Archivio | febbraio 26, 2013

Elezioni, Bersani sfida Grillo: “Pronti a cambiare, dica cosa vuole fare”

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Elezioni, Bersani sfida Grillo: “Pronti a cambiare, dica cosa vuole fare”

Il segretario del Pd ammette la delusione: “Non abbiamo vinto anche se siamo arrivati primi”. Poi, incalzato anche da Vendola, apre all’ipotesi di un governo che cerchi in Parlamento l’appoggio dei grillini su un pacchetto di leggi su “riforma della politica, nuova legge sui partiti, moralità pubblica e privata”.  Il coordinamento del partito dà il via libera all’apertura al M5S ma Fioroni ammonisce: “Non inseguiamo i grillini sul loro terreno”

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ROMA – “Chi non riesce a garantire la governabilità al suo paese non può dire di aver vinto le elezioni. Noi non abbiamo vinto anche se siamo arrivati primi”. Lo dice Pier Luigi Bersani parlando in conferenza stampa presso la sala stampa del Pd all’Acquario Romano.

“In queste elezioni c’è un’enorme novità – aggiunge – che ha investito tutto il sistema politico e anche noi”. Il Movimento 5 Stelle, prosegue il segretario democratico, è stato “un gran movimento d’opinione” alimentato dalla reazione alla crisi, e “la non accettazione motivata di una ricetta basata solo sull’austerità e sul rigore”. “La politica è apparsa moralmente non credibile”, dice ancora Bersani. Il Pd, ammette, “hanno intravisto il problema e hanno cercato di reagire, ma- spiega- il problema ha sopravanzato le nostre risposte”.

Una proposta di cambiamento. Malgrado la vittoria dimezzata, “la prima parola tocca a noi”, avverte il segretario democratico. “Saremo portatori efficaci di una proposta di cambiamento”, dice, anticipando che “la nostra intenzione sarà di proporre alcuni punti fondamentali di cambiamento, un programma essenziale da rivolgere al Parlamento su alcuni temi: riforma della politica, nuova legge sui partiti, moralità pubblica e privata”. “La logica è quella di ribaltare uno schema. No a discorsi a tavolino sulle alleanze. Vediamo ciò che c’è da fare per cambiare e ciascuno si assuma le sue responsabilità”, insiste Bersani.

Proposta che ha chiaramente il valore di una apertura al dialogo con il M5S. “So che fin qui hanno detto ‘tutti a casa’ – ricorda il segretario del Pd – ora ci sono anche loro, o vanno a casa anche loro o dicono che cosa vogliono fare per questo paese loro e dei loro figli”. Bersani si spinge fino ad ipotizzare l’assegnazione della presidenza di Montecitorio ai Cinque Stelle. “Sono il primo partito alla Camera. Secondo i grandi modelli democratici ciascuno si prenda la sua responsabilità”, dice il segretario del Pd.

Vendola. Per un confronto costruttivo con Grillo spinge fortemente l’alleato Nichi Vendola. Di fronte alla “domanda di cambiamento travolgente, al grido di dolore” che viene dalle urne, “la risposta più sbagliata e insultante sarebbe il governissimo”, afferma il leader di Sel. Che aggiunge: “Grillo non è un fantasma per cui serve chiamare l’esorcista: va anzi affrontata di petto l’agenda di rinnovamento che propone il Movimento 5 Stelle. E’ un dovere morale e politico quello di interloquire con Grillo, è l’unica strada che abbiamo”.

Vendola chiede quindi a Bersani, ovvero al “candidato premier”, che “si presenti alle Camere con un programma delle cose da fare nei primi 100 giorni, un programma che profumi di cambiamento e vada incontro ai grillini: conflitto interessi, norme anticorruzione, attenzione sociale a chi sta soffrendo nel Paese”.

Il coordinamento Pd. La strada verso un’intesa tra Cinque Stelle e Pd-Sel è comunque tutta in salita e irta di ostacoli, ricorda il leader democratico. Nessuna resa dei conti al coordinamento del Pd, riunito dal segretario per analizzare l’esito del voto e per capire come uscire dalla paralisi al Senato. Il segretario del Pd ha ribadito il suo no a un governissimo con il Pdl, idea vagheggiata invece da Silvio Berlusconi, e ha rilanciato la proposta di provare a formare un esecutivo con precisi punti programmatici, dai tagli dei costi della politica alla moralità, da sottoporre al Parlamento e rivolto soprattutto al M5S. Proposta che sembra condivisa dai big del partito anche se Giuseppe Fioroni ha invitato a non diventare grillini “inseguendoli sul loro terreno”. Più che la minoranza del partito a criticare le scelte dell’ultimo anno e la decisione di appoggiare il governo Monti è stato Matteo Orfini, uno dei ‘giovani turchi’ sostenitori della linea del segretario. Non sono intervenuti gli altri big e l’impressione di alcuni presenti è stata che, pur non d’accordo, si sia deciso di vedere se l’ipotesi di un’apertura a Beppe Grillo ha le gambe prima di avanzare altre proposte. Non è intervenuto neanche Paolo Gentiloni, ‘montiano’ della prima ora che ha espresso i suoi dubbi in un tweet: “Non abbiamo vinto per colpa della crisi – dice Bersani -. Vero. Ma c’è di più, abbiamo perso e non solo per la crisi”.

Apertura da Grillo. Da Grillo è arrivata oggi una timida apertura a un possibile sostegno tema per tema, ma Bersani frena subito. “Un voto al governo ‘tema per tema’ è apprezzabile, ma è anche piuttosto comodo. I governi funzionano tema per tema, ma anche con la fiducia”. C’è poi la questione Europa. “Certo se qualcuno mi dice fuori dall’euro… Vedremo i gruppi parlamentari. Si sono sentite tante affermazioni e smentite”, dice il segretario. “Certamente un’Italia che si staccasse dall’Europa – avverte – sarebbe un disastro, questa è matematica non è un’opinione”, ha chiarito. Certo, altro discorso è “se si dice che bisogna chiedere una rivisitazione della politica economica e ci sono proposte dei progressisti”.

Bersani resta alla guida del Pd. Il deludente risultato elettorale ha alimentato nelle ultime ore speculazioni su possibili dimissioni di Bersani dalla guida del partito. Rispondendo in conferenza stampa il segretario lascia la porta aperta a tutte le soluzioni. “L’ho sempre detto: per me deve girare la ruota. Ma non abbandono la nave, poi posso starci da capitano o da mozzo”, dice il leader democratico.

L’ipotesi Renzi. Bersani fa piazza pulita anche di tutte le congetture su un esito diverso in caso di candidatura di Renzi a Palazzo Chigi e di una campagna elettorale più “audace”. “Più che aver fatto le primarie che potevo fare? – replica il leader democratico – Voglio bene a Renzi, ma il problema è più profondo: per la prima volta in 60 anni c’è un meccanismo di impoverimento a cui la politica non riesce a rispondere”. Poi aggiunge:  “Ci sono tonnellate di senno del poi, ma non me la sono sentita e non me la sento di coltivare degli inganni. C’è da fare le campagne elettorali, ma c’è anche da governare, io penso al giorno dopo. Penso che quelle ricette che si sono spese in campagna elettorale in prospettiva non siano la soluzione”.
(26 febbraio 2013)

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fonte repubblica.it

LEGGETELO CON ATTENZIONE – Perché il Fiscal Compact sprofonderà l’Europa nel baratro

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Perché il Fiscal Compact sprofonderà l’Europa nel baratro

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La ratifica del Trattato di stabilità fiscale condurrà a una forma di austerità perpetua e a un restringimento mortale della democrazia in Europa. Proponiamo un capitolo da “Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa” a cura di B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang e H. Sterdyniak, in questi giorni in libreria per Minimum Fax.

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Un patto per l’austerità perpetua

«Più va a rotoli, più ci sono possibilità che funzioni» [1]

La crisi attuale, iniziata nel 2007, ha messo in evidenza i pericoli della costruzione europea attuale dominata dal neoliberismo. Nei primi mesi del 2012, le classi dirigenti così come la tecnocrazia europea sono state incapaci di superare la crisi. Ancora peggio, oggi utilizzano la crisi per raggiungere il loro principale e costante obiettivo: ridurre la spesa pubblica, indebolire il modello sociale europeo, il diritto al lavoro, e impedire ai cittadini di avere una qualsiasi voce in capitolo.

La situazione diventa così catastrofica. Per ammissione stessa della Commissione, la zona euro prevede un calo del Pil nel 2012 (-0,3%). Nel marzo 2012, il tasso di disoccupazione della zona euro ha raggiunto il 10,9%. La crisi si è tradotta nella perdita di circa il 9% del Pil. Tuttavia, la Commissione continua a imporre politiche di austerity, che spingono l’Europa verso una recessione senza fine. Sebbene siano la cecità e l’avidità dei mercati finanziari ad aver causato la crisi, sono la spesa pubblica e la protezione sociale a essere colpite.

La Commissione, la Bce e gli stati membri consentono ai mercati finanziari di speculare contro i debiti pubblici. Hanno permesso ai creditori di imporre tassi d’interesse esorbitanti all’Italia e alla Spagna. Tre dei paesi membri – Grecia, Portogallo e Irlanda – hanno visto direttamente la Troika (Commissione, Bce e Fmi) decidere le loro politiche economiche.

L’azione che ha intrapreso oggi la Commissione insieme ai leader degli stati membri consiste nel tentare di imporre alla popolazione, senza consultarla, un trattato che scolpirà nella pietra politiche economicamente suicide. Queste politiche sono realmente volte a salvare l’euro, o piuttosto dietro di esse si cela «un’agenda nascosta»? Si tratta solo di «rassicurare i mercati», o piuttosto di imporre ad ogni modo alla popolazione europea un adeguamento strutturale di grandi dimensioni al fine di ridare competitività all’Europa nella guerra economica globale, con la Cina e gli altri paesi emergenti che competono con bassi salari? Queste sono le domande che il patto solleva, cui noi tentiamo di rispondere in questo libro.
Per fare ciò, dobbiamo iniziare da un’affermazione essenziale: il patto si basa su una diagnosi errata – o dovremmo dire falsa, considerata la difficoltà nel credere alla cecità dei nostri governanti.

Infatti la diagnosi implicita che sta alla base consiste nel ritenere che la mancanza di una disciplina fiscale sia la causa delle difficoltà della zona euro. Gli stati membri sono stati troppo «lassisti» e hanno lasciato gonfiare la spesa pubblica per finanziare un modello sociale obeso e obsoleto. Tuttavia i dati negano fortemente questa tesi: prima della crisi i paesi europei non si caratterizzavano per livelli di deficit pubblico particolarmente elevati: durante il periodo 2004-2007 gli Stati Uniti avevano un deficit medio del 2,8% del Pil, il Regno Unito del 2,9% e il Giappone del 3,6%, mentre quello della zona euro era solo dell’1,5%. Il debito pubblico della zona euro non è aumentato in percentuale più del Pil. Solo la Grecia presentava un disavanzo eccessivo. Mentre paesi come l’Irlanda e la Spagna, oggi in difficoltà, non presentavano alcun disavanzo pubblico.

Il Patto di stabilità e crescita è un fallimento…

Gli organismi europei sono stati a lungo concentrati sul rispetto di norme arbitrarie definite dal Trattato di Maastricht (1991) e dal Patto di stabilità e crescita (1999). Essi hanno lasciato crescere gli squilibri in Europa tra i paesi del Nord, che guadagnavano in termini di competitività ed eccedenze commerciali, e i paesi del Sud, travolti da una bolla immobiliare e dall’aumento del debito privato.
Non si sono accorti dei pericoli che possono derivare tanto dagli squilibri delle economie reali quanto dalla deregolamentazione finanziaria.

