Archivio | febbraio 8, 2010

Per il socialiamo, libertà per il Paese Basco (da Askapena x la settimana di solidarietà con HE 6-13 febbraio 2010)

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Per il socialiamo, libertà per il Paese Basco

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Nessun popolo del mondo può liberarsi da solo. È sempre stato necessario, in grandi o piccoli mezzi, l’appoggio, la voce, la complicità e la mobilitazione internazionalista di altre lotte e di altri popoli.

Lo stesso serve a Euskal Herria.

I nomi di baschi e baschi della sinistra indipendentista ingrossano, uniti ai lottatori di altri popoli, le liste nere degli indesiderati dell’impero. I governi spagnolo e francese non perdono nessuna opportunità per poter insultare pubblicamente le organizzazioni politiche e sociali basche che cercano una soluzione democratica al conflitto che loro stessi (i governi) alimentano.

Il collettivo di prigionieri e prigioniere politiche baschi allontanati di migliaia di chilometri dai loro villaggi, dalle loro famiglie e dalle loro amicizie, mai è stato tanto numeroso come negli ultimi cinquanta anni: 765 persone. Decine di organizzazioni politiche e sociali sono state illlegalizzate nel sud del nostro paese.

E ciò nonostante , non mancano le mani solidali di altre latitudini che aprono le loro case, che facilitano le visite delle famiglie ai militanti incarcerati, che si mobilitano per sollevare il manto di silenzio che i media di comunicazione impongono sopra la realtà che ci colpisce e che contemporaneamente costruiamo sono loro i veri amici e amiche del popolo basco.

Malgrado l’imperialismo, la ricostruzione di Euskal Herria è in movimento.

Sono ogni volta di più gli uomini e le donne che sognano e si risvegliano pensando ad un paese basco dove non esistano esplosioni di genere, della forza del lavoro, della madre terra. Un paese basco che possa vivere con la sua lingua, l’euskera, e che balli insieme anche a tutti i popoli che lottano per la sua libertà.

Questo processo di liberazione che stiamo sviluppando, deve necessariamente passare per una nuova fase che lo spinge: l’applicazione del diritto di autodeterminazione.

Questo è da sempre stato un obbiettivo fondamentale per la sinistra indipendentista basca, e pensiamo che la lotta degli ultimi anni ha avuto come conseguenza di porre le basi per una sua concretizzazione; per la risoluzione democratica della questione  che la dominazione spagnola e francese ha imposto a questo popolo, e così poter favorire, con questo esercizio di autodeterminazione, una euskal herria socialista.

È per tutto questo che facciamo una chiamata all’insieme degli amici e delle amiche del popolo basco di tutto il mondo, perché realizzino atti di solidarietà e specialmente difendono  il diritto di autodeterminazione che come popolo ci assiste durante la Settimana Internazionale di Solidarietà con il Popolo basco – dal 6 al 13 di Febbraio.

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Per il socialismo, Libertà per il popolo basco!

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Askapena , dicembre 2009

http://www.ehlitalia.com/appello-per-la-settimana-internazionale-di-solidarieta-con-euskal-herria

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Tutte le iniziative della settimana di solidarietà su http://www.ehlitalia.com

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fonte:  via-email

Il blog si aggiornerà tra due o tre giorni..

RESISTETE!

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L’università ritorna un lusso per pochi

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L’università ritorna un lusso per pochi

Crollano le iscrizioni tra i ragazzi usciti dalla maturità. Ma sono soprattutto i figli delle classi più deboli a rinunciare

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di Andrea Rossi

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TORINO
È stata una sbornia d’inizio millennio,
drogata dall’esplosione delle lauree brevi e dal proliferare degli atenei sotto casa. È durata poco. E adesso il mito delle «élite per merito» sembra destinato a restare tale. Altro che avvicinarci alla media Ocse per tasso di universitari e laureati; abbiamo ricominciato a distanziarci. E l’Università sta diventando affare per pochi. Sempre meno e sempre più ricchi. E l’alta formazione di massa? Si sta lentamente affievolendo, stritolata tra disillusione, crisi economica e tagli ai finanziamenti.

La tendenza sembra consolidarsi da qualche anno, quando – dopo il boom a cavallo del 2000 – le immatricolazioni hanno inesorabilmente cominciato a scendere. In cinque anni abbiamo perso 40 mila matricole: erano 324 mila del 2005; 286 mila a ottobre 2009. Il calo demografico, si dirà. E invece no. O, almeno, non solo. Cinque anni fa 56 ragazzi di 19 anni su cento (il 73 per cento dei diplomati) si iscrivevano all’università. Oggi siamo sprofondati in basso: all’ultimo anno accademico si sono iscritti il 47 per cento dei ragazzi dei 19enni e nemmeno il 60 per cento di chi ha superato l’esame di maturità.

