ricercando un filtro adeguato e una lente di lettura per veicolare alla società dello spettacolo, che ha chiuso gli occhi, la dura realtà dell’orrore, cosa invece fin troppo visibile e concreta per chi se la vive ogni giorno sulla propria pelle.

Gaia Raimondi

  1. Bil’in è un villaggio palestinese che vuole continuare a esistere, che lotta per salvaguardare la sua terra, i suoi uliveti, le sue risorse e la sua libertà. Lo Stato di Israele, annettendo a sé il 60% delle terre di Bil’in per costruirci il muro di separazione, distrugge questo villaggio ogni giorno, confinando i suoi abitanti in una prigione a cielo aperto. Sostenuti da attivisti israeliani e internazionali, gli abitanti di Bil’in manifestano pacificamente tutti i venerdì davanti al “cantiere della vergogna”. E tutti i venerdì, l’esercito israeliano risponde con il solo uso della violenza fisica e morale. È importante sapere che la situazione di Bil’in rappresenta ciò che accade in tutta la Palestina, un’ingiustizia quotidiana sulla pelle dei suoi abitanti.

* Per contattarci: activestills@gmail.com

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La testimonianza di un residente a Bil’in

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Suliman Yassin, 69 anni, un residente di Bil’in, descrive a B’Tselem, organo di difesa dei diritti umani, il cambiamento drammatico della sua vita a seguito della costruzione della barriera.
“25 anni fa, ho comprato trenta dunams di terra al limite del mio villaggio… La nostra casa, che è situata al centro del villaggio, è troppo piccola per noi, e noi speriamo di costruire delle case per i nostri figli. Ho lavorato, ho scavato un pozzo, ho accomodato tonnellate di terreno roccioso per piantare e seminare. C’erano 26 ulivi quando l’ho comprata. Ho piantato più di cinquanta ulivi, circa cinquanta alberi di fico, mandorli, e circa 20 vigne. Su una altra parte della terra, un settore di circa 10 dunams, ho piantato dei semi e su 7 dunams ho piantato dei legumi. Quando ho comprato la terra, ho costruito una casa di 5 stanze e una sala da bagno perché ho 12 figli, il più grande ha 43 anni e il più giovane ha 22 anni. Tutti i miei figli sono sposati, e ho circa 30 nipoti. Noi ci sostentiamo con la terra e dividiamo il raccolto… Inoltre, ho acquistato più di cento teste di montoni e di capre che forniscono i prodotti del latte e la carne per la famiglia intera.
Con le entrate, ho comprato un altro pezzo di terreno situato a fianco dei miei campi…
Un anno fa, l’esercito israeliano ha espropriato la maggior parte dei miei campi per costruire la barriera di separazione. Nel febbraio 2004, ho ricevuto un ordine che espropriava 25 dunams.
L’ordine fu una grande sorpresa. Dieci dunams di alberi si ritrovarono nel versante ovest della barriera e non ho avuto più accesso. Tutto ciò che avevo investito è andato perduto…

Né capre né pomodori

Benché mi abbiano preso meno terra rispetto ad altri, ero il solo a perdere la sua principale fonte di sostegno. Non mi restano che 5 dunum sui quali viviamo: la casa di 120 metri quadrati, tre stanze per il bestiame e il pozzo… Ho provato a ripiantare gli ulivi sradicati sulla terra che mi resta, ma sono riuscito solamente a piantarne 15. Ora la barriera è alle ultime tappe di costruzione. Numerose manifestazioni hanno avuto luogo vicino alla mia casa che si trova a circa 20 metri dalla barriera. Un buon numero di gas lacrimogeni e di granate assordanti sono stati lanciati nella mia casa, e i proiettili veri o di gomma-acciaio hanno colpito i muri e le finestre della mia casa. Le pietre gettate dai manifestanti sono anch’esse finite all’interno della nostra casa.
Due mesi e mezzo fa, mio figlio Muhammad, che ha trent’anni, è stato ferito alla testa dall’involucro metallico dei gas lacrimogeni. Anche il mio bestiame è stato colpito dagli spari dell’esercito. Da marzo scorso, 30 delle mie capre sono morte. Nel novembre 2004, ho piantato dei pomodori, ma non ne ho raccolto nemmeno uno perché i soldati hanno danneggiato tutto il raccolto marciandoci sopra. Hanno inoltre distrutto più di 200 teste di cavolfiori, un quarto di dunam di aglio, la metà di un dunam di cipolle e un dunam e mezzo di fagioli. Io e i miei figli non abbiamo più un futuro da quando hanno preso la mia terra. Sono diventato povero perché non ho che 30 fra montoni e capre e ho iniziato a vendere anche il bestiame. Prima, il bestiame aveva a disposizione grandi spazi di terra, ma ora è confinato e io devo acquistare del foraggio. Sento il bestiame gemere e comprendo la loro frustrazione, così come capisco quella di una persona imprigionata e che non può uscire. Sono totalmente abbattuto per questa situazione. Alcuni dei miei figli che vivevano con me sono partiti. Altri erano già andati via prima che il Muro fosse costruito, perché non potevano costruire delle case sulla nostra terra che è nel settore C.