Invece di prendere atto di questa cecità, e di porvi rimedio, la filosofia fondamentale del Fiscal Compact è quella di proseguire allo stesso modo, attraverso un’ancora maggiore rigidità, portando all’estremo il Patto di stabilità e crescita in vigore dal 1999, seguendo quel comportamento che ha portato alla situazione catastrofica attuale. Questo patto, ricordiamo, si componeva di tre voci principali:
1. Divieto di disavanzi pubblici superiori al 3% del Pil. Questo limite si applicava ai saldi correnti (non corretto per le fluttuazioni cicliche). Questo limite risultava l’unico soggetto a sanzioni in caso di mancato rispetto: la Procedura per deficit eccessivi (Pde) obbligava il paese «in difetto» a intraprendere una politica di restrizione fiscale e a rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla Commissione e al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare una sanzione.
2. Divieto di un debito pubblico superiore al 60% del Pil. Superato questo limite, i paesi «in difetto» dovevano avviare delle politiche correttive. Ma questo vincolo non prevedeva procedimenti sanzionatori.
3. Ciascun paese doveva presentare, alla fine dell’anno, un programma di stabilità (il bilancio approvato per l’anno n+1 e una proiezione per gli anni da n+2 a n+4), con l’obiettivo di raggiungere una posizione fiscale «strutturale» [2] in modo da chiudere in equilibrio nel medio termine. Se il saldo strutturale risultava in disavanzo, esso doveva essere ridotto di almeno lo 0,5% del Pil all’anno. Una volta raggiunto l’equilibrio, i paesi dovevano impegnarsi a mantenerlo. Era prevista la possibilità che lasciassero fluttuare i loro saldi in funzione della congiuntura (cosiddetti stabilizzatori automatici), ma non potevano adottare misure discrezionali per sostenere l’attività economica.

Il Patto di stabilità e crescita così definito si è tradotto in continue tensioni e, in ultima analisi, è stato solo raramente rispettato. Nel 2005, cinque dei dodici paesi della zona avevano un deficit superiore al 3% del Pil. I paesi non hanno mai rispettato i loro programmi quadriennali di stabilità, poiché non hanno potuto impegnarsi a seguire una politica fiscale predefinita per quattro anni, senza tener conto della congiuntura. Con la crisi, queste regole sono state buttate fuori dalla finestra dai governi.
Tutti i paesi (esclusa la Finlandia) hanno infatti superato nel 2009 i tetti del 3% del deficit e del 60% del debito pubblico.
Malgrado ciò, la Commissione ha voluto «rafforzare il Patto di stabilità e crescita» piuttosto che ripensare l’organizzazione della politica fiscale della zona. Il nuovo trattato riprende un insieme di disposizioni proposte dalla Commissione nel periodo 2010-2011 e, per la maggior parte, già adottate dal Consiglio e dal Parlamento europeo, come il Patto per l’euro e i Six+Two-pack (vedi l’Appendice 3).

…Il Fiscal Compact lo radicalizza

Le principali disposizioni del nuovo trattato estendono e radicalizzano i trattati precedenti, in particolare il Patto di stabilità e crescita.
Nell’articolo 1, il trattato riprende infatti le affermazioni abituali degli organismi europei. Le regole sono «volte a rafforzare il coordinamento delle politiche economiche». Ma vincoli numerici sui debiti e sui deficit pubblici, che non tengono conto delle differenti situazioni economiche, non possono di certo favorire un reale coordinamento di politiche economiche.
Allo stesso modo, il trattato afferma di rafforzare «il pilastro economico dell’Unione Europea al fine di realizzare gli obiettivi in materia di crescita duratura, occupazione, competitività e coesione sociale», ma al di là delle parole, niente di concreto viene previsto per facilitare la realizzazione di tali obiettivi, anzi si favorisce il contrario.

L’articolo 3.1, che rappresenta il cuore del Fiscal Compact, soffoca definitivamente le politiche economiche. Esso afferma che «il bilancio delle amministrazioni pubbliche deve essere in equilibrio o in avanzo; questa regola si considera soddisfatta se il deficit strutturale annuale delle amministrazioni pubbliche risulta inferiore allo 0,5% del Pil. I paesi devono garantire una convergenza rapida verso questo obiettivo. I tempi di questa convergenza verranno definiti dalla Commissione. I paesi non possono discostarsi da questi obiettivi o dal loro percorso di aggiustamento se non in circostanze eccezionali. Un meccanismo di correzione è avviato automaticamente se si individuano forti divergenze; ciò comporta l’obbligo di adottare misure volte a correggere queste deviazioni in un periodo determinato».

Così, il quasi-equilibrio delle finanze pubbliche è sancito dal trattato, pur non avendo alcuna giustificazione economica. Al contrario la vera «regola d’oro delle finanze pubbliche», insegnata in ogni testo di economia (si veda l’Appendice 4), giustifica che «gli investimenti pubblici possano essere finanziati attraverso il debito pubblico, nella misura in cui essi vengano utilizzati per molti anni»: il deficit finanzia degli investimenti capaci di creare ricchezza che permetterà di stabilizzare o rimborsare il debito stesso. Nel caso della Francia, ciò permetterebbe un deficit permanente dell’ordine del 2,4% del Pil.
Infatti, il livello del deficit pubblico dovrebbe essere considerato come legittimo non in base a una regola quantitativa immutabile fissata in anticipo, ma perché permette di raggiungere un livello di domanda soddisfacente determinando un livello di produzione che non causi disoccupazione di massa, né un aumento dell’inflazione. Non vi è alcuna garanzia che il saldo di bilancio desiderato garantisca l’equilibrio. In particolare all’interno della zona euro, in cui i paesi non hanno più alcun controllo sul tasso d’interesse, né sul tasso di cambio (che dipendono dalla politica della Bce e dai mercati finanziari), essi hanno ancor più bisogno di avere dei margini di manovra in termini di politica fiscale per affrontare situazioni difficili. Inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione equivale a prescrivere per gli uomini calzature numero
42 e per le donne 40.

Questo equilibrio non ha senso sul piano empirico. Se consideriamo, per esempio, i dieci anni prima della crisi, dal 1998 al 2007, e prendiamo i dati dell’Ocse, la Germania, l’Italia, la Francia e il Giappone hanno sempre avuto un deficit strutturale superiore allo 0,5% del Pil; mentre il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno superato il limite sette anni su dieci. Per cui, il tetto imposto non è mai stato rispettato in maniera duratura.

Il Fiscal Compact richiede ai paesi di seguire un sentiero di convergenza rapida verso l’equilibrio di bilancio, definito dalla Commissione, senza tener conto della situazione congiunturale. I paesi perderanno dunque ogni possibile libertà d’azione.
Come precauzione supplementare, un meccanismo «automatico» dovrà essere messo in pratica per ridurre il deficit. Se la Commissione stabilisce che un paese ha raggiunto per esempio un «deficit strutturale» pari a tre punti percentuali del Pil, questo dovrà mantenere un «deficit strutturale» limitato a 2% l’anno successivo, amputando in tal modo la domanda (attraverso una riduzione delle spese e un aumento delle imposte) di un punto del Pil, indipendentemente dal livello di disoccupazione. Un paese colpito da una recessione economica non avrebbe così il diritto di attuare una politica a sostegno dell’economia. Tuttavia, nel 2008-2009, la Commissione stessa aveva richiesto a tutti i paesi di adottare politiche di sostegno.

Certamente, come per il Patto di stabilità e crescita, sarebbe comunque possibile prevedere uno scarto temporaneo in caso di circostanze eccezionali, come in caso di un «tasso di crescita negativo o un declino cumulativo della produzione per un periodo prolungato», ma le misure correttive dovrebbero essere sempre pianificate e adottate rapidamente.
Quando un paese ha superato i limiti prescritti ed è soggetto a una Procedura per deficit eccessivi (Pde), deve presentare un Programma di riforme strutturali alla Commissione e al Consiglio, i quali dovranno approvarlo e monitorarne l’attuazione (articolo 5).

Quest’articolo non è nient’altro che un’arma ulteriore per imporre alla popolazione europea riforme liberiste. Oggi, la quasi totalità dei paesi dell’Unione Europea (23 su 27) è soggetta a una Pde. Oltre ai piani di riforma delle pensioni (aumento dell’età pensionabile), si vogliono imporre un abbassamento del salario minimo, minori prestazioni sociali (Irlanda, Grecia, Portogallo), la riduzione delle protezioni contro il licenziamento (Grecia, Spagna, Portogallo), la sospensione della contrattazione collettiva a favore della contrattazione d’impresa, più favorevole ai datori di lavoro (Italia, Spagna, etc.), la deregolamentazione delle professioni chiuse (tassisti, notai, architetti, etc.).

L’atto di fede dei neoliberisti è la convinzione che queste «riforme strutturali» creeranno un nuovo potenziale di crescita economica nel lungo periodo. Niente assicura che sarà così. Ciò che è certo invece è che nella situazione attuale queste riforme determineranno un aumento delle disuguaglianze, della precarietà e della disoccupazione.
In nessun passaggio, purtroppo, l’espressione «riforma strutturale» riguarda l’adozione di misure volte a rompere il dominio dei mercati finanziari, ad aumentare l’imposizione fiscale sui più ricchi e sulle grandi imprese, a organizzare e finanziare la transizione ecologica.

L’obiettivo del trattato è piuttosto quello di realizzare il sogno di sempre dei neoliberisti: paralizzare completamente le politiche fiscali, privare le politiche economiche di qualsiasi potere discrezionale.

Una macchina taglia debiti… che il debito lo fa aumentare

L’articolo 4 del Fiscal Compact rafforza la regola per cui il debito di ogni paese deve rimanere o ritornare al di sotto del 60% del Pil. Questa regola era già presente nel Patto di stabilità e crescita, ma la Commissione non aveva alcun mezzo per assicurarne il rispetto. Ora, le sanzioni diventano le stesse di quelle previste in caso di disavanzi eccessivi: un paese il cui rapporto debito/Pil supera il 60% del Pil, dovrà obbligatoriamente ridurre tale rapporto di almeno un ventesimo della differenza con il 60% ogni anno, in caso contrario dovrà in un primo momento effettuare presso la Bce un deposito che potrà poi essere trasformato in una sanzione variabile tra lo 0,2% e lo 0,5% del Pil dello stato in questione.

Questa regola pone tre problemi:
1. Presuppone che un rapporto del 60% sia un valore ottimale realizzabile da tutti i paesi. Però, in Europa, paesi come l’Italia o il Belgio hanno avuto a lungo un debito pubblico pari al 100% del Pil (per non parlare del Giappone che raggiunge il 200%) senza squilibri, dal momento che questi debiti corrispondono a elevati livelli di risparmio delle famiglie abitanti nei paesi considerati.
2. Obbliga i paesi a frenare in maniera ancora più forte l’attività che risulta già rallentata: si parla di una politica «prociclica». Per ridurre di un punto il rapporto del debito pubblico è necessario uno sforzo tanto più intenso quanto più debole risulta la crescita economica. Peggio ancora, tale sforzo di riduzione del debito peserà a sua volta sulle attività, aggravando ulteriormente il quadro generale.
3. In realtà, la regola dell’equilibrio di bilancio ignora completamente i suoi effetti sull’attività economica, effetti che possono portare a conseguenze assurde. Supponiamo per esempio un paese con un Pil pari a 100, un debito pari al 100% del Pil, un tasso di crescita del 4% e un deficit uguale al 4% del Pil. In queste condizioni il rapporto del debito rimane stabile al 100%. Ma se il paese viene obbligato, al fine di rispettare la regola della riduzione del suo rapporto di debito, a ridurre del 2% la spesa pubblica, l’attività si riduce a 98, le entrate fiscali si riducono di 1. Di conseguenza il deficit e così il debito si riducono di 1%. Il Pil sarà pari a 98 e il debito a 100; il rapporto del debito, invece di diminuire, è aumentato a 101%.

L’attuazione delle politiche di austerità, piuttosto che ridurre il rapporto debito/Pil, ne ha determinato l’aumento! Gli esempi attuali della Grecia e della Spagna mostrano bene ciò che noi stiamo provando a evidenziare. L’adozione di politiche di austerità non ha contribuito a ridurre il tasso di indebitamento pubblico, ma lo ha aumentato.