«La riforma del 3+2 ha prodotto un’ondata di entusiasmo. Qualcuno ha creduto che l’Università, diventando più corta, fosse diventata più facile», spiega Daniele Checchi, docente di Economia politica alla Statale di Milano. Quando si è capito che così non era la corsa agli atenei si è arrestata, ma a farne le spese non sono stati tutti: nel 2000 un neoiscritto su cinque era figlio di persone con al massimo la quinta elementare; nel 2005 la percentuale è scesa al 15 per cento. Poi ancora giù, quasi un punto all’anno: 14 per cento nel 2006, 13 nel 2007. Ora siamo al 12. Di anno in anno le matricole scendono, portandosi appresso i giovani delle classi sociali più deboli. Gli altri – quelli con genitori laureati – crescono poco alla volta. I figli della classe media – genitori diplomati – tengono botta. «Forse sono cambiate le aspettative sul valore dei titoli di studio», dice il professor Piero Cipollone. Per anni, in Banca d’Italia, ha studiato i costi del sistema formativo, oggi presiede l’Istituto per la valutazione del sistema dell’istruzione e dice che «la laurea non offre più un consistente valore aggiunto: un laureato spesso guadagna poco più di un diplomato, a volte addirittura meno. Non mi meraviglia la fuga dei figli delle classi sociali meno abbienti: l’università oggi è un costo, ma non sempre il risultato vale l’investimento».

La crisi economica dell’ultimo anno e mezzo ha pesato, e non poco. Molti hanno battuto in ritirata. Chi ha tenuto duro fa gli straordinari: l’80 per cento di chi ha alle spalle una famiglia a basso reddito prova a laurearsi lavorando, e una buona parte rientra sotto la voce «lavoratori-studenti». Otto ore al giorno cercano di guadagnarsi da vivere; nel tempo che rimane provano ad agguantare una laurea.

L’austerity imposta dal governo agli atenei ha fatto il resto. «Molte università hanno pensato bene di controbilanciare il taglio dei finanziamenti ministeriali aumentando le tasse d’iscrizione», racconta Diego Celli, presidente del Consiglio nazionale degli studenti universitari. Di questo passo – è il timore del professor Checchi, che da tempo si occupa delle disuguaglianze sociali nell’accesso all’istruzione – «il rischio è che il divario si allarghi ulteriormente, anche se sarei cauto nel dire che i figli delle classi medio-basse stanno fuggendo dagli atenei».

Vero. Ma le barriere restano, anzi, sembrano sempre più massicce, e non solo in ingresso. «Gli steccati non sono stati superati», ammette Checchi. «Negli ultimi vent’anni l’ingresso forse è diventato più democratico, ma l’esito finale no. Le probabilità di abbandono pendono fortemente dalla parte di chi ha redditi bassi». Studi recenti di vari istituti, tra cui la Banca d’Italia, sembrano dargli ragione. In Italia il 45 per cento degli universitari non arriva alla laurea. La presenza in famiglia di un genitore laureato, non solo aumenta la probabilità di iscrizione all’università di oltre il 15 per cento rispetto a genitori con la licenza di scuola media, ma riduce allo stesso modo per cento le probabilità di abbandono.

Forse è l’effetto di decenni trascorsi a galleggiare senza una vera politica di sostegno all’istruzione. «Gli enti per il diritto allo studio funzionano su base regionale – racconta Checchi – assegnano le idoneità ma poi le finanziano finché ci sono i soldi. È una farsa: le graduatorie ci sono, i soldi no. Così tanti che avrebbero diritto a un aiuto non ricevono nemmeno un euro». E così, addio università. Quasi 200 mila studenti l’anno ottengono una borsa di studio, ma tra gli aventi diritto uno su quattro resta senza. Solo otto regioni riescono a sostenere tutti quelli che hanno i requisiti. In altre non si supera il 50 per cento. «Per di più anche dove sono garantite per tutti, le borse non tengono conto del reale costo della vita», attacca Diego Celli.

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08 febbraio 2010

fonte:  http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scuola/grubrica.asp?ID_blog=60&ID_articolo=1279&ID_sezione=255&sezione=

L’Italia, il Pd e le rinsecchite radici dell’etica pubblica

https://i0.wp.com/files.splinder.com/164473b3553b0312cb87c62d31a3cf7a_medium.jpgVignetta tratta dal blog di TereZa

L’Italia, il Pd e le rinsecchite radici dell’etica pubblica

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di Clara Sereni

tutti gli articoli dell’autore

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Nel dibattito sulla giustizia affiora periodicamente un dato: la percentuale pro-capite di procedimenti civili, penali e amministrativi intentati in Italia è considerevolmente più alta di quella di tutti o quasi gli altri Paesi del mondo.