Quelle telecamere che ci spiano in casa

Altri come Marzuq, che viveva con me, ha abbandonato la casa in ragione delle continue manifestazioni in prossimità della nostra abitazione e dell’assillo dei soldati. Nel passato, la mia famiglia si ritrovava nella mia casa per mangiare insieme e per passare il tempo e i bambini giocavano. Ora ci siamo persi. Solo, mio figlio Taysir e la sua sposa e due miei nipoti che si sposeranno presto, restano in casa. Nel passato, in questo periodo, fertilizzavo la terra, poi, due mesi dopo, seminavo grano e orzo e facevo pascolare il bestiame. Quest’anno non ho potuto fare niente di tutto ciò. Non solamente la barriera ha deteriorato la nostra vita, ma ha ugualmente distrutto la nostra intimità. L’esercito ha installato delle telecamere per sorvegliare la barriera. Queste camere riprendono tutto ciò che succede, ogni singolo movimento, mio e della mia famiglia.
Se la notte devo andare al bagno – che è esterno all’abitazione – una pattuglia dell’esercito viene a verificare ciò che succede. Circa un mese fa, ho dimenticato un sacchetto di grano accanto alla barriera. Le jeep dell’esercito hanno fatto irruzione in casa mia alle 20h30 e i soldati mi hanno obbligato a uscire di casa per andare a verificare cosa fosse contenuto in quel sacco. La nostra vita è diventata un inferno. Mi sento umiliato e impotente”.

Suliman Yassin

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fonte:  http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/index.htm


REGIME – I dolori del vecchio Silvio

I dolori del vecchio Silvio

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Il pasticcio Brancher. La sentenza di Palermo. La ribellione delle regioni sui tagli. Lo scontro con Fini sulle intercettazioni. Le correnti nel Pdl. Il declino di Berlusconi è evidente. Ma sarà una cosa lunga e dolorosa

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di Marco Damilano

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Non moriremo berlusconiani. Lo ripetono i fedelissimi di Gianfranco Fini e gli indipendentisti della Lega (indipendentisti da Arcore, s’intende), lo sussurrano perfino i berlusconiani più irriducibili. Forse vorrebbe urlarlo anche Silvio Berlusconi, ma lui è l’unico che davvero non può. Stanco, invecchiato, irritabile, frastornato. Paralizzato a osservare il suo tramonto. Il carisma in declino. Il continuo alternarsi di fughe in avanti e di smentite precipitose che gli esegeti di Arcore si ostinano a definire stop and go e invece è semplice confusione politica e mentale. La leadership che si sfarina, per usare il termine old style del socialista Rino Formica, tra sodali antichi condannati per mafia, il compagno negli anni belli, Marcello Dell’Utri, “l’amico di sempre” di Silvio, come viene definito nella “Storia italiana”, e imputati di ritorno come il ministro Aldo Brancher, “il nuovo Previti”, lo chiamano.

C’è un governo incapace di decidere, come la Nazionale di Marcello Lippi, che si parli di manovra economica o di intercettazioni: Tremonti come il ringhioso Gattuso, Alfano come l’evanescente Gilardino. C’è la folla degli aspiranti Eredi che si muove a lacerare la tela. E la guerra per bande che dilania la coalizione: fondazioni, correnti, sottocomponenti. Veleni, sospetti, complotti reali o immaginari. Un virus che colpisce non solo il Pdl, ma perfino l’alleato, finora in apparenza monolitico, la Lega di Umberto Bossi.

“È proibito ai parlamentari della Lega di rilasciare interviste ai giornali e di partecipare a trasmissioni televisive fino a nuovo ordine”: la disposizione firmata Nicoletta Maggi, portavoce del Senatur, è giunta a deputati e senatori padani all’inizio della settimana, dopo che la conflittualità interna era salita pericolosamente sopra il livello di guardia, per la prima volta. È o non è la Lega l’unico partito leninista rimasto in circolazione? Ed ecco il silenziatore imposto – e guai chi sgarra – ai peones del Carroccio colpevoli di aver esternato con troppa facilità sul tema del giorno: la nomina di Brancher a ministro del Nulla, come lo hanno bollato i suoi ex confratelli paolini di “Famiglia Cristiana”, perché nulle risultano le sue deleghe sulla “Gazzetta Ufficiale”. Con la scelta disastrosa di invocare per sé il legittimo impedimento sul processo per la scalata ad Antonveneta, Brancher ha infranto i dogmi più resistenti della politica italiana: l’asse Berlusconi-Bossi e l’unità della Lega dietro l’Umberto. “Il povero Aldo è come la biglia bianca del biliardo, se lo tirano addosso per mandare altri giochi in buca”, spiega cinico un notabile del Pdl. Ma è anche il depositario di tanti segreti: l’uomo Fininvest disposto a marcire in una cella di San Vittore per tutelare i capi dell’azienda, il protettore della Lega che secondo i pm riceve mazzette da Gianpiero Fiorani per organizzare in Parlamento il salvataggio del governatore di Bankitalia Antonio Fazio e della banca leghista Credinord. Insomma, “un eroe”, come lo stalliere della mafia Vittorio Mangano per Dell’Utri. Eroi sono quelli che non parlano con i giudici, nel mondo berlusconiano. E in quello leghista che in questa vicenda ha rivelato usanze più siciliane che padane: silenzi, omertà. E faide di famiglia. // <![CDATA[//

La Sacra Famiglia, raccontano le gole profonde della Lega incuranti dei divieti, ruota attorno al Capo, ormai più un’icona che un leader politico. Attorno al Timoniere di Cassano Magnago si muove una “Banda dei quattro” padana, simile a quella che circondò Mao nella fase declinante del suo potere: la vicepresidente del Senato Rosy Mauro che lo accompagna ovunque, il presidente della commissione Bilancio Giancarlo Giorgetti, tra i pochissimi autorizzati a contraddire il Senatur, il neo-capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni che invece pratica l’obbedienza incondizionata. Su tutti, la moglie di Bossi Manuela Marrone, la Jiang Qing del Carroccio, la custode dell’ortodossia che stabilisce i gradini della gerarchia.