Un «coordinamento» che fa sprofondare l’Europa nel baratro

Vignetta di Matteo BertelliIl coordinamento delle politiche economiche evocato negli articoli 9-10-11 non comporta alcun impegno in materia di disoccupazione o saldo con l’estero. Non è previsto in alcun modo che i paesi in surplus, come la Germania con la sua politica di iper-competitività, che rappresentano di fatto una delle cause principali della crisi attuale, si impegnino ad aumentare i loro salari, il livello di spesa sociale e gli investimenti pubblici utili per favorire un riequilibrio.

Non vi è riferimento a un reale coordinamento di politiche economiche, ovvero a una strategia economica comune che si serva della politica monetaria, di bilancio, fiscale, sociale e che si occupi dei salari nazionali al fine di avvicinare i diversi paesi a una condizione di piena occupazione e promuoverne la transizione ecologica. Il Fiscal Compact non obbliga alla creazione di un vero e proprio bilancio europeo, con una reale fiscalità europea, che consentirebbe invece la ricostruzione di un meccanismo di solidarietà e convergenza verso l’alto delle economie.

Il trattato non ha alcun altro obiettivo se non quello di ostacolare le politiche di bilancio nazionali. Ciascun paese deve adottare misure restrittive: ridurre le pensioni, ridurre le prestazioni sociali e il numero dei funzionari, abbassare i loro salari, aumentare le imposte (principalmente l’Iva, che pesa sulle famiglie più povere). Non si prende minimamente in considerazione la situazione congiunturale specifica di ciascun paese, né i bisogni sociali in termini d’investimenti e occupazione, né le politiche degli altri paesi. Ciò implica che, oggi, tutti i paesi stanno adottando di fatto politiche di austerità, mentre i deficit sono dovuti alla recessione che ha avuto origine con lo scoppio della bolla finanziaria e all’aumento degli squilibri causati dall’errata architettura della zona euro. [3]

Uno studio recente di tre istituti economici indipendenti, Imk (Germania), Ofce (Francia) e Wifo (Austria), ha calcolato l’impatto delle politiche di austerità determinate dal Fiscal Compact. [4] Tra il 2010 e il 2013 queste misure avranno l’effetto di ridurre di circa 7 punti il Pil della zona euro. Nei paesi in crisi come l’Irlanda, la Spagna, il Portogallo e la Grecia, l’impatto depressivo sarà ancora più forte, variando da 10 punti di Pil (Irlanda) a 25 punti (Grecia).
«Questo determinerà il crollo totale dell’economia greca», scrivono i ricercatori.

Ma anche in Italia, Francia e Paesi Bassi l’economia rallenterà a causa delle misure di austerità. Le misure di austerità, decise in Germania, qui sono meno dannose che altrove (1,5% del Pil), ma a causa degli stretti legami economici con i paesi in crisi, la crescita tedesca nel periodo 2010-2013 si abbasserà del 2,7% rispetto a uno scenario senza austerità.
«Nell’insieme», scrivono gli istituti, «l’attuazione delle politiche di austerità definite nel Fiscal Compact amplierà all’interno della zona euro il divario tra i paesi del Sud d’Europa e la Germania e altri paesi del Centro e Nord Europa. Attraverso queste scelte, la crisi non viene di certo risolta, ma è piuttosto destinata a peggiorare».

Gli inquietanti e insondabili misteri del «deficit strutturale»

Il Fiscal Compact introduce all’interno di un trattato europeo un concetto economico fortemente controverso. Il saldo di bilancio strutturale delle amministrazioni pubbliche viene di fatto definito come il «saldo annuo corretto per il ciclo, al netto di misure una tantum e temporanee» (articolo 3). Ma questa definizione pone un problema tanto sul piano teorico quanto su quello empirico. Può allora essere introdotto in un trattato un concetto economico così controverso?

Per spiegare in un linguaggio accessibile, ci limiteremo qui al caso in cui il saldo del bilancio pubblico sia in disavanzo. Il «saldo di bilancio strutturale» diventa allora un «deficit strutturale». Perché introdurre questo concetto? Si tratta di costruire un indicatore che permetta di giudicare se la politica di bilancio di un paese sia davvero adeguata o piuttosto «lassista». Ciò richiede di valutare se il deficit pubblico – la differenza tra uscite ed entrate nel corso di un anno – risulti «normale» tenuto conto della congiuntura economica, o se invece sia «eccessivo».

Come giudicare allora se un deficit è «normale» o «eccessivo»? Se non ci fossero le fluttuazioni economiche, un deficit verrebbe considerato «normale», secondo il Fiscal Compact, se non superasse lo 0,5% del Pil. Il deficit corrente dovrebbe rispettare questo limite ogni anno. Questa idea riflette la visione della politica di bilancio come di una politica «neutrale» secondo la Commissione, né espansiva (attraverso un’iniezione di reddito all’interno del circuito economico) né recessiva (mediante un aumento del risparmio pubblico).

Ma, nella realtà, esiste un ciclo economico, con anni caratterizzati da boom e anni negativi con recessioni. Attraverso una politica di bilancio «neutrale» e immutata, il deficit del bilancio corrente si riduce o scompare durante gli anni di espansione: si registra un «surplus economico congiunturale» grazie all’aumento dei ricavi (maggiore crescita implica aumento dei redditi distribuiti, da cui aumento del gettito fiscale e maggiori entrate nelle casse pubbliche) e alla riduzione delle spese (sussidi di disoccupazione per esempio). Al contrario, durante gli anni recessivi il deficit corrente si gonfia meccanicamente, aumentando il «deficit congiunturale».

Supponiamo che il calcolo di un istituto economico indipendente stabilisca che nel 2009 l’impatto della recessione sul deficit è stato pari al 4% del Pil («deficit congiunturale/ciclico»). Se il deficit pubblico corrente (il solo realmente osservato) si stabilizza attorno al 5%, il deficit strutturale è a sua volta stimato al 5% 4% = 1%. Il paese è in una situazione critica.
Il suo deficit strutturale pari all’1% è superiore al famoso 0,5% e risulta così eccessivo rispetto a quanto previsto dal Fiscal Compact. Dovrebbe prevedere un aggiustamento (attraverso riduzione delle spese e/o aumento delle imposte) di circa lo 0,5% del Pil. Ciò è possibile senza troppi danni.

Supponiamo ora che gli esperti della Commissione, utilizzando il loro metodo di calcolo, valutino il deficit ciclico non al 4% ma all’1% nel 2009. In questo caso il deficit strutturale non è più dell’1% ma del 5% 1%, ovvero del 4%. Non si tratta più di ridurlo dello 0,5% del Pil, bensì di un valore pari al 3,5%. È tutta un’altra storia!

Ricordiamo inoltre che questo limite dello 0,5% è del tutto arbitrario; un deficit inferiore al 2,5% del Pil sarebbe sufficiente per stabilizzare il rapporto debito/Pil. Ricordiamo ancora che un paese può avere un deficit strutturale durante un periodo di recessione, se questo deficit corrisponde proprio a delle misure prese specificamente per sostenere l’attività economica.
La situazione che abbiamo descritto non è certo fantapolitica, ma possiamo osservarne le premesse.
Così, oggi per esempio, il governo danese si trova a smentire formalmente il calcolo della Commissione secondo il quale il deficit strutturale della Danimarca è stato nel 2011 pari al 3%. Gli esperti danesi hanno stimato un valore pari all’1%. Con il valore calcolato dalla Commissione – che il Fiscal Compact impone – il paese dovrebbe avviare una riforma delle pensioni ancora più dura di quella effettivamente realizzata, già di per sé draconiana.

Perché queste differenze nella stima?
Perché, per valutare quale sarebbe il deficit in assenza di una recessione o di un boom, abbiamo bisogno di una teoria. Quale sarebbe il livello della produzione – gli economisti la chiamano la «produzione potenziale» – se la situazione fosse «normale»? Più la differenza tra la produzione reale – che viene esattamente misurata – e la produzione potenziale è significativa, più la parte considerata congiunturale del deficit risulterà rilevante, e più il deficit strutturale verrà considerato basso. Ma, contrariamente a ciò che vogliono far credere i neoliberisti, non esiste in merito a ciò una teoria economica indiscutibile e consensuale.

Per comprendere meglio, proviamo a opporre un approccio liberista a un approccio keynesiano.
Secondo l’approccio liberista, il mercato ha sempre ragione. Se la produzione ha subìto un calo, ciò dipende da problemi di offerta (produttività o competitività insufficiente, salari troppo elevati, mercato del lavoro troppo rigido, ecc.). Non è possibile avere una produzione molto maggiore nello stato attuale dell’economia: occorrono «riforme strutturali». La produzione potenziale è prossima alla produzione effettiva. La componente ciclica del deficit è dunque minima: la maggior parte del deficit è invece strutturale.

Secondo l’approccio keynesiano, al contrario, la recessione dipende spesso da un’insufficienza della domanda effettiva. A seguito di un crollo del mercato ad esempio, le imprese investono di meno e iniziano a licenziare; i salari crescono poco, le famiglie, i disoccupati o coloro che rischiano di diventarlo riducono i loro consumi. Nessun meccanismo di stabilizzazione supporta spontaneamente l’attività. La produzione può scendere bruscamente al di sotto del suo valore potenziale. La componente ciclica del deficit diventa così la più importante.

Il Fiscal Compact precisa bene quale sia il metodo che la Commissione dovrà adottare. Tuttavia questo, di ispirazione liberista, tende a sottovalutare il divario tra la produzione reale e la produzione potenziale, particolarmente nei periodi di recessione. Così lo stock di capitale utilizzato per calcolare la produzione potenziale è lo stock effettivo, senza tener conto della possibilità che esso risulti indebolito a causa della caduta dell’attività; il progresso tecnico tendenziale si basa sul tasso osservato, che potrebbe però essere più veloce se ci fossero più investimenti; la popolazione attiva che si suppone disponibile a lavorare corrisponde alla popolazione osservata, sebbene per esempio molti giovani abbiano invece deciso di proseguire gli studi piuttosto che buttarsi in un «mercato del lavoro» depresso. Tutte queste ipotesi portano in ogni circostanza a un tasso di crescita potenziale appena superiore al tasso di crescita reale. Secondo la stima della Commissione, per il 2012, il deficit strutturale della Francia sarà del 2,4% del Pil, cifra considerevole. Secondo la nostra stima, il deficit strutturale sarà invece dello 0,3%, quindi al di sotto della soglia dello 0,5%: non c’è bisogno di austerità per rispettare il tetto dello 0,5%. Malauguratamente, il Fiscal Compact prevede che nelle costituzioni si riconosca che la Commissione europea possiede l’unica valida teoria economica e bandisce ogni possibile discussione.

Il risultato del progetto neoliberista

Il Fiscal Compact segna una nuova tappa di una doppia offensiva, contro l’autonomia delle politiche di bilancio nazionali e contro la prassi della politica economica, largamente ispirata alle teorie keynesiane, che è diffusa un po’ ovunque nel mondo.

Dopo il 1936, infatti, la teoria keynesiana aveva imposto una nuova concezione di politica economica. Il messaggio centrale di Keynes è che, tenuto conto dell’instabilità propria delle economie capitalistiche, i governi devono attuare una politica economica attiva, volta a garantire una crescita sostenuta, il raggiungimento della piena occupazione, utilizzando la politica fiscale, la politica monetaria, come anche la politica salariale, sociale e industriale. In particolare, la politica fiscale dovrebbe sostenere l’attività economica attraverso un aumento del deficit nei periodi di caduta della domanda, aumento indotto automaticamente a causa della riduzione delle entrate fiscali, ed eventualmente accresciuto da misure discrezionali di stimolo.

Questa pratica keynesiana ha sostenuto l’attività dei paesi sviluppati durante il Trentennio glorioso. Ma durante gli anni Ottanta le classi dirigenti hanno deciso di mettervi fine, poiché queste politiche, determinate da un rapporto di forza fino a quel momento favorevole ai lavoratori, si erano tradotte in un sempre maggiore intervento dello stato, con un incremento della quota ricoperta dal settore pubblico all’interno dell’economia e della società.