Siamo un popolo di litigiosi, si dice. Si dice anche che, figli degeneri della massima tradizione giuridica, non manchiamo occasione per cercare il pelo nell’uovo, e cucinarlo poi su un banco di tribunale. E peggioriamo viepiù. Anche assumendo come tara il peso delle carenze gravi di risorse umane e strumentali, il dato resta.

Un dato da inscrivere direttamente nelle caratteristiche nazionali, come pizza e mandolino? Dipende, come dice qualcuno, dal fatto che abbiamo troppe leggi, la maggior parte delle quali cattive?
Senza negare che molti accorpamenti e snellimenti si potrebbero fare, penso che di leggi buone ne abbiamo diverse, a cominciare dalla Costituzione ma non fermandoci a quella. Il problema è, caso mai, che i diritti sanciti da molte di quelle leggi (le più avanzate, in genere) non sono quasi mai, nella sostanza, esigibili.

In Italia l’etica pubblica non ha mai avuto radici profonde, e quelle che c’erano si sono parecchio rinsecchite. Mentre è stato possibile che negli Usa Clinton venisse messo sotto accusa non a causa di una relazione extra-coniugale, ma perché aveva mentito, da noi il mentitore viene vissuto come un “dritto”, uno che ha capito come va il mondo. Ancora: gli Usa fondano sostanzialmente sul capitalismo le proprie basi, e qualunque forma di statalismo l’hanno sempre vista come il fumo negli occhi. Eppure, il fatto che la tassazione sia un pilastro dello Stato nessuno si è mai sognato di metterlo in discussione. Con risultati anche interessanti: Al Capone, che l’Fbi non era riuscito a incastrare per nessuno dei suoi molteplici misfatti, finì comunque in carcere per evasione fiscale.
Non che io sia stata colta da un improvviso e acritico amore per gli Stati Uniti. È che mi guardo attorno, e mi piacerebbe vedere un panorama un po’ diverso da quello che, qui, ci assedia ogni giorno.

Andando per capi più che sommi. Il sindacato è in difficoltà, ed è finita l’epoca dei partiti di massa: partiti e sindacato come corpi intermedi fra i diritti e il potere del singolo da una parte, e dall’altra un potere più forte. C’è una caduta generalizzata di ogni senso della collettività e del bene comune, e l’individualismo (straccione) trionfa. Ecco: in un tempo così, in un panorama come questo, per esigere i diritti negati va a finire che si fa inevitabilmente strada in molti la speranza che almeno «ci sia un giudice a Berlino». Da Mani Pulite in poi, viene attribuita alla magistratura la «colpa» di essersi sostituita alla politica: certamente una parte del ceto politico (piccola, a far bene i conti) è stata spazzata via in quella stagione, ma ciò è avvenuto perché il percorso della politica vera, capace di progetto ed egemonia culturale in senso progressivo, latitava da tempo. Da lì in poi, la situazione è andata via via peggiorando, benché gli italiani dimostrino ancora, miracolosamente, la capacità di resistere e indignarsi. Andando perfino a votare alle primarie.

Insomma, sono convinta che l’intasamento dei tribunali sia, in misura non irrilevante, frutto tremendo della mancanza di politica, laddove con questa parola si intenda la capacità di condividere, capire, governare e guidare i processi e i cambiamenti che attraversano la società.
Ma a questi non pochi guai si aggiunge ora un fatto nuovo, che riguarda direttamente il Pd. La guerra sanguinosa per la presidenza delle Regioni si combatte, come non bastasse tutto il resto, anche a colpi di ricorsi ai Garanti. È successo o sta succedendo in Puglia, dove peraltro si vedono almeno barlumi di opzioni politico-programmatiche diverse. E già successo – e non è detto che sia finita – nella mia piccola Umbria, alla periferia dell’impero, dove tutto accade, non da ora, all’interno di quello che fu Pci, Pds, Ds e ora Pd. Tutto in casa.

Gli scontri politici sono, sempre e per definizione, scontri di poteri. Ma se anche i dirigenti del Pd pensano che l’unico percorso possibile sia quello che passa «per Berlino», allora significa che la politica è davvero finita, e che gli scontri sono solo scontri per il potere: chi vince la partita, ci guadagna e si porta via un bel jack-pot.