Sulla Famiglia si addensano gelosie e più corpose maldicenze. Per esempio, l’idea di entrare nel business delle centrali nucleari con la multiutility lombarda A2A seguita in prima persona da Bruno Caparini, padre del deputato Davide e proprietario del castello di Ponte di Legno dove Bossi trascorre le vacanze. Oppure l’irresistibile ascesa del deputato ligure Francesco Belsito, prima infilato nel cda di Fincantieri, poi promosso sottosegretario e infine nominato tesoriere della Lega, forse come ricompensa per l’impegno dimostrato a sostenere la candidatura alle elezioni regionali di Renzo Bossi, anche sul fronte del fund raising. Aria di corte, con i famigli che ingrassano e si spartiscono gli incarichi alle spalle del Capo. Aria di Cricca in camicia verde. È stata la Cricca a gettare addosso a Roberto Calderoli la colpa della nomina di Brancher che sarebbe avvenuta all’insaputa di Bossi, una patente di infedeltà addossata al Calderul a uso e consumo dei giochi di potere interno. Figuriamoci, Umberto sapeva tutto, ha subito reagito l’inventore del Porcellum. Come dimostra la cena in una mite serata romana, in un ristorante nel cuore di via del Corso, quando davanti a una ventina dei suoi, il Capo ha telefonato a Brancher e gli ha esposto il suo piano: “Tu farai il ministro dell’Agricoltura e Galan andrà allo Sviluppo economico”. Ma il pasticciato ricorso di Brancher al legittimo impedimento per sfuggire al processo di Milano e il successivo scontro istituzionale con il Quirinale hanno fatto saltare tutto. E ora la Lega è obbligata a portare a casa qualche successo. I decreti attuativi del federalismo, misure differenziate per gli enti locali previsti dalla manovra Tremonti: meno tagli per i comuni virtuosi, mano pesante con chi ha vissuto al di sopra dei suoi mezzi. “La manovra per noi è come la riforma delle pensioni nel ’94”, spiega un deputato leghista. Un paragone non casuale: su quel provvedimento Bossi staccò la spina al primo governo Berlusconi. Nessuno crede che la Lega provocherà una nuova crisi: “Ma se pensano che perderemo i nostri elettori per colpa di Berlusconi e Fini si sbagliano di grosso”.

Magari il Pdl fosse diviso solo tra il premier e il presidente della Camera. Lo scontro tra i due ha fatto il miracolo: nel Pdl le correnti si moltiplicano come pani e pesci. L’ultima arrivata, “Liberamente”, dovrebbe in teoria raccogliere i fedelissimi del premier, il motore è un forzista della prima ora, Mario Valducci, una garanzia di lealtà. Ma il Cavaliere è scontento: una sigla in più aumenta il caos senza regia in cui versa il suo partito. E poi “Liberamente” ha l’obiettivo neanche troppo occulto di azzerare l’influenza di uno dei tre coordinatori del Pdl, il plurindagato Denis Verdini. Alla prima uscita in Toscana un noto imprenditore della regione ha chiesto come condizione per partecipare che non fosse invitato Verdini. Condizione accettata con entusiasmo, i neo-berlusconiani infatti non avevano mai avuto la fantasia di invitarlo. E nella nuova associazione si dà molto da fare un personaggio di primo piano ancora non logorato, il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. È lei, l’amazzone del berlusconismo, che sta raccogliendo le adesioni per la corrente tra i parlamentari e i ministri. Futuro trampolino di lancio per candidarsi alla leadership del dopo-Cavaliere, come erede della purezza berlusconiana, ora che la stella del delfino designato Angelino Alfano si è appannata, tra scissioni in Sicilia e l’impantanamento del governo sulla giustizia.

Ma il parterre degli aspiranti al trono del monarca di Arcore è molto affollato e tutti sono in movimento febbrile. Di Fini si sa: nessuna occasione è persa per smarcarsi dal Cavaliere. Una fama che ormai supera i confini nazionali. “Anche da noi capita che tra presidente del Parlamento e capo del governo ci sia qualche dissidio”, ha alluso malizioso il presidente della Knesset durante l’ultima visita di Fini in Israele. Il primo inquilino di Montecitorio ha sorriso grato. “Ma nonostante le apparenze Gianfranco è il più leale, l’unico che non ha un gioco alternativo al Pdl e all’alleanza con Berlusconi”, ragiona un azzurro di lungo corso. “La Lega invece ti sta vicino, certo, ma a distanza di pugnale”. Il presidente della Camera ha in comune con Berlusconi un unico punto: l’immobilismo. Fini non ha i numeri per imporre la sua leadership ma può impedire che sia esercitata quella di Silvio, come si è visto nel caso delle intercettazioni, rinviate in aula a fine mese. O sulle riforme della Costituzione che sembravano cosa fatta dopo il trionfo delle elezioni regionali: la bozza Calderoli, chi l’ha più vista?
Andare avanti alla giornata, in attesa che qualcosa succeda, è la tattica finiana della guerriglia che almeno un risultato l’ha raggiunto: non è più l’unico pierino della maggioranza. Sulla manovra economica sono in rivolta tutti i governatori, anche quelli del Pdl che appena tre mesi fa hanno solennemente giurato in piazza San Giovanni davanti a Silvio sulla loro unità di intenti. Regista della rivolta è un altro aspirante illustre finora rimasto in sonno, il governatore lombardo Roberto Formigoni. Si è messo a capeggiare il fronte del no delle regioni, per colpire due bersagli con un colpo solo: il rivale Tremonti e la Lega. Sicuro così di conquistare la gratitudine di Berlusconi che sulla manovra non ha mai voluto mettere la faccia lasciando l’incombenza al ministro dell’Economia. Missione compiuta: un emendamento al Senato introduce i tagli flessibili, una categoria dello spirito, da concordare con le Regioni. Formigoni batte Tremonti uno a zero, in attesa della partita decisiva, che ancora tarderà ad arrivare.