La controrivoluzione liberista si propone di invertire questa tendenza, cominciando con il limitare – o eliminare – gli interventi anticiclici dello stato. L’obiettivo è di mettere fine alle politiche economiche definite dalla teoria keynesiana, ritenute responsabili dell’inflazione e soprattutto della riduzione della quota dei profitti sul reddito nazionale; si vuole convincere i cittadini a rinunciare definitivamente all’obiettivo di piena occupazione, considerato causa di un aumento dell’inflazione.

La politica economica deve ora essere pensata e progettata come lotta all’inflazione, volta a ridurre drasticamente i costi (e specialmente il famoso «costo salariale»), e a ripristinare e mantenere la quota dei profitti. Essa deve essere attuata in questo modo al fine di garantire un funzionamento «libero» del mercato. Libero soprattutto dalle regolamentazioni e dalle controversie politiche e sociali che si ritiene abbiano ostacolato dopo la seconda guerra mondiale gli investitori e i capitalisti.

Ecco perché il pensiero neoliberista intende strappare le politiche economiche dalle mani dei governi democraticamente eletti. Devono invece essere affidate a organismi indipendenti composti da esperti e tecnocrati, che non sono responsabili di fronte al popolo e ai cittadini. La politica economica deve essere paralizzata con regole vincolanti. [5] Pertanto, la Banca centrale, dichiarata «indipendente», ha il principale obiettivo di mantenere l’inflazione al di sotto del 2% ogni anno. E in futuro la politica di bilancio sarà affidata a Commissioni indipendenti, sotto l’egida del patto e della Commissione, con il solo obiettivo di garantire il mantenimento dell’equilibrio di bilancio.

Questo progetto ideologico è in gran parte impraticabile.
L’instabilità dell’economia capitalista rende necessaria una politica attiva. Per questo, negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha abbassato praticamente a zero il tasso di interesse e ha comprato massicciamente titoli privati e pubblici, in totale contrasto con tutto il pensiero ortodosso: il deficit pubblico ha superato il 10% del Pil nel periodo tra il 2009 e il 2011 senza sollevare alcun allarme. All’interno dell’Ue, nel periodo 2008-2009, i governi hanno dovuto adottare misure fiscali sostanziose per evitare il crollo economico.

Nonostante tutto ciò, l’obiettivo delle autorità europee viene continuamente riaffermato e il loro credo ricordato e perseguito costantemente. Si impongono all’Europa grandi «riforme strutturali» e la fine del modello sociale dichiarato ormai obsoleto. [6] Poiché queste riforme sono chiaramente molto impopolari, la manovra, di cui il nuovo trattato è uno strumento essenziale, consiste nel far applicare e nell’imporre politiche «automatiche», attraverso delle soglie che determinano l’applicazione di misure ingiuste.
Con questo trattato, l’Europa fa un nuovo passo verso l’obiettivo neoliberista di «de-democratizzazione» della politica economica.

NOTE

[1] Celebre proverbio degli Shadok, protagonisti di un popolare cartone animato francese. [n.d.t.]
[2] Ritorneremo su questa definizione. Si veda anche l’Appendice 1 riguardo la nozione di «equilibrio strutturale» che occupa un grande spazio nel nuovo trattato.
[3] 20 ans d’aveuglement, cit.
[4] http://www.ofce.sciences-po.fr/blog/?p=1671.
[5] La seconda parte di questo libro, «Un patto contro la democrazia», analizza nel dettaglio questo aspetto, mostrando come il patto introduca una serie di meccanismi «automatici» e di sanzioni al posto di procedure decisionali concertate e di una deliberazione tra gli attori responsabili davanti ai loro elettori.
[6] Si vedano le dichiarazioni del presidente della Bce Mario Draghi in tal senso.

(20 febbraio 2013)

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fonte temi.repubblica.it

DON PAOLO FARINELLA – La rivoluzione M5S e il masochismo del Pd

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DON PAOLO FARINELLA – La rivoluzione M5S e il masochismo del Pd

pfarinellaChiedo scusa ai miei due lettori e mezzo, me che scrivo compreso, se sono costretto a citarmi da solo e per ben due volte. Ciò che conta sono le carte e la carta canta:

1.      Nel «Pacchetto del mercoledì» N. 29 del 03 ottobre 2012, scrivevo:

Occorre una rivoluzione radicale, profonda, senza misericordia. I partiti, «questi» partiti non possono autoriformarsi. Bisogna mandarli tutti a casa, tagliando loro il maltolto che devono restituire. Allo stato attuale delle cose, sul mercato esistente, il Movimento 5 Stelle nonostante le difficoltà, in parte vere, in parte costruite dai suoi moltissimi avversari, «è inevitabile», cioè un male necessario … Dico che «è inevitabile» perché potrebbe essere, nell’arco di una stagione, la ruspa che fa piazza pulita e spiana il terreno dalle sterpaglie e dai rovi che indisturbati hanno cresciuto per colpa di coloro che avrebbero dovuto fare pulizia. Ora non basta più la ramazza, occorre la ruspa e il lanciafiamme.

2.      A distanza di un mese è mezzo, nel «Pacchetto del mercoledì» N. 36 del 18 novembre 2012, scrivevo:

Grillo è una meteora inevitabile e il suo impatto sarà deflagrante. Egli al 90% è frutto dei partiti che oggi offrono ricette salvifiche, è figlio di Monti, è nipote di Bersani, è cugino di Di Pietro e tutti costoro gli stanno spianando una autostrada senza fargli pagare nemmeno dazio. Avremo Grillo al parlamento. Sarà un bene? Non lo so. So che peggio di così non può andare. So che non si può fare una legge per non fare eleggere Grillo e i suoi. Se volevano scongiurarne l’elezione, dovevano operare bene, fare buona politica, non rubare, non candidare delinquenti e prostitute, venduti e comprati, ignobili e debosciati. Non dovevano mangiare a quattro palmenti, affamando un paese intero. Ora è troppo tardi. Che Dio li perdoni e illumini Grillo che si trova sulle spalle una responsabilità enorme.

Monti di fatto è caduto il 7 dicembre 2012, quando il maggiordomo, Angelino Alfano, ha ritirato la fiducia del postribolo di Berlusconi al governo. Di conseguenza scrivevo quelle parole e quelle valutazioni due mesi prima che si dimettesse il governo e quando non si parlava ancora di elezioni e tutto faceva supporre che si sarebbe arrivati alla fine della legislatura. Il Movimento 5 Stelle aveva vinto le elezioni regionali e aveva sconvolto la Regione siciliana, ma ancora veniva dato intorno al 10% e tutto pensavano che fosse un bluff.

«Inevitabile»

Molti miei amici, superficiali e poco attenti alle parole, quando leggono, mi hanno accusato di «qualunquismo», mettendomi in guardia dal cavalcare «tigri di carta». Nessuno ha capito e io non mi sono speso in spiegazioni inutili che tanto non sarebbero servite a nulla.

Ho scritto e detto tante volte che «Grillo è inevitabile». Se le parole, con le quali vivo ogni giorno per lavoro, hanno un senso, «inevitabile», significa che «non si può evitare», qualunque provvedimento si voglia prendere. Secondo il dizionario Sabatini-Coletti si tratta di un aggettivo sostantivato che indica qualcosa «che accade senza che possa essere impedito». Sono sinonimi: ineluttabile, fatale. Il sostantivo si usa solo al singolare e significa: «Ciò che non si può evitare». Il termine è attestato dal sec. XIV. Una frana è inevitabile perché se il terreno è dissestato o è stato manomesso da incompetenti, «deve» cadere e, cadendo, travolge tutto. Non si può stare davanti a pararla con le mani.

La frana Movimento5Stelle, preparata da chi ha dissestato il terreno, minando la consistenza della terra e disboscando all’impazzata, è caduta come conseguenza logica e necessaria. Essa inoltre avverte che è solo l’anticipo perché il bello deve ancora venire e il botto sarà devastante per chi si è gingillato, credendo che bastassero battute sceme come «smacchiare il giaguaro» o «pettinare le bambole» per esorcizzare una valanga che si abbatteva sul sistema consunto e corrotto.

Ho vissuto sulla mia pelle questa demenza che ha colpito il Pd, ormai da anni: qualcuno mi ha detto che non mi hanno mai voluto invitare alle feste del loro partito a Genova con la motivazione che «lui ci critica». Imbecilli! Se invitano chi li loda, ecco i risultati. Avrebbero dovuto invitare solo quelli che li criticavano perché li mettevano in guardia e gli portavano il polso della strada, della gente e della vita, quella che essi avevano smarrito come hanno dimostrato le primarie e formazione delle liste. Hanno difeso la casta e le loro rendite.

Le primarie dovevano servire per scegliere i candidati, che però sono stati catapultati dall’alto per mettere al sicuro i funzionari di partito, sfruttando le possibilità della legge «porcata» contro la quale sbraitavano in pubblico. Avrebbero dovuto, almeno al loro interno, contestare quella legge e rispettare al millesimo i risultati delle primarie, senza sconti per alcuno. Chi è causa del suo mal pianga se stesso.

Alla Camera ho votato Movimento5 Stelle e non sono pentito. Ci mancherebbe altro. O si cambia o si muore. Non si può «cambicchiare». Qualsiasi altro voto sarebbe stato una rassegnazione all’inciucio, all’imbecillità e al vuoto. Costoro non hanno capito che il re è nudo, anzi era nuda da anni e ora non è morto di freddo.

La fine del PD

Agli amici del Pd dico: ma veramente voi pensavate di vincere le elezioni con «questa» campagna elettorale, dopo vent’anni di virus berlusconista iniettato nel sangue della Nazione? Davvero pensavate che bastava un Bersani che ne ha fatte una più di Bertoldo per perdere le elezioni? Davvero pensavate che potevate vincere con la gente che avete presentato e senza uno straccio di programma, ma solo con confusioni del tipo «vedremo … faremo … questa roba qui … quella roba là …»? Quando la vittoria si profilava sicura, ecco che il partito tira fuori il Monte dei Paschi per garantirsi la sconfitta. Non bastava ancora, perché, rovina delle rovina, avete preso l’impegno di andare al governo con Monti, anche se aveste avuto la maggioranza assoluta. Non vi siete accorti che Monti ha strangolato l’Italia e voi gli andavate dietro, anzi lo rincorrevate; più quello, patetico, vi dava botte e più voi dicevate: «ancora, ancora, che mi piace tanto»? Questo non è masochismo, ma è sadismo masochistico patologico.

Vendola ha iniziato a scomparire anche nella sua Puglia, da quando ha cominciato a garantire che non avrebbe creato problemi con un eventuale, anzi certo, governo Monti, che significava anche Casini e Fini. Possibile che non vi siete accorti che vi stavate impiccando da soli, senza aiuto esterno? Berlusconi non c’entra nella vostra perdita, perché Berlusconi non ha vinto e non ha perso. La vostra colpa è solo vostra.

Avete salvato Berlusconi almeno tre volte e anche quando era col rantolo in gola gli avete praticato la respirazione bocca a bocca per farlo risorgere, riuscendoci egregiamente. Avete voluto governare con Monti che ammazzava il vostro popolo e volevate continuare a governare con lui che nulla ha da spartire col l’odore stesso di sinistra. Oggi mi chiedo se anche voi avete qualcosa di sinistra. Per questo vi dico: andate al diavolo, perché quando potevate non avete voluto governare. Quando potevate non avete cambiato la legge elettorale né avete fatto una legge per l’ineleggibilità di Berlusconi, predatore del bene comune e nemico della legalità.

Costui ha promesso la cancellazione dell’Imu e voi avete parlato di «rimodulazione», senza andare a vedere che la gente stava annegando e annaspava perché disperata. Quella legge l’avete votata voi in parlamento. Berlusconi se l’è scrollata di dosso subito, voi no e avete cincischiato. Quando Monti ha messo l’Imu avreste dovuto fare saltare il banco ed essere voi a pretendere di andare alle elezioni. Avete ammazzato il cavallo e pretendevate anche di andarci in groppa. L’ignobile di Arcore ha scaricato su di voi ogni responsabilità di quella indegna tassa. Siete fuori della Storia. Non avete diritto di parola, perché l’avete persa definitivamente.