Altro che alla frutta, siamo ben oltre il caffè e l’ammazza-caffè. Perché qualcosa ne viene in tasca anche a noi, i tanti noi che siamo fuori dalle segrete e sempre più asfittiche stanze dei bottoni: più impotenza, più solitudine, più disperanza.

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08 febbraio 2010
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LAVORO – Così i call center rischiano il crac

8/2/2010 (7:37) – INCHIESTA

Così i call center rischiano il crac

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Incentivi in scadenza, migliaia di posti in bilico. La Cgil: «E’ una bomba che sta per scoppiare»

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di FABIO POZZO
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TORINO
Phonemedia, Omnia Network.
Sono i campi di battaglia, le trincee che si sgretolano di un modello di lavoro, quello dei call center, che da simbolo dell’esasperazione dello sfruttamento, unico sbocco per disoccupati e «bamboccioni» in fuga forzata dalla famiglia, aveva anche saputo alzare la testa e cercare di diventare «lavoro vero». Sotto i colpi della crisi, dei cambi di proprietà, degli appalti al ribasso spinto, ora queste due aziende si sono dissolte, lasciando a terra oltre 10 mila persone. A Trino Vercellese, Novara, Ivrea. A Palermo, Catanzaro, Bari, Napoli, Milano, Cagliari. Stipendi non pagati da mesi, sedi chiuse per sfratto, dipendenti nell’assurda situazione di non potersi nemmeno licenziare, perché la mancata retribuzione non è ritenuta dall’impresa ipotesi di «giusta causa». Oppure, perché non possono mostrare a un giudice il cedolino dello stipendio.
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Sono in atto vertenze in tutt’Italia. Proteste, occupazioni, manifestazioni. Per Phonemedia i sindacati hanno presentato istanza d’insolvenza al tribunale di Novara, e richiesta di commissariamento. Per Omnia Network, a Milano, c’è un’istanza di fallimento avanzata da alcuni creditori. Le due aziende hanno richiesto, nelle ultime ore, la cassa integrazione. In deroga, a rotazione. Ma i sindacati non ci stanno. «Siamo arrivati a un punto di non ritorno per i call center», dice Emilio Miceli, segretario generale di Slc-Cgil. «O si punta a trasformarlo davvero in un’industria, oppure si precipita nell’abisso». Perché Phonemedia e Omnia Network sono soltanto i casi più macroscopici. Nell’ombra, navigano gli altri. «Cooperative non riconosciute, sottoscala dove si continua a sottopagare gli operatori, se va bene con contratti a progetto. Ma in alcuni casi non li pagano proprio. Anzi, addirittura li derubano: non versano i contributi all’Inps, non effettuano i versamenti per l’assistenza sanitaria, s’impossessano del quinto dello stipendio» dice Renato Rabellino, segretario di Slc-Cgil Piemonte.
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Una giungla. Che travolge tutto e tutti, anche quelle aziende – perché ci sono anche queste – virtuose. Che assumono con contratti regolari, che offrono servizi di alto livello. Che hanno per committenti multinazionali, grandi aziende, banche. Su cinquanta-sessanta marchi presenti sul mercato italiano, per un totale di almeno 50 mila addetti calcolano i sindacati, quelli virtuosi sono una quindicina. Tra questi, un leader da 180 milioni di fatturato, due o tre gruppi da 50 milioni, altrettanti sui 30 milioni, poi i più piccoli, destinati a uscire da un mercato sempre più difficile. «Abbiamo tre ordini di problemi da risolvere» dice ancora Miceli. «C’è quello dei riders, gli imprenditori che si sono gettati nel business in tempi più floridi, mettendo su call center per guadagnare in tempi brevi e a scopi speculativi. Non hanno puntato sulla qualità, e al momento della contrazione del mercato sono saltati. Non prima di aver rastrellato tutto il denaro possibile ed essersi lasciati dietro le spalle migliaia di posti di lavoro in dissoluzione».
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Poi, c’è la crisi del settore. «Cala la domanda, calano gli ordini, cala il valore delle commesse». Gli appalti sono tirati al ribasso, le grandi concessionarie spingono i fornitori a puntare sull’estero, a delocalizzare per abbassare i costi. «Su questo fronte è meno peggio che in altri comparti, perché l’italiano non è parlato ovunque, ed è ancora un valore aggiunto» spiega Miceli. «Sì, però anche i gruppi italiani, come ad esempio Telecom, dovrebbero rifiutarsi di veder finire i call center in Tunisia», denuncia Rabellino.
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Infine, la questione della stabilizzazione dei posti di lavoro. Nel 2006 la «circolare Damiano» ha stabilito anche per le Tlc, anche per i call center (inbound), il divieto dei contratti a progetto. Lo Stato ha introdotto incentivi, sgravi contributivi per le aziende che trasformavano queste posizioni in contratti a tempo indeterminato. Sgravi pieni al Sud. Si spiega così perché sono sorti come funghi call center nel Mezzogiorno. «Abbiamo stabilizzato 25 mila posizioni», dice Miceli. Ma adesso la festa è finita. «Gli incentivi sono in scadenza». Che succederà, se non saranno prorogati, a Catanzaro, Bari, Cagliari, Palermo? «Ci sono città che sono bombe sociali pronte a scoppiare. E non solo nel Sud. A Ivrea, ad esempio, che rischia di diventare una Sheffield» avverte Miceli.
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Ecco il punto di non ritorno. Il bivio. I sindacati hanno convinto il governo ad aprire un «tavolo dei call center». Il 12 febbraio, la prima riunione presso il ministero dello Sviluppo economico. Il 22 la seconda. «Chiediamo una proroga degli sgravi contribuitivi», dice Miceli. I riders finirebbero espulsi dal mercato, le aziende virtuose avrebbero interesse a farsi carico dei «cocci» lasciati da questi ultimi, altri lavoratori senza futuro potrebbero, per la prima volta, ambire ad un contratto serio. A un lavoro vero.
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CRISI – Spagna, Zapatero sotto tiro: Bruciati 4 mila posti di lavoro al giorno