Perché nonostante la maggioranza in sfarinamento, il Pdl senza leader e la Lega che scopre il brivido della divisione, il Cavaliere continua a rimanere l’unico punto di riferimento. Pronto a sventolare la minaccia delle elezioni anticipate, un classico, ma ben sapendo che invece sarà costretto a tirare a campare per altri diciotto mesi. Non per fare le grandi riforme, quelle ormai fanno ridere addirittura meno delle sue barzellette, che è tutto dire. No, serve tempo per inserire il lodo Alfano nella Costituzione, lo scudo che consegnerebbe a Berlusconi l’immunità dai procedimenti giudiziari in attesa del salto verso il Quirinale. Per il successore di Giorgio Napolitano si voterà nel 2013: il premier ha il disperato bisogno di arrivarci senza amicizie ingombranti, senza i Dell’Utri e i Brancher, senza i Mills e senza le D’Addario. L’ultima prospettiva per questo Cavaliere evaporato, che ha smarrito sogni e futuro, e con il sole in tasca che malinconicamente volge al declino.

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02 luglio 2010

fonte:  http://espresso.repubblica.it/dettaglio/i-dolori-del-vecchio-silvio/2130165

Filmare le discariche? Vietato per legge

adesso TUTTI a filmare le discariche. Voglio proprio vedere che fanno..

mauro

https://i0.wp.com/www.icvalesium.it/websec1/SEZALUNNI/INQUINAMENTO/INQUINAMENTO_file/image005.jpg

Filmare le discariche? Vietato per legge

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di Tommaso Sodano

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Una notizia che non è apparsa sui grandi organi di informazione ma che è paradigmatica del gravissimo deficit democratico che sta vivendo il nostro Paese. Tre giovani studenti, animati dalla voglia di costruire un pezzo di verità attorno alla discarica della vergogna costruita all’interno del Parco nazionale del Vesuvio, con una telecamerina si sono recati presso la ex Sari di località Pozzelle, nel comune di Terzigno per riprendere il pattume lì sversato.

Ma forse non tutti sanno che nell’anno di grazia 2010, nel Paese del duo Bertolaso & Berlusconi filmare o fotografare un sito come quello di Terzigno, catalogato come “area di interesse strategico nazionale”, è reato, è vietato dalla legge. E infatti puntuale sul posto arriva una pattuglia dei carabinieri che ferma i tre giovani e li porta in Caserma e i tre giovani vengono denunciati a a piede libero per la violazione dell’articolo 650 del codice penale: “inosservanza dei provvedimenti dell’autorità“.

È accaduto mercoledi 23 giugno nel pomeriggio a Terzigno: gli studenti erano saliti fino alla discarica per filmare l’attività dell’impianto, almeno dall’esterno. “L’ intenzione era quella di girare un documentario in grado di sensibilizzare quella parte di popolazione che pare non interessarsi affatto al problema delle discariche, inconsapevole dei gravi rischi di salute a cui va incontro. Volevo portare il documentario in visione nelle scuole, dargli risalto tramite internet: è assurdo ma già a partire da Pompei molta gente non è a conoscenza nè della discarica nè dei disagi che tanti cittadini di Boscoreale e Terzigno stanno vivendo.”

Questa la volontà dichiarata da Francesco Servino, uno dei tre giovani fermati. Volevano realizzare un documentario, una sorta di reportage amatoriale che, tuttavia, sarebbe servito a denunciare il paradosso di un sito di immondizia in una riserva naturale. I carabinieri che li hanno incrociati , glielo hanno impedito e li hanno formalmente denunciati alla procura della Repubblica. Il fatto grave ha creato una forte mobilitazione, attestati di solidarietà e tanta preoccupazione per questa limitazione della libertà di espressione .

In realtà il fatto rende esplicito quello che è avvenuto in Campania con la equiparazione,voluta da Bertolaso, degli impianti per la gestione dei rifiuti a siti militari strategici, facendo venir meno la possibilità di vigilanza e controllo da parte dei cittadini e delle stesse istituzioni locali. Una sorta di extraterritorialità che espropria le comunità locali da qualsiasi azione di tutela e che rappresenta il modello sperimentale su cui nei prossimi anni a il Governo vorrà cimentarsi con la realizzazione delle centrali nucleari. In realtà questo episodio rappresenta l’anticipazione della legge bavaglio, una intimidazione inaudita contro cui bisogna reagire energicamente. Ma in reltà dobbiamo porci anche una semplice domanda: ma cosa si vuole nascondere nella discarica di Terzigno? E oltre alla solidarietà ai giovani bisogna che sulla questione si apra una discussione nazionale e se c’è qualche oppositore in Parlamento batta un colpo!