Invece hanno tenuto in piedi le due anime, assolutamente divise, espresse da Letta e da Bersani, restando bloccati e a mezz’aria. Un po’ con Monti e un po’ con Vendola. Letta vuole Monti e Casini e Fini ad ogni costo; Bersani lo deve subire, pena lo squartamento del partito. Ora Casini e Fini sono scomparsi, Monti è azzoppato, ma «contento» e il PD è alla frutta «ora e nell’ora della morte». Molto centro e poca sinistra, anzi niente. Immobilismo totale, senza programma. Lo stesso giorno della disfatta, Letta, nipote del Letta (il «Nobil Uomo») in tv è andato a parlare contro Grillo e a rimpiangere l’Europa. Non si è reso conto che gli elettori hanno votato contro un’Europa finanziaria che aveva affamato i poveri, ucciso la Grecia e in Italia aveva creato quattro milioni di disoccupati, ma aveva salvato la finanza e gli interessi delle lobby. Questo Letta, perché non lo mandano da suo zio con Berlusconi perché il suo posto è solo lì?

Felice di non aver vinto

Berlusconi è felice di non avere vinto. Il suo scopo non era vincere, perché in questo caso avrebbe dovuto mantenere le promesse fatte, anche solo per finta, e non è in grado. Egli voleva sparigliare e sedersi al tavolo per condizionare sulla giustizia e salvare il suo patrimonio con le frequenze tv. C’è riuscito. Ora alzerà la posta: farà la proposta che governi il PD (l’uomo è pazzo, ma non è scemo) che così deve prendere contatto con Grillo e fargli alcune proposte. Ogni fallimento andrà a carico del PD e non di Berlusconi. Per sé pretenderà la presidenza della repubblica, che non potranno dargli, è ovvio!, ma servirà per avere in cambio il massimo.

L’uomo è esperto in ricatti e lo dimostrerà. Se il PD avesse un minimo di lungimiranza, direbbe al Capo dello Stato attuale: non c’è una maggioranza, noi ci ritiriamo. Non facciamo governi con nessuno. Non possiamo fare inciuci: abbiamo promesso che non avremmo governato mai con Berlusconi e quindi non siamo disponibili, ma non  credo che lo faranno. Hanno paura di governare e quindi tenteranno di fare un governo solo per narcisismo personalistico, credendo di potere stare a galla e per accontentare la nomenclatura. Si autodistruggeranno entro pochi mesi. Premete il tasto «Esc».

Movimento5Stelle

Non ha alcuna intenzione di andare al governo e non smania, anche perché non è pronto per uno tsunami del genere. Nemmeno Grillo si aspettava un successo così enorme: è diventato il primo partito alla Camera e il terzo al Senato, ma solo perché c’è una legge fatta su misura di Berlusconi e della Lega. Altrimenti Grillo sarebbe stato primo anche al Senato. Grillo non ha fretta, ma sta seduto sulla riva ad aspettare i cadaveri dei suoi avversari. Nell’attesa non spenderà un centesimo, non cercherà rendite, ma si godrà il meritato silenzio dell’Aventino e osserverà dall’alto quello che succede tra i folli che Dio ha fatto impazzire.

Il suo risultato grande è questo: avere portato un esercito di oltre 100 deputate e deputati giovani, freschi, appassionati, forse inesperti (impareranno), puliti (almeno per ora) e decisi a scalzare le cariatidi abbarbicate alla poltrona. Nessuno più in Camera e Senato potrà fare quello che vuole, perché ora vi sono i cani da guardia che diranno tutto, sveleranno tutto, impediranno tutto e costringeranno ad abolire la casta che ha resistito contro ogni decenza. Diminuiranno gli stipendi così che molti daranno le dimissioni perché c’erano andati solo per quello.

Si aprono le danze

Cosa succederà ora? Secondo la logica, i passaggi sono obbligati per tutti. A mio parere, avverrà questo:

1.       Il Pd riceverà l’incarico di fare un governo. Lo sventurato accetterà. Berlusconi sarà magnanimo e lascerà fare in attesa di dare la zampata o di scaricare ogni responsabilità, pretendendo per sé il Quirinale. Offrirà la presidenza di una camera a Grillo. Il PD, condizionato, non potrà gestire nulla, assumendosi ogni colpa.

2.       Il PD rifiuta di fare il governo (se fosse furbo, ma non lo è!). L’incarico viene dato al PDL che non accetta (non è scemo). S’incarica una figura terza, da fuori del Parlamento: non può essere Monti che è il grande sconfitto di queste elezioni, così impara a improvvisarsi politicante. Una figura esterna gradita a PDL e PD che traghetti a nuove elezioni, previa riforma elettorale con elezione diretta del capo dello Stato e collegi uninominale a doppio turno (si accontenta la destra e la ex sinistra). In questa ipotesi, Grillo porrà sul piatto la spada di Attila e pretenderà di votare solo queste riforme: riduzione dei parlamentari, abolizione di ogni benefit e grassaggio, fuori dal parlamento chi è inquisito anche in primo grado, fuori tutti dopo due legislature, riduzione dello stipendio. Solo a queste condizioni, egli voterà «una tantum» con questi partiti.

3.       Al momento della fiducia, al Senato, il Movimento5Stelle, esce dall’aula; alla Camera si astiene o esce per dare fisicamente l’immagine plastica di non appartenere alla casta. Voterà solo quelle leggi che vanno nella direzione del suo programma e della distruzione di questa inetta classe dirigente che ha spolpato il paese, riducendolo in macerie. Il Movimento5Stelle farà da becchino ad una legislatura di mezzo, di passaggio di transizione; non voterà quelle leggi e proposte che sono frutto di «compromesso». Sarebbe suicida.

4.       Tra due mesi si voterà per il capo dello Stato. Berlusconi che «concede» il governo a Bersani, pretenderà per sé il Quirinale, sapendo che non potrà riceverlo, ma questo gli serve per alzare la posta e il ricatto. La situazione di stallo dovrà per forza portare all’elezione di una figura «extra», che deve essere gradita a Berlusconi che non transigerà e vorrà garanzie «scritte» sui processi e sulle sue imprese. Il suo scopo è raggiunto. Grillo si asterrà perché non vorrà partecipare alla spartizione. Il PD non potrà proporre un nome proprio. Forse dal cilindro delle impossibilità, salterà fuori Emma Bonino, così sarà contento il card. Ruini e Bertone che non l’hanno voluta alla presidenza del Lazio e ora se la ritroveranno al Quirinale, nel palazzo che fu dei papi. Con la Bonino, Berlusconi tratterà, perché Emma non gli è avversaria, ma spesso gli è attigua come cultura. In questo caso avremmo la Papessa Emma I e ci sarà da ridere.

5.       Grillo si asterrà perché non vorrà partecipare alla spartizione. Grillo ha tutto l’interesse di starsene alla larga da destra e da sinistra, e non farà un governò con alcuno, anche se Bersani gli prometterà metà del suo non-regno. Pur di governare, Bersani offrirà a Grillo anche la pompa di benzina di suo padre (manco più sua), ma senza risultato. Se Grillo accettasse di governare con PD e PDL perderebbe in un solo colpo il consenso che ha raggiunto. E’ suo interesse, e anche interesse del Paese, che non accetti, in attesa che

6.       Fra un anno si vada a votare con una nuova legge, diminuzione di parlamentari, riduzione degli stipendi azzeramento della casta e allora Grillo prenderà il 99%.

Onestà cercasi con rivoluzione

A urne ancora scottanti, infatti, Grillo ha mandato un messaggio chiaro via internet: «Ora l’onestà diventerà normalità». Questa è la vera novità di queste elezioni. Non è detto che sia proprio così male. Senza legalità e moralità non può esserci riforma della società e della politica. Aspettiamo con Speranza e fiducia.

L’Europa stia attenta e i mercati, o meglio, gli speculatori ricordino che in democrazia le elezioni vanno rispettate, chiunque le vinca, se siamo ancora in una parvenza democratica, cosa di cui dubito.

I vescovi italiani meditino e riflettano: il loro impegno e le loro manovre hanno fallito su tutta la linea, come ha fallito il pontificato che finisce in concomitanza. Fallimento totale, irreversibile. Sarebbe ora che dessero tutti le dimissioni per incompetenza profetica e inadeguatezza pastorale.

Una mia cara amica, O. di Padova, mi manda un link che analizza l’origine dei voti di Grillo in Veneto: la Lega ha travasato nel Movimento5Stelle, anche nella Verona di Tosi, e solo in minima parte è rimasta con Berlusconi, segno che hanno stomaco di ghisa. Questo mi preoccupa, perché non sono d’accordo con Grillo che non esiste più «destra» e «sinistra». Purtroppo non abbiamo più né l’una né l’altra e per questo si fa tutto un amalgama indifferente per cui si può cambiare vestito come capita. Bisogna avere una idea di società e di giustizia, di Stato e di mercato che non sono indifferenti. Le proposte di togliere i privilegi ai politici e il pensiero di un assegno di esistenza ai disoccupati  e precari fanno paura alle lobby. I mercati hanno reagito male e lo spread è salito. Proprio per questo bisogna andare a fondo e fare sul serio per dimostrare che tutti hanno diritto di mangiare, bere, dormire e a volte anche divertirsi. Lo spread deve rassegnarsi. In Belgio, manca il governo da anni e l’economia va a gonfie vele.

Alla mia amica faccio notare che questa situazione l’hanno voluta chi come il PD ha espulso i suoi aderenti che erano con le popolazioni della NO-TAV, cioè contro gli sprechi per oggi e per le future generazioni sulle opere inutili e dannose. Chi ha basato la propria politica sullo spreco e sulla iattanza, compreso Vendola che ultimamente parlava come un libro stampato, forbito, ma annaspando senza appigli, ora deve o andarsene o cambiare, ma sarà difficile fare notare il cambiamento perché la gente è imbestialita e nessuno la ferma più. Al Senato ho votato SEL, nello spirito di Salomone, ma vedo che non è servito a niente perché alle prossime elezioni SEL scomparirà del tutto.

Mi limito a fare una lettura della situazione e poiché la storia si scrive con i fatti, i fatti sono questi. Ora bisogna lavorare perché la RIVOLUZIONE vada fino in fondo, eliminando ogni SPRECO, e riportando la POLITICA a vero SERVIZIO e non a strumento di potere per il proprio tornaconto. In questo senso, buon lavoro Movimento5Stelle: nessun accordo con alcuno, specialmente con Berlusconi, non siate teneri, non siate accomodanti, siate il maglio del rinnovamento e poi andiamo di nuovo a votare per eleggere non più di 120 deputati e 70 senatori, compresi i rappresentanti delle Regioni. Togliamo la biada ai mangiapane a tradimento e poi … «vamos a la playa».

Spero e prego che possa avverarsi e io possa vedere questo cambiamento frutto di una rivoluzione senza spargimento di sangue. Senza Grillo, avremmo avuto l’assalto al palazzo d’inverno con le conseguenze che tutti possono immaginare. O no?

Don Paolo Farinella

(26 febbraio 2013)

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fonte blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it

Un terzo degli under 18 a rischio povertà. L’Italia è tra le peggiori in Europa

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Un terzo degli under 18 a rischio povertà
L’Italia è tra le peggiori in Europa

Il 32,3% dei minorenni italiani è a rischio, contro una media del 24,2% nel Vecchio continente. Per gli adulti italiani il dato scende al 28,4% e per gli over 65 passa al 24,2%. Pesano maggiormente il grado di istruzione dei genitori, più penalizzati i ragazzi che hanno almeno un genitore immigrato

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MILANOUn minorenne su tre in Italia – nel 2011 – è risultato a rischio “povertà o esclusione sociale”. Il dato allarmante emerge dall’indagine dell’Eurostat condotta sulla popolazione dell’Unione europea, dalla quale si evince che a soffrire maggiormente di questa condizione sono i figli di genitori con un basso livello di formazione ed educazione.