L’economia spagnola è l’unica in Europa che non è tornata a crescere nel 2010
Dal governo fiumi di soldi per opere pubbliche e banche, ma con scarsi risultati

Spagna, Zapatero sotto tiro
bruciati 4 mila posti al giorno

Colpiti i settori trainanti del miracolo: turismo e edilizia. Invendute 500mila case

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dall’inviato di Repubblica GUIDO RAMPOLDI

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Spagna, Zapatero sotto tiro bruciati 4 mila posti al giorno
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MADRID – In principio fu la Spagna di Aznar, l’Impero che risorge, la Reconquista (dell’America Latina), la Conquista (dell’Iraq), il Sorpasso in corso (sull’Italia), un’economia al galoppo e una classe dirigente così consapevole del proprio slancio che pareva quasi mettersi in posa, come i Grandi di Spagna, e i nani di corte, nei quadri del Velazquez. Caduto Aznar subentrò la Spagna di Zapatero, civica, solidale e non più imperiale, anzi fucina di imprecisate “Alleanze tra Civiltà”, ma sempre due spanne più alta dell’Italia, superata nel prodotto pro-capite del 2008.
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Però oggi l’esito di due epoche da primato pare la esse di PIGS, acronimo un po’ razzista inventato dagli analisti anglosassoni per raggruppare quelle economie troppo indebitate che starebbero insozzando l’euro con i loro maialeschi deficit (PIGS, in inglese “porcelli”, sta per le iniziali di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna). Ed è questo che oggi risulta intollerabile agli spagnoli. Non tanto lo scoprirsi fragili dove prima si credevano granitici. Quanto il tornare indietro di vent’anni, di nuovo intruppati in quell’Europa minore che pensavano di aver lasciato per sempre, insieme alle sue povertà e ai suoi affanni.
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La retrocessione è così inattesa, così traumatica, così inaccettabile, che la settimana scorsa, quando Bruxelles ha osato appaiare Spagna e Grecia, il presidente del Banco Santander, Botin, si è fatto interprete del risentimento nazionale ed è sbottato: ohè, stiamo scherzando?, noi siamo “il Real Madrid”, i greci l’Alcoyano, una squadretta di serie B. Non solo nessuno gli ha fatto notare che tanta autostima forse è concausa dei guai spagnoli, ma la classe politica ha fatto proprio quel paragone grossolano; e l’ex ministro dell’Economia Josè Luis Leal è tornato in argomento per sostenere che il metro di paragone dev’essere la Gran Bretagna, anche lei malmessa ma in serie A, non certo la Grecia.