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fonte:  http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/28/reportage-sulla-discarica-vesuviana-vietato-per-legge/32841/

fonte immagine:  http://www.icvalesium.it/websec1/SEZALUNNI/INQUINAMENTO/INQUINAMENTO.htm

Ondata di calore, sfiorati i 40 gradi. Cnr: andrà avanti per dieci giorni

Ondata di calore, sfiorati i 40 gradi
Cnr: andrà avanti per dieci giorni

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In sette città è allerta 2, domani tocca anche a Roma

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ROMA (2 luglio) – Ed alla fine è arrivato: il caldo, quello vero, che sfiora i 40 gradi, da oggi e per 10 giorni stringerà in una morsa il nostro Paese, determinando in alcune città condizioni di rischio e di allerta soprattutto per le persone più deboli. Il sistema di prevenzione delle ondate di calore della Protezione Civile – che monitora la situazione in 27 città italiane dal 15 maggio al 15 settembre – segnala che oggi in sette città (Torino, Trieste, Venezia, Milano, Bolzano, Bologna e Brescia ) l’allerta sarà al livello 2, quello in cui si prevedono temperature elevate che possono avere effetti negativi sulla popolazione.

Domani, poi, passano al livello 2 anche Roma e Perugia, mentre Torino e Venezia «guadagnano» il livello 3 di allerta, il massimo. Che vuol dire «condizioni meteorologiche di rischio che persistono per tre o più giorni consecutivi» nei quali «è necessario adottare interventi di prevenzione mirati alla popolazione a rischio».

La Protezione civile invita dunque a evitare prolungate esposizioni al sole
e a dotarsi di scorte d’acqua prima di mettersi in viaggio. Domenica, infine, saliranno al livello 2 Firenze, Genova, Rieti e Verona, Roma e Perugia restano al livello 2 di allerta, mentre Bolzano, Bologna, Brescia, Milano e Trieste saliranno al livello 3. Bisognerà aspettare lunedì o martedì per tornare a temperature sui livelli medi stagionali.

Rispetto alle previsioni iniziali la penisola sarà rovente fino al 10 luglio con un rialzo delle temperature e dell’umidità da martedì prossimo. A scattare la fotografia della «prima vera ondata di calore edizione 2010», è l’esperto dell’Istituto di biometeorologia del Cnr di Firenze (Ibimet), Massimiliano Pasqui. «Fino a qualche giorno fa – ha spiegato Pasqui – l’ondata sembrava molto breve. Doveva durare solo pochi giorni, 2-3, invece, sembra che durerà fino alla fine della prossima settimana (il 10 luglio)».

Il caldo è in salita da oggi «e domenica ci sarà il clou della prima fase. Poi le temperature resteranno stazionarie e sui versanti adriatici ci sarà anche qualche temporale e raffrescamento locale tra domenica e lunedì e tra lunedì e martedì. Poi da martedì prossimo e nei giorni successivi l’aria sarà ancora più calda e umida».

«Se queste previsioni verranno confermate il caldo sarà molto intenso e l’anomalia dal punto di vista climatico potenzialmente forte». Afa e umidità faranno salire la percezione del caldo. Rispetto al caldo che si è manifestato intorno al 10 giugno scorso, con le massime alte ma con una buona escursione notturna e con ventilazione, ora «le massime vanno dai 35 ai 40 gradi e le minime salgono parecchio sopra ai 25 gradi e, di notte, con l’umidità, il clima diventa afoso». Bassa la ventilazione.

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=109089&sez=HOME_INITALIA

Napoli, trasferito il prete anticamorra: fedeli in rivolta a Secondigliano

Napoli, trasferito il prete anticamorra
fedeli in rivolta a Secondigliano

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di Giuliana Covella
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NAPOLI (2 luglio) – A 53 anni sarà trasferito da quell’inferno nel quale ha vissuto e dal quale ha salvato tanti giovani per volontà dei suoi superiori. La motivazione ufficiale è che gli alti gradi dell’Opera Don Guanella hanno deciso per lo spostamento in un’altra comunità perché «fa parte della regola dell’avvicendamento che ogni comunità religiosa si pone per svariati motivi». Ma quali siano, di preciso, questi motivi non è dato saperlo. Don Aniello Manganiello, prete anticamorra di Scampìa e Secondigliano non potrà più salvare decine di giovani della periferia Nord da droga e criminalità organizzata. Il suo operato finisce qui, secondo quanto stabilito dai superiori della Confraternita.

Ma sia il parroco che i «suoi» giovani non ci stanno e per far sentire la loro voce hanno organizzato per stasera, alle 19.30, una protesta nel cortile dell’oratorio al Rione Don Guanella.
Secondo i bene informati, infatti, sarebbero altre le motivazioni che hanno spinto i religiosi guanelliani a dislocare altrove don Aniello. In primis per i suoi continui attacchi alla malavita, dal pulpito ma anche in altre occasioni. In secondo luogo per i suoi duri atti d’accusa all’indirizzo delle istituzioni locali, prima di tutto il Comune, che poco fanno, a detta del sacerdote, per gli enti religiosi e laici che si occupano di minori a rischio. Un prete «scomodo» dunque, non soltanto per i clan che governano il territorio della periferia settentrionale.