A livello di Europa a 27 membri, i bambini sono la categoria più a rischio di povertà ed esclusione sociale rispetto alle altre (adulti tra 18 e 64 anni ed oltre 65enni). Nel 2011, il 27% dei minorenni era a rischio, contro il 24% degli adulti e il 21% degli anziani. I dati relativi all’Italia per tutte le categorie superiori alla media. Dominano appunto i minori con il 32,3% dei potenziali rischi, il 28,4% degli adulti e il 24,2% delle persone anziane. Nel complesso, il 28,2% della popolazione è a rischio povertà ed esclusione sociale contro una media continentale del 24,2%.

Nel 2011 le situazioni più preoccupanti per gli under 18 si sono registrate in Bulgaria (52%), Romania (49%), Lituania (44%), Ungheria (40%) e Irlanda (38%, dato relativo al 2010); quelle migliori si segnalano invece nel Nord Europa, con Svezia, Danimarca e Finlandia al 16%, seguite dalla Slovenia (17%), dai Paesi Bassi e dall’Austria rispettivamente al 18 e al 19%. Quanto ai Paesi più rappresentativi, la Germania le condizioni critiche riguardano il 19,9% dei ragazzi, in Francia il 23%.

Oltre al livello di istruzione dei genitori, un altro elemento discriminante è quello dell’essere figlio di migranti; quando almeno uno dei due genitori è straniero aumenta infatti il rischio di povertà. Questa riguarda infatti il 32% dei bambini con un genitore immigrato rispetto al 18% dei bambini che hanno entrambi i genitori nativi del Paese di residenza. La tendenza riguarda in linea di massima tutti i Paesi dell’Europa, le disuguaglianze minori si trovano invece in Repubblica Ceca. (26 febbraio 2013)

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fonte repubblica.it

REGIONALI – Voto, Maroni e Zingaretti in testa in Lombardia e Lazio

http://s1.reutersmedia.net/resources/r/?m=02&d=20130226&t=2&i=707629770&w=450&fh=&fw=&ll=&pl=&r=AMIE91P14GL00

Voto, Maroni e Zingaretti in testa in Lombardia e Lazio

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MILANO (Reuters) – Roberto Maroni (Lega) e Nicola Zingaretti (Pd) sono in testa nella corsa alla presidenza di Lombardia e Lazio, secondo i dati ancora provvisori del Viminale.

Intorno alle 20, con poco più di 4.200 sezione scrutinate su 9.233 in Lombardia, il leghista Maroni conduce con il 43,42% dei voti sul candidato del centrosinistra, Umberto Ambrosoli, fermo al 38,18%. Seguono Silvana Carcano del Movimento 5 Stelle col 13,02%, Gabriele Albertini, appoggiato dal premier Mario Monti, col 4,17%.

Se per commentare Maroni attende dati più certi, Ambrosoli nel tardo pomeriggio ha detto invece di credere che la proposta del centrosinistra in Lombardia “abbia trovato un gradimento importante” e che “comunque sia, è solo l’inizio”.

Nel Lazio, con 1.616 sezioni scrutinate su 5.267, come atteso il candidato del centrosinistra Zingaretti è al 41,31%, contro il 29,03% di Francesco Storace del centrodestra. Davide Barillari del Movimento 5 Stelle si attesta al 20,15%.

“Ringrazio tutti i cittadini che mi hanno votato, è un risultato straordinario”, ha detto Zingaretti parlando ormai da presidente. “Qui è passato un messaggio di fronte all’astensionismo e alla cattiva politica, qui ha vinto la buona politica che governerà per cinque anni questa regione. Il risultato indica grande responsabilità. E’ stato un grande voto di discontinuità”.

In Molise, con 97 sezioni scrutinate su 393, il candidato del centrosinistra Paolo di Laura Frattura è al 42,65% contro il 31,52% di Angelo Iorio del centrodestra. Antonio Federico del Movimento 5 Stelle è al 13,08%.

(Ilaria Polleschi)

Sul sito http://www.reuters.it le altre notizie Reuters in italiano. Le top news anche su http://www.twitter.com/reuters_italia

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fonte it.reuters.com

Elezioni 2013, cronaca ora per ora. Grillo: “Ostacoleremo governissimo”

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Elezioni 2013, cronaca ora per ora. Grillo: “Ostacoleremo governissimo”

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E a poche ore dall’ufficializzazione dei risultati elettorali che hanno sancito l’ingovernabilità del Parlamento, iniziano a prendere forma le ipotesi di larghe intese tra Pd e Pdl. Stallo al Senato: tre seggi in più al centrosinistra, che però resta lontano dalla soglia necessaria. Il Cavaliere: “Presto per decidere”. Boccia: “Accordi su alcuni temi”. Beppe Grillo: “Siamo la prima forza del Paese”. Bersani in conferenza stampa alle 17

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di | 26 febbraio 2013

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Un Paese ingovernabile, diviso in tre poli: centrosinistra, centrodestra e Movimento 5 Stelle. Lo spread che al lunedì chiude a 300 punti per poi schizzare subito a 347 la mattina del martedì a urne chiuse e prima ancora che aprano le borse europee. Tutti gli scenari politici sono aperti anche la possibilità di un immediato ritorno al voto. Su tutto, l’incognita dei mercati internazionali che premono su un Paese destinato all’instabilità. Una instabilità fotografata dai risultati definitivi del voto del 24 e 25 febbraio. La coalizione guidata da Pier Luigi Bersani (Pd) totalizza al Senato il 31,63% (113 seggi che diventano 120 con Trentino e Valle d’Aosta) mentre alla Camera il 29,54% ossia 10.047.507 voti (340 seggi). Il centrosinistra quindi conquista la maggioranza relativa al Senato per il rotto della cuffia e la maggioranza assoluta alla Camera. Staccata di 3 seggi la coalizione guidata da Silvio Berlusconi con il 30,72% (117 seggi) che alla Camera totalizza il 29,18% ossia 9.923.100 voti (124 seggi). Ma il vero vincitore della tornata elettorale è senza dubbio il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo che fa il pieno ed è il primo partito alla Camera con il 25,55% dei voti pari a 8.688.545 voti (108 seggi), mentre il terzo al Senato il 23,79% pari a 7.285.648 voti (54 seggi). La coalizione di Mario Monti conquista alla Camera 45 seggi cioè il 10,56% pari a 3.591.560 voti. Fuori dal Parlamento Fli, La Destra, radicali, Samorì, Rivoluzione civile, Fare per fermare il declino. Dentro due piccoli partiti che ottengono un senatore ciascuno: la lista Crocetta in Sicilia e il Grande Sud in Calabria. (Qui i risultati definitivi alla Camera/qui al Senato).

Ipotesi di larghe intese tra Pd e Pdl – E a poche ore dall’ufficializzazione dei risultati elettorali che hanno sancito l’ingovernabilità del Parlamento, iniziano a prendere forma le ipotesi di larghe intese tra Pd e Pdl. Il primo a uscire allo scoperto è Silvio Berlusconi, in un intervento a La Telefonata di Maurizio Belpietro: ”E’ presto per decidere che cosa fare, bisogna riflettere per il bene dell’Italia. Il Paese non può non essere governato, bisogna vedere su quali programmi possano confluire le forze politiche”. A stretto giro la risposta di Francesco Boccia del Pd: “Un accordo con Berlusconi? Penso che un accordo trasparente dovrà essere fatto in Parlamento su alcuni temi”. Smentisce la vice presidente del partito Marina Sereni: “Non faremo governi con chi è responsabile del disastro in cui ci troviamo”. Nella notte, prima ancora che i risultati fossero ufficializzati, Pier Luigi Bersani si era espresso con un tweet: “E’ evidente a tutti che si apre una situazione delicatissima per il Paese. Gestiremo le responsabilità che queste elezioni ci hanno dato nell’interesse del Paese”. Anche da parte del segretario democratico, che oggi farà una conferenza stampa alle 17, non ci sono riferimenti precisi, ma non c’è nemmeno una preclusione al “governissimo”. Ipotesi che certamente non piacerà a Nichi Vendola: nella notte il segretario di Sel ha spiegato che “tocca a noi la proposta di governo”. Beppe Grillo alle 2 di notte è lapidario: “Ostacoleremo ogni ipotesi di governissimo Pd-Pdl”.

Il confronto con il 2008 – La Lega ha dimezzato i voti e il Pdl di Silvio Berlusconi ha perso il 15,84% dei consensi in cinque anni. Eppure è proprio la coalizione di centrodestra, nonostante i 6 milioni e 300mila voti persi, a uscire “a testa alta” dalle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013. Il parallelo con le elezioni 2008 spiega perché. Alle Politiche 2013, a implodere è stato l’intero sistema dei partiti (a vantaggio del M5S, che ha preso oltre 8 milioni e mezzo di voti). Basta citare il dato del Pd: sconfitto nel 2008 con il 33,2% raccolto da Veltroni e vincente – per un soffio – nel 2013 con il 25,41%. Una perdita netta, per il partito, di quasi 3 milioni e mezzo di voti, per un a forza politica che per quattro anni è stata all’opposizione e poi ha sostenuto il governo tecnico.

LA CRONACA ORA PER ORA

13.31 – De Magistris: “Napolitano dia a M5S incarico di formare il governo” – ”Credo che ora il Presidente Napolitano debba conferire al Movimento 5 Stelle l’incarico di formare il futuro governo”. Lo ha detto il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, commentando con i giornalisti il risultato elettorale. “C’è un cambiamento epocale nel Paese del quale dobbiamo cogliere i lati positivi. Si è aperta una fase epocale ma anche molto difficile”, ha proseguito il sindaco di Napoli.

13.18 – Finocchiaro (Pd): “No a governo larghe intese” – “Una via di uscita va trovata. Si è molto parlato di un governo di larghe intese, ma io tendo ad escludere questa ipotesi sulla base dell’esperienza che abbiamo fatto sia con l’ultimo governo Berlusconi che con il governo della ‘strana maggioranza”. Lo dice Anna Finocchiaro che propone: “La coalizione che vince alla Camera si presenta anche al Senato con un governo che potrebbe essere definito ‘di minoranza’, sulla base di un programma immediato di riforme”.

12.51 – Grillo: “Ostacoleremo governissimo Pd-Pdl” –”Faranno un governissimoPd-l- Pdl. Noi siamo l’ostacolo. Contro di noi non ce la possono più fare, che si mettano il cuore in pace. Potranno andare avanti ancora 7,8 mesi a fare un disastro, ma cercheremo di tenerlo sotto controllo”. Lo ha scritto Beppe Grillo sul suo sito alle 2:03 della scorsa notte. ”Cominceremo a fare quello che abbiamo sempre detto, le nostre stelle: l’acqua pubblica, la scuola pubblica, la sanità pubblica – ha proseguito il leader di M5S -. Se ci seguono ci seguono. Se no la battaglia sarà molto dura per loro”. “La cosa che mi dà malessere sono questi milioni di persone che galleggiano nella crisi, che sono stati solo sfiorati dalla crisi, che sono riusciti a vivacchiare a discapito degli altri milioni che non ce la fanno più – ha scritto Grillo -. Il problema dell’Italia sono queste persone. E finché non gli toccheranno gli stipendi o le pensioni, per loro va benissimo immobilizzare il Paese, ma durerà poco, molto poco questa situazione”. “Non so come si può fare – ha proseguito – riconsegnare il Paese ancora a Berlusconi, questo Mastrolindo che ha contribuito ad affossare il Paese, per 6 mesi, un anno. E’ veramente un crimine contro la galassia, contro l’intera galassia”. “Noi intanto ci perfezioniamo, entriamo dentro e non pensino di fare inciucetti, inciucini – ha scritto il leader del Movimento 5 stelle -. Saremo una forza straordinaria e faremo tutto quello che abbiamo detto in campagna elettorale. Reddito di cittadinanza, cominciamo a stare appresso agli ultimi: nessuno deve rimanere indietro”. Per Grillo “bisognerà mettere il voto a 16 anni, entrare in Senato a 18, come nei Paesi normali”. “Saremo 150 dentro e qualche milione fuori. E’ stata eccezionale questa cosa – si legge sul post notturno -. Prima forza in assoluta in tre anni e qualche mese, senza soldi, senza aver mai accettato un rimborso. Adesso ci toccherebbero 100 milioni. Non prenderemo soldi, continueremo così”. “Aspettateci in Parlamento, sarà un grandissimo piacere potervi osservare – ha concluso Grillo -. Mi sono chiesto dove ci collocheranno nell’ambito del Parlamento, spero dietro ognuno di voi”.