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Altra stampa stizzita invece si domanda perché gli economisti abbiano sfilato l’Italia dai PIGS, in effetti chiamati PIIGS ancora sei mesi fa, quando la nostra ‘I’ appariva nel gruppo. E non riesce ad accettare che il deficit italiano, per quanto straripante dai limiti di Maastricht, sia in percentuale la metà dello spagnolo. In pochi giorni siamo diventati un enigma fastidioso. Da anni la Spagna leggeva nel nostro declino la misura del suo successo. Fosse di destra o di sinistra, considerava Berlusconi l’autobiografia di una nazione. Ora fatica a capire come quel Paese bizzarro, l’Italia, possa permettersi il contro – sorpasso. Dov’è il trucco, com’è possibile? Converrà attendere la fine della corsa, però gli analisti che sfiorano in anticipo la questione convengono che l’Italia ha un tessuto industriale più solido e più diversificato. Inoltre i sistemi caotici sopportano meglio le situazioni di stress. In tempi normali la Spagna è avvantaggiata da un governo con poteri effettivi e uno Stato solerte esecutore. Ma in tempi di crisi quel sistema verticale può risultare rigido, perfino dannoso se il governo sbaglia.
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E non v’è dubbio che nell’affrontare la crisi Zapatero abbia sbagliato, e sbagliato parecchio. A giudicare dall’ira dei giornali e dal rabbioso sconforto di molti suoi compagni di partito, nulla gli sarà perdonato. A meno che non gli riescano miracoli, sarà il capro espiatorio di una crisi vissuta dalla classe dirigente spagnola come un’umiliazione nazionale, una sconfitta storica, un oltraggio collettivo. I media della destra lo azzannano con una voluttà tetra. La sua popolarità è in declino. Nei sondaggi il Partido popular ora sopravanza di 6 punti il suo partito socialista, dove per la prima volta ci si chiede ad alta voce se non convenga affidarsi ad un nuovo leader per tentare di vincere le elezioni del 2012.
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Eppure è anche responsabilità della destra se l’economia spagnola è congegnata, dai tempi dai Aznar, nella forma che le è stata fatale. Il suo punto di forza: il turismo di massa, nel quale è seconda al mondo. Ma in un periodo di crisi mondiale il turismo di grandi numeri si assottiglia. Tanto più se proviene in parte rilevante dalla Gran Bretagna, e perciò è stato impoverito dalla debolezza della sterlina. L’altro pilastro: l’edilizia.
Società di costruzioni tra le prime dieci nel mondo. E lo sciame di piccole imprese che ha trasformato la costa in una linea ininterrotta seconde case per spagnoli e stranieri. Però un settore già maturo nel 2007, quando lo tramortisce definitivamente la crisi finanziaria mondiale.
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Qui Zapatero commette il primo errore: applica una teoria giusta in modo pessimo. Cerca di uscire dalla crisi con una soluzione keynesiana. Finanzia miriadi di opere pubbliche, e così permette alle imprese di costruzioni di tirare avanti. Ma è mera sopravvivenza. Tutto quel costruire aiuole, abbellire strade e inventare parchi, che oggi fa di Madrid una delle città più curate al mondo, non produce ricchezza né in prospettiva lavoro.
Zapatero usa un secondo strumento keynesiano. In modo tardivo ma generoso, finanzia le banche affinché quelle a loro volta finanzino le imprese. Ma i banchieri devono ripianare le voragini prodotte da crediti inevasi e si affezionano al denaro su cui sono seduti. Lo ricevono praticamente gratis. Può rendere molto se investito con astuzia; pochissimo, se prestato agli imprenditori. Questi ultimi si sentiranno ripetere: ci dispiace, non date garanzie sufficienti.
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Le elezioni del 2008 provocano un ulteriore danno economico alla Spagna. Il Psoe perde la maggioranza assoluta ed il governo è costretto a negoziare di volta in volta l’appoggio dei partitini regionali, i quali pretendono in contropartita copiosi investimenti pubblici. A rilevanti successi politici, come la coalizione anti-terrorista tra socialisti e nazionalismo basco moderato, corrispondono rilevanti esborsi.
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Fin qui, errori ma anche sfortuna. Poi, l’imperdonabile. Zapatero nasconde la crisi. Per il governo resta a lungo parola impronunciabile. Si deve dire: “Decelerazione”. E il segretario del Partido popular, che nella campagna elettorale del 2008 chiama le cose con il loro nome, viene accusato dai socialisti di disfattismo anti-patriottico. Nell’autunno scorso, quando non è più possibile negare che il Paese è in piena recessione, Zapatero annuncia che l’economia spagnola è nella stessa condizione delle economie dell’Europa maggiore, e con quelle sta per tornare in attivo. L’uscita dalla crisi è “imminente”, ripete in dicembre.