Mentre don Aniello si è chiuso in un silenzio inusuale per chi, come lui, non si è mai tirato indietro di fronte alle domande dei cronisti (da ieri, infatti, è all’oratorio per il campo estivo con i ragazzi del rione), si prepara la protesta di stasera promossa dai fedelissimi del parroco che hanno creato anche un gruppo su Facebook. «Con grande rammarico e profonda tristezza – afferma Rosario Ranno – i superiori dell’Opera Don Guanella hanno deciso il trasferimento di don Aniello in un’altra comunità. Vani sono stati i tentativi da parte del Consiglio pastorale che martedì scorso ha incontrato il superiore provinciale per dissuaderlo da questa decisione. Ma noi non ci arrendiamo e vogliamo che don Manganiello resti qui per portare avanti quel processo di innovazione che tutti conosciamo e in cui siamo stati coinvolti».

Le proteste dei residenti di Scampia e Secondigliano non si fermano qui. Stamattina, alle 10, alcuni ragazzi del gruppo di don Aniello lanceranno un appello dagli studi della trasmissione «Uno Mattina» su Rai1 alle istituzioni e ai vertici guanelliani, «per spiegare loro perché padre Manganiello non può e non deve andare via dal quartiere e dalla città». Alle proteste dei più giovani si uniscono quelle delle mamme, dei tanti genitori cui il sacerdote ha salvato i figli. Come Silvana (il nome è di fantasia), 58 anni, madre di tre figli, di cui due finiti dietro le sbarre per spaccio di stupefacenti. «Uno si è salvato – dice in lacrime la donna – solo grazie a don Aniello e a ciò che ha fatto per i nostri giovani». Storie che, da domani, potrebbero non ripetersi più se il parroco anti camorra sarà allontanato.

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fonte:  http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=109044&sez=NAPOLI

Berlusconi: rimetto ordine, ghe pensi mi. Rosy Bindi: ma fino ad ora cosa ha fatto?

Berlusconi: rimetto ordine, ghe pensi mi

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Rosy Bindi: ma fino ad ora cosa ha fatto?

Il premier torna e viene intervistato da Tg1 e Tg5 su economia, giustizia e intercettazioni. Vita: intervenga vigilanza

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ROMA (2 luglio) – Berlusconi torna dal tour politico in America e dice al Tg1: «Su manovra e intercettazioni da lunedì, come diciamo a Milano “ghe pensi mi”». «Sono tornato – ha affermato il premier – e adesso mi trovo qui con una situazione italiana che mi pare non precisamente tranquilla, ma da lunedì prenderò decisamente in mano tutti i titoli che sono sul tavolo: dalla manovra finanziaria, alla legge sulle intercettazioni, alle leggi sulla giustizia».

Dopo l’assenza dall’Italia per partecipare al summit di Toronto e alle due visite di Stato in Brasile e Panama, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi sottolinea come «Quando faccio una cosa la faccio fino in fondo e con grande determinazione, con risultati concreti». Cosi il premier Silvio Berlusconi, ma questa volta intervistato dal Tg5 ribadendo il concetto che riprenderà in mano la situazione da lunedì prossimo su temi delicati come la manovra, le intercettazioni e la giustizia. Il viaggio all’estero «è stato un tour de force» ma con «ottimi risultati perché abbiamo portato a casa per il nostro Paese quasi un punto di Pil di lavori e acquisti di prodotti; direi un vero tonico per l’economia».

Bocchino: siamo ottimisti su modifiche proposte da noi. «La notizia che il presidente Berlusconi in persona prenderà in mano da lunedì l’agenda delle questioni spinose di cui si sta dibattendo è positiva e ci rende ottimisti circa l’accoglimento delle nostre proposte di modifica sulle intercettazioni e sulla manovra». È quanto afferma il vicecapogruppo del Pdl alla Camera, Italo Bocchino, presidente di Generazione Italia.

Rosy Bindi: ma fin ad ora cosa ha fatto?
«Al ghe pensi mi del presidente del Consiglio si può solo replicare: ma finora chi ci aveva pensato? E dove era? E cosa aveva fatto? O forse vuole disconoscere il suo operato? Il disastro della manovra, le liti nel Pdl, la nomina di Brancher, la vergogna del ddl intercettazioni, la mancanza di risposte alla crisi sono proprio il frutto della sua inadeguatezza. Ora prova a rassicurare. Ma gli italiani sanno chi li governa malamente da due anni e a Berlusconi non basterà una intervista ai tiggì per recuperare le figuracce di queste settimane». Lo afferma il vicepresidente della Camera e presidente del Pd Rosy Bindi.

Vita: intervenga vigilanza. «Quello che è successo stasera con la berlusconeide a reti unificate è talmente più grave della già consueta faziosità che richiede un pronunciamento urgentissimo della autorità competente a vigilare sul settore». È il commento del senatore pd Vincenzo Vita, componente della commissione di vigilanza Rai. Che conclude:«Per l’ennesima volta Berlusconi ha superato ogni limite».