Ore 12.30 – Sereni (Pd): “Nessun governo per Berlusconi” – Davanti alla paralisi che si è creata al Senato, il Pd cerca di capire come muoversi. E al momento, a quanto si apprende, la risposta dei democrats all’apertura di Silvio Berlusconi sembra essere no. “Non faremo governi con chi è responsabile del disastro in cui ci troviamo”, sostiene il vice presidente del partito Marina Sereni. Tutti nel Pd aspettano di capire la proposta che oggi pomeriggio Pierluigi Bersani farà e, continua Sereni “sarà una proposta di cambiamento in Parlamento rivolta a M5s.  Il segretario del Pd, che sta aspettando i risultati delle regionali prima di parlare e fare un bilancio, dovrebbe rivolgersi al Parlamento indicando alcune riforme necessarie e su questa proposta, che tenga conto dell’esito delle elezioni con il boom di Grillo, testare le forze presenti nelle Camere. Difficile sembra quindi che Bersani possa provare a fare un governo con il Pdl, viste le differenze sostanziali dei programmi.

Ore 12.29 – Emiliano (Pd): “Occorre far scegliere il premier a Grillo” –  ”Il Pd-Sel è la prima coalizione d’Italia, ma non c’è maggioranza al Senato senza M5S. Occorre far scegliere premier a Grillo”. Lo scrive su Twitter il presidente del Partito democratico in Puglia, Michele Emiliano, sindaco di Bari. Emiliano scrive ancora: “Il Pd nazionale ha sbagliato molto, non c’è dubbio”.

Ore 11.43 – Barillari (M5S): “L’onda arriverà al Quirinale” – ”Noi speriamo che l’onda arrivi fino a maggio, alle elezioni del comune di Roma. Sarà una lotta con il Pd e il Pdl”. Così Davide Barillari, candidato a governatore del Lazio per il Movimento 5 Stelle, in attesa dello spoglio delle elezioni regionali. “Nei prossimi giorni partirà il sondaggio online per scegliere il candidato sindaco di 5 Stelle – ha aggiunto – avevamo deciso di aspettare l’esito delle regionali prima di iniziare”.

Ore 11.14 – Conferenza stampa alle ore 17 di Bersani – Oggi martedì 26 febbraio alle ore 17 il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani terrà una conferenza stampa presso la Casa dell’Architettura (Acquario Romano) in Piazza Manfredo Fanti 47.

Ore 10.37 – Brunetta: “Il miracolo di Silvio” – “Silvio fa un miracolo. Ora deve farne un altro”. Lo dice Renato Brunetta su Twitter.

Ore 10.34 – Beppe Grillo su Twitter: “Siamo diventati la prima forza in assoluta in tre anni, senza soldi, senza aver mai accettato un rimborso”

Ore 10.27 –  Alle 12 Monti incontra Grilli, Moavero e Visco – Il Presidente del Consiglio Mario Monti oggi alle 12 riceverà a Palazzo Chigi per consultazioni il Ministro dell’Economia e delle Finanze Vittorio Grilli, il Ministro degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi e il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Ne dà notizia un comunicato di Palazzo Chigi.

Ore 09.47 – Bagnasco (Cei): “I politici riflettano sul risultato delle urne” – “La situazione” determinata dal risultato elettorale “certamente si può dire e si deve dire che è un grande messaggio, un serio messaggio per il mondo della politica, su cui bisognerà che i responsabili, quindi gli interessati più diretti, riflettano seriamente. Non entro nel merito”. Così il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo di Genova, a margine della messa per il precetto pasquale celebrata questa mattina presso l’Ansaldo Energia di Genova, alla presenza dell’ad, Giuseppe Zampini e di circa 200 dipendenti.

Ore 09.30 – Boccia (Pd): “Possibile accordo con Berlusconi su alcuni temi” – Un accordo con Berlusconi si potrebbe verificare? “Penso che un accordo trasparente dovrà essere fatto in Parlamento su alcuni temi”. Lo afferma Francesco Boccia del Pd, intervenuto questa mattina a Omnibus su La7. “Non ha senso oggi parlare di accordi tra persone, perché dopo questo voto nessuno può pensare di rappresentare tutti. Forse solo Grillo, e ne avrebbe ragione”.

Ore 9.32 – Dell’Utri: “Risultato bellissimo, grande godimento” – Si, lo ammetto, è un godimento personale unico! Un risultato bellissimo per me”, lo afferma a La Stampa Marcello Dell’Utri che su Silvio Berlusconi osserva: “La gente ancora lo vuole, è questo l’aspetto straordinario, il recupero è dovuto a lui, il partito è un’altra cosa”. Alla domanda su che cosa succederà adesso, Dell’Utri spiega: “A meno che Grillo non si metta con Bersani, al Senato non c’è una maggioranza. Mi augurerei che destra e sinistra si mettano finalmente insieme per il bene del Paese”. Ma Berlusconi accetterebbe di appoggiare un governo con presidente Bersani? “Io credo di si – replica l’ex senatore Pdl – Per il bene del Paese lo accetterebbe, eccome. A patto di avere la sicurezza di essere…affettuosamente ascoltato e stimato. Non è vero che vuole governare a tutti i costi. A lui, prima di tutto, interessa sistemare le cose nel Paese, portarlo fuori dalle secche”.

Ore 9.02 – Violante (Pd): “Disponibili a confronto con M5s” – “Quando non c’è una maggioranza stabile – osserva Violante – bisogna aprirsi al confronto aperto con tutti”. Anche con i grillini? “La politica è l’arte della persuasione – replica Violante, – non è stare a guardarsi in cagnesco. Poi, certo, bisogna essere in due per dialogare. Ma serve responsabilità per non sprecare tutti i sacrifici che si sono fatti”. “Il Movimento 5 Stelle – aggiunge – ha un programma per certi versi vago e impraticabile, ma si deve guardare alle persone”.

Ore 8.49 – Scajola: “Vince Berlusconi, perde il Pdl” – L’ex ministro Claudio Scajola immagina per il futuro immediato un “governo a tempo” su una piattaforma ridotta e poi, se non si riuscisse ad andare avanti, il ritorno al voto. “A spoglio dei voti reali non ultimato – afferma in una intervista al Corriere della Sera, – si comincia a capire una cosa molto chiara. Chi, a sinistra, ha cantato vittoria troppo presto ha preso una clamorosa cantonata”. “Grillo, che è stato sottovalutato, – spiega Scajola – ha espresso valutazioni condivise da gran parte dei cittadini. Il secondo grande vincitore è Silvio Berlusconi, non il Popolo della libertà, perchè qualcuno di noi pensava a una onorevole sconfitta. E, ripeto, Bersani non ha vinto queste elezioni”. “Non si può certo dire che si deve tornare al voto – sostiene inoltre l’ex ministro. – Mi pare evidente la sconfitta dei professori perchè troppo lontani dalla gente. Ma ora occorre mettere mano subito alle riforme; elettorale, della costituzione ed economiche vedere chi ci sta”.

Ore 8.50 – Berlusconi: “Bisogna vedere su quali programmi possano confluire le forze politiche” – “E’ presto per decidere che cosa fare, bisogna riflettere per il bene dell’Italia. Il Paese non può non essere governato, bisogna vedere su quali programmi possano confluire le forze politiche”, ha detto Berlusconi su Canale 5.

Ore 8.48 – Berlusconi a La Telefonata: “Lo spread è un’invenzione” – ”Abbiamo vissuto felicemente per anni senza preoccuparci dello spread, che è una invenzione di due anni fa. Lasciamolo stare. Va bene calcolare gli interessi che il Tesoro paga, ma non confrontiamoci sempre comunque con la Germania. Non ha importanza. Ne abbiamo fatto sempre a meno. Continuiamo a farlo. Non esiste”, conclude il leader del Pdl.

Ore 4.29 – Bersani vince per 124mila voti. Nel 2006 Prodi con 24mila – Nel 2006 Prodi vinse per 24mila voti. Nel 2013 Bersani ha vinto alla Camera per 124.407 voti. Il risultato definitivo vede la coalizione di centrosinistra ottenere 10.047.507 voti contro i 9.923.100 voti della coalizione di centrodestra. I dati sono definitivi. Nel 2008 il Pdl ottenne da solo 13,6 milioni di voti.

Ore 3.23 – Movimento 5 stelle è il primo partito – Il Movimento 5 Stelle, non presente alle elezioni politiche del 2008, e’ il primo partito d’Italia con il 25,5% dei voti alla Camera. Chi ha perso voti per strada? Il Pdl ha subito un’emorragia, passando dal 37,4% del 2008 al 21,5%. La Lega ha dimezzato i voti passando dall’8,3% al 4%. Il Pd perde in 5 anni l’8% passando dal 33,2% al 25,4%. Male anche l’Udc che passa dal 5,6 all’1,8%. In caduta libera anche l’Idv che nel 2008 ottenne il 4,4% dei voti. Nel 2013 Rivoluzione civile si ferma al 2,2%. Scelta civica di Monti alla sua prima corsa ottiene l’8,3%.

Ore 3.15 – Oltre un milione e 250mila di schede bianche o nulle – Come sempre il “partito” dell’astensione con oltre un milione e 250mila di schede bianche o nulle per l’elezione alla Camera. Nel dettaglio, stando ai dati forniti dal ministero dell’Interno, 395.286 le schede bianche, pari all’1,12% dei votanti, e 871.780 quelle nulle, pari al 2,47%. Le schede contestate e non assegnate sono state 1951. Per il Senato, invece, le schede bianche sono state 369.301, pari all’1,16%, e le nulle invece 762.534, pari al 2,40%. Le schede contestate e non assegnate sono state 1970.

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fonte ilfattoquotidiano.it

Elezioni, Borsa in picchiata dopo il voto. Lo spread si impenna verso quota 350

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Elezioni, Borsa in picchiata dopo il voto
Lo spread si impenna verso quota 350

Camera al Pd, Senato senza maggioranza: Italia ingovernabile. Tracollo dei mercati. Asta Bot, tassi in rialzo. La Consob studia mosse anti-speculazione

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ROMA – Crolla la Borsa e vola lo spread. La risposta dei mercati a un voto inconcludente, con un Senato privo di maggioranza, non si è fatta attendere e, come temuto, è stata una risposta molto violenta. Piazza Affari a metà mattina affonda del 4,8% non lontana dal -5% battuto a ridosso delle prime contrattazioni. Un avvio drammatico, con l’indice che in apertura ha contenuto il calo all’1,57% solo perchéè la pressione in vendita ha impedito a molti titoli di concludere anche un solo scambio per alcuni minuti mentre altre azioni venivano congelate in asta di volatilità.

Spread in volo. Intanto sul mercato secondario dei titoli di Stato lo spread tra Btp e Bund, che ieri aveva chiuso a quota 293, volava fino a quasi 350 punti base, con un rendimento a un passo del 5%, per poi attestarsi attorno ai 330 punti, il massimo da quasi tre mesi a questa parte.

Asta Bot. Immediato il costo per il Tesoro che, per collocare 8,75 miliardi di bot a 6 mesi, ha dovuto corrispondere tassi in rialzo all’1,23% rispetto allo 0,73% di gennaio.

Si muove la Consob. In questa situazione la Consob ha fatto sapere di studiare l’adozione di misure anti-speculazione a Piazza Affari. E a fine mattinata è arrivato così il divieto di vendite allo scoperto per i titoli Intesa Sanpaolo.