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Pochi giorni dopo la verità lo travolge con l’uragano dei dati certificati dalla Banca centrale. La recessione più profonda da mezzo secolo (-3,6% su base annua nel 2009), e la più tenace del G20, dove la Spagna è l’unico Paese che non sia ancora tornato a crescere. La maggior caduta dei prezzi al consumo dal 1952.
Cinquecentomila case invendute. E soprattutto, la maggior distruzione di posti di lavoro che ricordino le statistiche nazionali (in dicembre ne sparivano quattromila al giorno, – 6.7% su base annua). Quel 19% di disoccupati, 40% tra i giovani, comportano un peso ormai intollerabile per le finanze pubbliche, e contribuiscono in parte rilevantissima ad un deficit che ha raggiunto l’11,7% del Pil. Nessun guru della finanza internazionale pronostica sventura; ma due tra i più ascoltati, Paul Krugman e Nouriel Roubini, ritengono che la Spagna, non la Grecia, oggi sia l’economia più pericolante dell’Eurozona.
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Perché Zapatero ha taciuto? Nel processo al premier che comincia a spaccare il Psoe (“tornato a dividersi”, ammette l’unico quotidiano zapaterista, Publico), si confrontano due tesi. La difesa vuole che Zapatero abbia cercato di evitare alla Spagna la terapia “di destra” – tagliare, tagliare, tagliare – che Bruxelles infligge automaticamente alle economie con la polmonite. Invece l’accusa lo vede prigioniero dei suoi limiti. E’ un seduttore di folle terrorizzato dall’impopolarità. Ha garbo e un’eleganza naturale; gli manca la consistenza dello statista, cui mai come ora sarebbe chiaro che governare vuol dire scontentare. L’ha paralizzato la paura di uno sciopero generale. Sarebbe suonato come una mozione di sfiducia presentata da un largo settore del suo elettorato (nel 2008 votò Psoe il 59% degli spagnoli che si dichiarano di estrema sinistra). Ma più devastante è stata la mozione di sfiducia che in questi giorni gli hanno presentato i mercati finanziari. Ora deve convincere gli uni che non si arrenderà alle frustate delle Borse, gli altri che non cederà alle proteste dei sindacati. Acrobazia complicata, come dimostra la condotta erratica del governo nelle ultime giornate, con misure annunciate a Bruxelles e smentite a Madrid poche ore dopo.
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Una teoria cospirativa echeggiata da le Monde attribuisce alle Borse una sorta di intelligenza politica. Sospinte da ispiratori occulti, starebbero caricando Spagna e Grecia come mandrie di bufali per travolgere l’ultima ridotta della socialdemocrazia europea. Geometrie così lineari non corrispondono alla realtà.
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Però è chiaro che i percorsi che conducono fuori dalla crisi stanno determinando nuove forme di organizzazione sociale e produttiva. Se stiamo alle dichiarazioni dei due premier, Grecia e Spagna ritengono che i loro guai non abbiano compromesso la possibilità di un’uscita “a sinistra”. Madrid ha già fatto qualche passo in quella direzione. Tra le ipotesi proposte a sindacati e industriali la settimana scorsa figura una sorta di scambio tra contratti a tempo, da penalizzare, e contratti part-time, da incentivare. Ma quando si tratterà di discutere la spesa pubblica, l’immaginazione avrà meno spazio. Ogni 18 spagnoli che lavorano, 8 sono pensionati, cioè gravano sulle casse dello Stato: come se ne esce? La settimana scorsa il governo ha proposto rimedi per limitare l’esodo verso la pensione (e per innalzare l’età di ingresso a 67 anni). Ma i sindacati hanno mostrato i muscoli.
Uno studio recente della London School of Economics spiega l’insuccesso delle riforme greche con il fatto che, di destra o di sinistra, erano mal congegnate. Scontavano i limiti culturali dei ministri e dei loro consiglieri tecnici.
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Se questo è vero, sono i risultati, non la corrispondenza con questa o quella politica, che dovrebbero guidare l’Europa nella ricerca delle soluzioni alla crisi. In questo caso potremmo scoprire che la tendenza generale a flessibilizzare il lavoro non sempre è utile. L’informazione greca, per esempio, è ultra-flessibile. Giornalisti assunti con contratti trimestrali. Basso costo del lavoro. Risultato: la Grecia è quasi priva di quell’asset nazionale che è un’informazione di qualità. E i suoi editori usano redazioni docili, in quanto ricattabili, come strumenti vili, per difendere i propri interessi o colpire gli interessi altrui. Se questo è il futuro, buona fortuna.
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08 febbraio 2010
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I professori in esubero? «Al lavoro nei musei»