Belisario: solita arroganza. «La solita squallida e arrogante autocelebrazione a reti unificate, quella a cui Berlusconi ricorre disperatamente quando i sondaggi lo danno in netto calo». Così il presidente del Gruppo Italia dei Valori al Senato, Felice Belisario, commenta le interviste concesse dal premier a principali telegiornali della sera. «Ogni volta che la fiducia degli italiani nei suoi confronti precipita ai minimi – aggiunge l’esponente IdV – il presidente del Consiglio occupa la tv, saltellando con una regia ben studiata da un telegiornale all’altro per ripetere come un disco rotto, e ovviamente senza contraddittorio, i soliti slogan vuoti con cui ormai non incanta più nessuno. Prima il Tg1 del servile Minzolini, poi il Tg5 di famiglia, senza trascurare la Radio. Una buffonata che conferma la deriva illiberale a cui l’Italia è condannata ormai da troppo tempo. Ma Berlusconi non s’illuda: non basteranno un pò di trucco, due battute da venditore di tappeti e qualche domanda compiacente per nascondere l’inadeguatezza suo governo».

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=109152&sez=HOME_ECONOMIA

ASSURDO – Corte di Cassazione: La moglie ha carattere? Il marito può maltrattarla

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La moglie ha carattere? Il marito può maltrattarla

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La Corte di Cassazione ha emesso una sentenza che suona sconcertante. A dire poco. Perché così sembra proprio che se la moglie ha carattere e non è intimorita può essere maltrattata.

Sandro F. (45 anni) era stato condannato in primo grado dal tribunale di Sondrio, nel settembre 2005, e anche la Corte d’appello di Milano, nell’ottobre 2007, lo aveva ritenuto colpevole di maltrattamenti ai danni della moglie Roberta B. condannandolo a 8 mesi di reclusione con le attenuanti generiche. Ad avviso della Corte d’appello «la responsabilità dell’imputato era provata sulla base di sue stesse ammissioni, anche se parziali, e sulla testimonianza di medici, conoscenti e certificati medici, da cui si ricava una condotta abituale di sopraffazioni, violenze e offese umilianti, lesive della integrità fisica e morale» della moglie sottoposta a «continue ingiurie, minacce e percosse».

Dinanzi ai Supremi giudici Sandro F. ha sostenuto che non era stata ben considerata la circostanza che sua moglie «per ammissione della stessa di carattere forte, non fosse intimorita dalla condotta del marito». In sostanza secondo l’uomo i giudici avevano «scambiato per sopraffazione esercitata dall’imputato» quello che era solo «un clima di tensione fra coniugi». La Cassazione – con la sentenza 25138 – ha dato ragione a Sandro F. rilevando che non si può considerare come «condotta vessatoria» l’atteggiamento aggressivo non caratterizzato da «abitualità».

I fatti «incriminati»
in questa vicenda – prosegue la Cassazione – «appaiono risolversi in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di tre anni (per i quali la moglie ha rimesso la querela), che non rendono di per sé integrato il connotato di abitualità della condotta di sopraffazione» necessaria alla configurazione del reato di maltrattamenti. «Tanto più che – conclude la Cassazione – la condizione psicologica di Roberta B. per nulla intimorita dal comportamento del marito, era solo quella di una persona scossa, esasperata, molto carica emotivamente». Così la condanna a 8 mesi è stata annullata «perché il fatto non sussiste». E perché Robert B. non era «intimorita». Ricordando che le sentenze della Cassazione fanno giurisprudenza, qualche donna avrà da preoccuparsi.

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02 giugno 2010

fonte:  http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=100696

fonte immagine:  http://borgomanero.dsonline.it/sezioni/template1/documenti/dettaglio.aspx?id_sito=195&id_doc=3048

Il New York Times attacca Ratzinger: su abusi non ha agito quando doveva

2/7/2010 (13:15) – IL J’ACCUSE CONTRO BENEDETTO XVI

Il New York Times attacca Ratzinger: su abusi non ha agito quando doveva

https://i0.wp.com/1.bp.blogspot.com/_5oSFVXeCQDQ/SgATxz3fCXI/AAAAAAAAG6U/tn6xxpcbI6s/s400/cardinale-ratzinger-11.jpgRatzinger quand’era cardinale

Il quotidiano Usa: “Rimozione e ostruzionismo sulle violenze, ha aderito alla cultura del rinvio”
Gelo del Vaticano: solo aria fritta