I timori all’estero. I timori di ingovernabilità dell’Italia, con uno scenario politico post-elettorale ancora tutto da decifrare, avevano già avuto ripercussioni prima a Wall Street (-1,85% l’S&P 500 ieri sera) e poi questa mattina in Asia (Tokyo -2,26% e Hong Kong -1,32%). I mercati hanno paura che un Paese con 2 mila miliardi di debito possa smarrire la strada delle riforme e dell’attenzione alla sostenibilità dei conti garantita da Mario Monti, riportando in primo piano il tema del debito dell’eurozona. Non a caso l’euro ha perso terreno su tutte le altre valute, quotando sotto 1,3 sul dollaro, mentre Piazza Affari ha trascinato in profondo rosso tutti i listini europei. La Spagna, che insieme all’Italia è il più vulnerabile dei Paesi dell’Eurozona, ne ha risentito maggiormente, con la Borsa di Madrid in calo del 3,1% e lo spread tra i bund e bonos, i titoli decennali spagnoli, in rialzo di 18 punti.

Il tracollo dei mercati. Mercati. Il tracollo delle Borse, in ogni caso, è generalizzato, con Parigi che cede il 2,3%, Francoforte l’1,9% e Londra l’1,3%. A Piazza Affari i più colpiti sono stati i titoli bancari, penalizzati dallo spread, con ribassi anche superiori al 10% e sospensioni a raffica. Intesa sospesa (-10,4% il ribasso teorico), Unicredit affonda dell’8,3%, Mediobanca del 7,4% ma il bagno di sangue non ha risparmiato nessuno, dalle Generali (-6,15%) all’Enel (-5,21%), da Mediaset (-5,58%) alla Fiat (-4,2%), da Telecom (-6,41%) a Finmeccanica (-5,11%). Il tutto mentre sui mercati scendeva, in linea con i titoli di Stato, anche il valore del debito delle aziende italiane e balzavano i credit default swap, cioè le assicurazioni sull’insolvenza, sull’Italia e le altre aziende. Unanime il giudizio negativo sull’esito elettorale da parte degli analisti delle grandi banche d’affari, che pronosticano una fase di grande instabilità sui mercati e un rialzo dello spread e sintetizzato nel titolo di un report di Mediobanca che è anche un monito: «La commedia italiana si trasforma in tragedia greca».

Martedì 26 Febbraio 2013 – 08:34
Ultimo aggiornamento: 13:18
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Lavoro, nei primi nove mesi del 2012 oltre mezzo milione di licenziamenti

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Lavoro, nei primi nove mesi del 2012 oltre mezzo milione di licenziamenti

Gli effetti della crisi continuano a farsi sentire sull’occupazione: da gennaio a settembre dello scorso anno si sono registrati 640mila licenziamenti. Un aumento dell’11% rispetto allo stesso periodo del 2011. Confermata la tendenza ad assumere con contratti non stabili

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Mentre l’Italia è con il fiato sospeso in attesa dell’esito elettorale, dal ministero del Lavoro emergono dati tutt’altro che incoraggianti. Nei primi nove mesi del 2012 si sono registrati 640mila licenziamenti con un aumento dell’11% sullo stesso periodo del 2011. Secondo il ministero, tra gennaio e settembre sono stati attivati 7,9 milioni di contratti a fronte di 7 milioni di rapporti di lavoro cessati. Un dato – quest’ultimo – apparentemente positivo, ma dovuto essenzialmente alla diverse caratteristiche dei contratti.

Nel terzo trimestre, in particolare, la tendenza ad assumere con contratti non stabili è stata evidente. Su 2.462.314 rapporti di lavoro attivati nel periodo solo 430.912 risultano a tempo indeterminato (appena il 17,5% del totale). Risultano invece a tempo determinato 1.652.765 rapporti di lavoro attivati (il 67,1% del totale) mentre i contratti di apprendistato sono stati 61.868, i contratti di collaborazione 156.845 e gli “altri” 159.924. I contratti di collaborazione sono diminuiti drasticamente: il calo percentuale rispetto rispetto al terzo trimestre 2011 è stato del 22,5%, mentre il calo dei contratti “altri” è stato del 24,3%. Diminuiscono del 5,7% i contratti a tempo indeterminato, dell’1,9% quelli a termine e del 13,7% i contratti di apprendistato.

Per quanto riguarda le cessazioni dei rapporti di lavoro lo studio del ministero distingue tra quelle a richiesta del lavoratore (dimissioni o pensionamento), quelle promosse dal datore di lavoro (cessazione dell’attività, licenziamento o altro), cessazione al termine o altre cause. I 640mila licenziamenti registrati nel periodo riguardano sia quelli individuali (per giustificato motivo oggettivo, soggettivo, giusta causa) che quelli collettivi. Solo nel terzo trimestre 2012 i licenziamenti sono stati 225.868 con un aumento dell’8,7% sullo stesso periodo del 2011. Le dimissioni, invece, sono diminuite a 1,1 milioni rispetto ai 1,22 milioni del 2011 (-8,7%).

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fonte ilfattoquotidiano.it

Italia ingovernabile: il trionfo è di Grillo, la Camera al centrosinistra, ma al Senato è caos

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Italia ingovernabile: il trionfo è di Grillo, la Camera al centrosinistra, ma al Senato è caos

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di Vittorio De Benedictis

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Roma – È stato un terremoto. Che sbriciola il bipolarismo degli ultimi vent’anni, i poli sono ormai quattro, e restituisce agli elettori l’ingovernabilità del Paese. Le elezioni 2013 sbattono una pesante porta in faccia ai partiti tradizionali e alla loro politiche. E vero che il centrosinistra ha vinto alla Camera e al Senato, per una manciata di voti sul centrodestra tanto che Angelino Alfano, segretario Pdl, chiede al ministero di «non ufficializzare i dati e di proclamare «una sostanziale parità». Ricevendo dal Pd una risposta secca: «Abbiamo più voti, il Pdl non esasperi il clima». Ma il vero trionfatore è un altro (e due gli sconfitti, Bersani e Monti).

Chi fa la storia di queste consultazioni è il movimento di Beppe Grillo: diventa il primo partito alla Camera, superando sul filo di lana il Pd: 25,5% e 8 milioni 686 mila voti contro 8 milioni 641 mila dei Democratici. È secondo anche al Senato, sempre alle costole del Pd. Agli annali passerà anche la rimonta di Silvio Berlusconi che si attesta sul 29%. Il Cavaliere riesce nell’obiettivo di pareggiare al Senato (117 seggi contro i 119 del centrosinistra). Bersani e Sel guadagnano 280 mila voti in più: 31,6 contro il 30,7%), ma che tuttavia non gli consentirà di governare. Monti è al 9,1% (18 seggi), Grillo al 23,8% e 54 senatori.

Testa a testa. Anche alla Camera il Cavaliere, in coalizione con la Lega – che resta ancorata al 4,1%, mentre cinque anni fa aveva raccolto l’8,3%, – e i Fratelli d’Italia di La Russa e Meloni (2%, entra alla Camera), se l’è giocata spalla a spalla con Bersani e Vendola: alla fine c’è solo mezzo punto di distanza e soltanto 100 mila voti tra i due schieramenti, a favore del centrosinistra: 29,5% rispetto al 29.1%. Poco davvero.

Il Cavaliere tiene dunque il suo zoccolo duro ma perde una valanga di voti rispetto al 2008: aveva il 38,2%, ora si attesta sul 21,4%. Un 17% di suffragi che hanno preso altre strade. Quei voti non sono stati comunque intercettati dal Centro di Monti (se non in minima percentuale) e neppure dai Democratici. Un po’ si sono dispersi nell’astensionismo e il resto ha ingrossato il copioso raccolto del M5S.

Bersani. Il leader Pd perde persino nella sua Bettola (e a Siena prende una brutta botta scontando lo scandalo Mps), mentre già pregustava la leadership e Palazzo Chigi. Pd e Sel portano comunque a casa un risicato successo alla Camera (29,9% contro il 29 del centrodestra) che gli consente di avere la maggioranza a Montecitorio acchiappando il premio di maggioranza del 55% e quindi i 340 seggi.

Fuori dal Parlamento finisce per la seconda volta consecutiva la sinistra radicale: Rivoluzione civile alla Camera raccoglie solo il 2,3%: se si pensa che era sostenuto da quel che restava di Idv e di Rc, è una debacle. Non entrano neppure i partiti di Gianfranco Fini, Fli (0,5%) e Fare-Fermare il declino di Giannino che si ferma all’1,1%. Ma il giornalista, finito nel mirino del Pdl, si prende la rivincita: «Con i nostri voti abbiamo fatto perdere Berlusconi».

L’ altro sconfitto è il premier Mario Monti che galleggia intorno all’8,3% (più 1,8% Udc), in totale la coalizione ottiene il 10,6%: quota ben distante dal risultato minimo del 15% che si era prefisso e che lo rende ininfluente. Il premier si dice «soddisfatto» ma è la sua è una sberla, inutile girarci intorno.

Ingovernabilità. È un quadro che consegna un Senato ingovernabile: per mettere su un esecutivo ce ne vogliono almeno 158: il pareggio tra Pd e Pdl non potrà contare sull’aiuto dei 18 seggi di Monti (non bastano) e i 54 del M5S.

Il Pdl vince in Campania, Veneto, Puglia, Sicilia, Lombardia, Calabria, Abruzzo ma ha perso al fotofinish il Piemonte. Adesso l’attenzione si sposta sulle regionali: nel Lazio e nel Molise ci si attende la vittoria del Pd, in Lombardia gli exit poll danno in vantaggio il leghista Maroni su Ambrosoli. Ma chi si fida più agli exit poll che hanno sbagliato di brutto le previsioni? Hanno insistito su una larga vittoria del centrosinistra alla Camera e più ampia al Senato che alla prova del voto non si è verificata.

Affluenza. Il 75,1% è di cinque punti inferiore a quella del 2008: una flessione netta ma non uno smottamento. Secondo l’istituto Cattaneo, che si occupa di dinamiche elettorali, il dato sull’astensionismo «non sorprende e non allarma»: è vero che si è verificato un calo rispetto alle precedenti Politiche ma un notevole aumento in rapporto alle elezioni degli ultimi anni. Considerando i recenti scandali e la sfiducia generalizzata non è certo un dato eclatante, anche se mitigato da Beppe Grillo».

Pd penalizzato da Grillo. A parere dello stesso istituto il Movimento 5 Stelle ha risucchiato una parte consistente dell’elettorato Pd. Quando al partito democratico «ha mancato nella capacità di rinnovarsi, ha bruciato la carta Renzi senza capire che il 40% delle persone che lo avevano votato al secondo turno delle primarie erano molto critiche». E Monti? In Italia i partiti della «razionalità» non hanno fortuna, dal Partito d’Azione al Pri di La Malfa: gli italiani «votano molto con la pancia e poco con la testa».

Un terreo Pierferdinando Casini commenta sin dal primo pomeriggio il suo 1,8% (aveva il 5,8 % nel 2008) che gli consentirà di restare alla Camera solo in base al peggior risultato della sua coalizione: «Nella vita si vince e si perde. Sapevamo di dare il sangue per la coalizione». Gianfranco Fini è addirittura fuori dal Parlamento. E ora che accadrà? Centro di Monti e Pd, Pdl e montiani non vogliono un ritorno alle urne immediato.

Tutti si dichiarano per la governabilità. Già, ma quale? Quando Letta chiede «responsabilità», cosa intende? Un governissimo con Pdl e montiani? Vendola “chiama” Grillo. Peraltro il leader-garante di M5S, dalla casa-sede di Sant’Ilario a Genova, ne è convinto: «Ma sì, faranno l’inciucio. Ma si mettano il cuore in pace, noi andiamo avanti senza inciuci. Comunque ridare il governo al Cavaliere è un crimine contro la galassia». Poi: «È una fantastica avventura. Ma queste sono solo prove generali». Il Movimento 5 Stelle è il primo partito in molte regioni, persino nella rossa Liguria. Ma anche in Sicilia, in Sardegna, nelle Marche, nel Veneto è boom, in quattro province.

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fonte ilsecoloxix.it