Cultura – Fra le misure per il rilancio l’allungamento delle aperture serali

Il ministro Bondi: sì al servizio civile nell’arte

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ROMA — Impiegare nei musei italiani e nella valorizzazione del patrimonio artistico e ambientale gli insegnanti in esubero (ovviamente col loro accordo e d’intesa col ministero dell’Istruzione). Anticipare l’orario di apertura delle raccolte d’arte alle 8 del mattino per favorire turisti e scolaresche: studiare nello stesso tempo allungamenti serali, immaginare varie fasce di prezzi nei periodi dell’anno (a seconda dei flussi) e programmare eventi in cui l’ingresso sia gratuito. Eliminare le file estive utilizzando il pagamento con carte prepagate, dotate di un chip per la lettura a distanza con i varchi elettronici. Prevedere pre-pagamenti con ricevuta sul telefonino, sempre da far leggere agli ingressi telematici. Ricorrere alle nuove tecnologie per la protezione delle opere dai furti. Raggiungere accordi tra ministero dei Beni culturali e presidenza del Consiglio per realizzare un piano nazionale di servizio civile che metta a disposizione duemila giovani per musei, aree archeologiche, archivi. Accordarsi con la Conferenza dei Rettori per permettere ai neo-laureati di lavorare per 1-2 anni nelle Soprintendenze riconoscendo quel periodo come tirocinio formativo da usare come accesso alla pubblica amministrazione.

Questo è il pacchetto di proposte per il futuro dei Beni culturali firmato ieri dalla Uil-Beni culturali. Ma la prima novità, l’ipotesi che riguarda gli insegnanti, viene direttamente dal ministro Sandro Bondi che l’ha messa sul tappeto proprio commentando il materiale prodotto dalla Uil: «Vorrei discutere col ministro Gelmini la possibilità di impiegare gli insegnanti in esubero nei musei e nella valorizzazione del nostro patrimonio artistico e ambientale. Potrebbero essere utilizzati anche come dirigenti di strutture se non addirittura di musei». Un’idea, quella di Bondi, che nasce da una considerazione: il personale dei beni culturali scarseggia, alcuni insegnanti invece potranno essere più numerosi del necessario. Ieri la Uil Beni culturali, diretta da Gianfranco Cerasoli, ha tenuto il suo congresso ribaltando l’immagine di un sindacato conservatore, corporativo, chiuso agli apporti esterni. E il segretario ha avanzato le sue proposte tenendo conto del drammatico calo di presenze nei musei italiani che si è registrato nella prima parte del 2008. Una crisi che va affrontata. Lo sbigliettamento elettronico, dice Cerasoli, permetterebbe di «recuperare almeno 500 unità di personale ai servizi di vigilanza e accoglienza, eliminando le file». Circa gli orari «tutti gli indicatori sociali, inclusa una recente ricerca del Cnr, ci dicono che i giovani vedono nella cultura un’alternativa ai locali notturni. Ma bisogna aiutarli lasciando i musei aperti fino a tardi. In quanto ai prezzi, è tempo di differenziarli in base a periodi dell’anno, orari e cicli di affluenza fino a lasciare momento di gratuità per esempio tra novembre e marzo», cioè quando i flussi turistici sono più bassi.

Invece il Piano nazionale di servizio civile «permetterebbe l’impiego di almeno 2000 giovani nella tutela, valorizzazione e promozione dei beni culturali». Infine la possibile intesa con la Conferenza dei Rettori per l’uso, come supporto, di neo-laureati nelle Soprintendenze: «Un titolo da usare come tirocinio formativo per l’accesso alla pubblica amministrazione». Ieri Bondi è parso d’accordo su tutta la linea. Commentando il pacchetto, ha aggiunto la proposta sugli insegnanti. In quanto al resto: «Le proposte di Cerasoli mi paiono sensate, ragionevoli e meritevoli di essere accolte con un impegno comune già preso con la nomina di Mario Resca a direttore generale per la Valorizzazione». Le proposte sull’ampliamento degli orari e l’impiego di nuove tecnologie di sorveglianza e sicurezza «sono condivisibili, possiamo lavorare insieme per realizzarle». Il ministro è particolarmente d’accordo sulla rete di volontariato civile da parte dei giovani: «In ogni città potrebbero prendersi cura di un monumento, di un museo, di un sito archeologico non solo per tutelare un segno della propria identità locale ma anche per valorizzarlo». Critico, invece, il segretario della Cisl Beni culturali Claudio calcara: «Le proposte di Cerasoli sono le nostre del 2001 quando lui le rifiutò, bene arrivato tra noi. In quanto ai tirocini, agli stage, al servizio civile non vorrei che tutto questo si trasformasse in lavoro nero…»

Paolo Conti

fonte: http://www.corriere.it/cronache/10_febbraio_07/professori-esubero-musei_3bc08fbe-13c1-11df-8835-00144f02aabe.shtml