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NEW YORK
Rinvii cavillosi, incapacità di riconoscere il problema,
esplicito ostruzionismo: il cardinale Joseph Ratzinger avrebbe potuto fermare l’emergenza pedofilia negli anni Novanta ma non lo ha fatto e adesso lo scandalo «minaccia di consumare il Papato». Il New York Times è tornato a puntare i riflettori sulle molestie sessuali dei preti, e sui silenzi di cui hanno beneficiato in passato, in un lungo articolo in prima pagina in cui esamina il ruolo di Benedetto XVI prima e dopo essere diventato Papa.
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«Quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Ratzinger era la figura che avrebbe potuto prendere misure decisive negli anni Novanta per evitare che lo scandalo si diffondesse come una metastasi in paese dopo paese, crescendo in proporzioni tali che ora minaccia di consumare il Papato», scrive il giornale: «Ma il futuro Papa, pur preferendo chiaramente passi per contenere il danno, è oggi chiaro, era anche parte di una cultura della non-responsabilità, della incapacità di riconoscere il problema, di cavillosi rinvii e di esplicito ostruzionismo». Dal Vaticano non sono giunti commenti ufficiali sull’articolo del Times, che arriva a conclusione di una settimana nera per la Chiesa cominciata con i raid della polizia belga e la decisione della Corte Suprema americana sulla processabilità della Santa Sede in Oregon.
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Secondo autorevoli fonti della Santa Sede, comunque, si tratterebbe di «aria fritta», una ricostruzione arbitraria e senza fondamento fatta sulla base di «informazioni confuse». Il giornale riconosce le azioni positive di Benedetto XVI, dai vari incontri con le vittime di preti molestatori alla «tardiva» riapertura dell’inchiesta sul fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel Degollado, allo spazio lasciato ai vescovi americani per porre in atto una linea dura contro gli abusi e l’assenso alle dimissioni di vescovi in altre parti del mondo. «Ma oggi la crisi degli abusi divampa nel cuore cattolico dell’Europa e il Vaticano, sotto Benedetto XVI, continua a rispondere agli abusi dei preti con il suo personale ritmo mentre è assediato dall’esterno da forze che vogliono che si muova con più forza e più decisione», scrive il giornale.
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Basandosi su fonti anonime e interviste “on the record” con vescovi come l’australiano Geoffrey Robinson, il Times ricostruisce un incontro segreto al vertice convocato nel 2000 dopo i ripetuti gridi di allarme espressi dai vescovi anglosassoni: ne scaturì, l’anno dopo, la decisione di dare all’ufficio di Ratzinger l’autorità di occuparsi direttamente dei casi di abusi. Ma il New York Times sostiene che la Congregazione per la Dottrina della Fede «aveva ricevuto questa autorità 80 anni prima, nel 1922». Secondo il Times «nei due decenni in cui è stato a capo di quell’ufficio, il futuro Papa non ha mai affermato quella autorita», aggiunge il quotidiano. L’articolo del Times arriva al termine di quelli che il vaticanista del National Catholic Reporter John Allen ha definito «i sette giorni che hanno scosso la Santa Sede». Tra le storie importanti relative alla vita della Chiesa citate da Allen ci sono le nomine ai vertici dei giorni scorsi tra cui quella del Primate canadese Marc Ouellet alla testa della Congregazione dei Vescovi: nomina accolta tra le polemiche negli Usa e in Canada delle vittime dei preti pedofili secondo cui Ouellet aveva chiuso gli occhi di fronte agli abusi del clero.
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A rischio tredicesime di poliziotti, vigili del fuoco e altri

A rischio tredicesime di poliziotti, vigili del fuoco e altri

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Le tredicesime dei magistrati, dei militari, delle forze dell’ordine, dei professori e ricercatori universitari, di vigili del fuoco, dei diplomatici e dei prefetti sono in pericolo. Un emendamento alla manovra presentato in commissione Bilancio al Senato dal relatore Azzollini emendamento stabilisce che «le tredicesime possono essere ridotte» per assicurare «un risparmio di spesa». L’entità dei tagli verrà definita con appositi decreti. Per i magistrati il decreto sarà emanato «su conforme delibera degli organi di autogoverno».

In base al provvedimento
potranno essere emanati distinti decreti per: dirigenti (e non) delle Forze armate e di polizia; vigili del fuoco (dirigenti e non); professori e ricercatori universitari; personale di magistratura; personale della carriera prefettizia; diplomatici; dirigenti penitenziari.

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02 luglio 2010

fonte:  http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=100705

Israele le nega il diritto di studio, studentessa porta il caso all’Alta Corte di Giustizia

Israele le nega il diritto di studio, studentessa porta il caso all’Alta Corte di Giustizia

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Dal gioco alla realtà il passo è stato breve. Avevamo scritto di Safe Passage proprio qualche giorno fa. Nel gioco online uno dei tre protagonisti era una studentessa di Gaza che non poteva studiare alla Birzeit University, in Cisgiordania. Detto – anzi: raccontato –, fatto.

Perché quel personaggio da videogioco oggi ha un nome, un cognome e una battaglia da portare avanti. Stavolta niente armi in mano, ma carte bollate. Lei si chiama Fatima Sharif. Ha 29 anni, è un’avvocatessa palestinese della Striscia di Gaza. E vorrebbe frequentare un master in “Diplomazia e diritti umani” proprio alla Birzeit University.

Ma Israele continua a negarle il permesso di lasciare Gaza perché «il caso non risponde a criteri umanitari o di eccezionale necessità». Così Fatima decide di volare alto. E bussa all’Alta Corte di Giustizia d’Israele per vedere garantito il suo diritto a studiare fuori dalla Striscia.

«Nonostante le dichiarazioni israeliane sugli allentamenti del blocco civile, Israele si rifiuta di lasciare andare a studiare Fatima» c’è scritto nella petizione. A sostenere l’avvocatessa l’intera “Al-Mezan Centre for Human Rights”, una Ong che si occupa dei diritti umani a Gaza e dove la stessa Fatima dà una mano.

«L’avvocatessa vuole andare in Cisgiordania solo perché non esiste un corso di studi simile a Gaza e tornerà nella Striscia una volta completati gli studi, per continuare il suo lavoro», continua ancora l’Ong. «Voglio aumentare la consapevolezza dei diritti umani nella società di Gaza – ha detto Fatima –. Sono convinta che ogni individuo abbia dei diritti di cui deve essere reso cosciente».

Leonard Berberi

fonte: http://falafelcafe.wordpress.com/2010/07/02/israele-le-nega-il-diritto-di-studio-studentessa-porta-il-caso-allalta-corte-di-giustizia/