Archivio | febbraio 17, 2010

Tav, nuove tensioni in Val Susa: Un ferito grave, bloccata l’A32

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Manifestanti sulla Torino-Bardonecchia dopo gli scontri di oggi pomeriggio

Un uomo ricoverato all’ospedale Molinette di Torino: ematoma cerebrale

Tav, nuove tensioni in Val Susa
Un ferito grave, bloccata l’A32

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Tav, nuove tensioni in Val Susa Un ferito grave, bloccata l'A32https://i0.wp.com/www.lastampa.it/Torino/cmssezioni/primopiano/200709images/scontri01g.jpg
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TORINO – Ancora tensione, questa sera in Val Susa, per i sondaggi della Torino-Lione. Numerosi manifestanti, circa trecento, hanno assediato la trivella che dalla mattina stava scavando in località Coldimosso. Ci sono stati scontri tra i No Tav, tra cui un centinaio di antagonisti, e le forze dell’ordine, che hanno caricato.
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Negli scontri sono rimasti feriti due poliziotti e due manifestanti, un uomo e una donna. A preoccupare sono soprattutto le condizioni di Simone P., un giovane che nei tafferugli ha riportato un ematoma cerebrale post-traumatico. Dopo le prime cure all’ospedale di Susa, è stato trasferito in prognosi riservata alle Molinette di Torino.
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Meno grave, invece, l’altra manifestante ferita, una donna di Villarfocchiardo di circa 40 anni. I sanitari dell’ospedale di Susa, dove è stata ricoverata nel reparto di chirurgia, parlano di traumi multipli alla testa e al naso.
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Quelli di stasera sono stati i primi scontri di una certa gravità, tra forze dell’ordine e No Tav, da quando nel mese di gennaio sono iniziate le trivellazioni genognostiche propedeutiche alla realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione.
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La tensione è salita dopo le 19, quando i manifestanti hanno lasciato il loro presidio permanente di Susa per raggiungere il cantiere di sondaggio S72, in località Coldimosso, tra Susa e Bussoleno. I dimostranti hanno cercato di forzare lo sbarramento delle forze dell’ordine, poste a protezione della trivella, che li hanno dispersi con alcune cariche e il lancio di lacrimogeni a mano.
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La trivella ha così terminato in modo regolare lo scavo, mentre i No Tav si riunivano prima a Susa e poi a Chianocco, dove hanno bloccato l’autostrada A32 Torino-Bardonecchia, in direzione Torino, impedendo il passaggio ad alcuni mezzi delle forze dell’ordine.
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La protesta – interrotta solo per far passare l’ambulanza con a bordo il manifestante ferito – si è poi estesa alle statali 24 e 25, che ancora risultano bloccate dai manifestanti come l’autostrada. La Val Susa, di fatto, è isolata. E per domani mattina i manifestanti hanno indetto un presidio davanti alla Rai di via Verdi.
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17 febbraio 2010
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«Qualche idea per riformare la giustizia penale»

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«Qualche idea per riformare la giustizia penale»

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di Vittorio Borraccetti

tutti gli articoli dell’autore

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La crisi della giustizia penale in atto da molti anni presenta due aspetti. Da un lato, essa è crisi di funzionalità, efficacia, efficienza dell’intervento giudiziario e dipende in grandissima parte dalla cattiva politica legislativa e dal disinteresse, risalente negli anni, verso gli aspetti organizzativi. Dall’altro, è crisi di fiducia da parte dell’opinione pubblica nelle decisioni dei giudici, di credibilità dei magistrati nel rispondere alla domanda di giustizia.

Questa diminuita credibilità è conseguenza sia della carenza di efficienza, di cui i magistrati non sono i principali responsabili, sia dei comportamenti di alcuni magistrati, come talune decisioni sbagliate e non comprensibili o come gli episodi di scarcerazione di persone condannate dovuti a negligenza nella redazione tempestiva dei provvedimenti. Ma non si può negare che abbia avuto gran peso la campagna di delegittimazione e denigrazione ai danni dei magistrati che dura da decenni – raggiungendo negli ultimi anni una particolare violenza e intensità – e che ha la sua origine nella situazione conflittuale venutasi a creare con il sistema politico o, più esattamente, con una parte di esso.

Nonostante tutto ciò, nonostante le condizioni di grave difficoltà operativa degli uffici giudiziari e la diminuita credibilità, molti processi, importanti o meno, vengono quotidianamente portati a termine nelle aule di giustizia e numerosi sono stati in questi anni i risultati raggiunti, anche dal punto di vista giudiziario, nel contrasto alle forme più gravi di criminalità. Recentemente gli esponenti del governo hanno voluto evidenziare, rivendicandone il merito alla propria azione, il rilevante numero di latitanti appartenenti alle organizzazioni criminali arrestati e l’altrettanto rilevante quantità di beni confiscati alle organizzazioni criminali stesse. È vero che l’eccellente lavoro delle forze di polizia è conseguente anche a scelte operative, direttive e orientamenti del governo. Ma è il caso di ricordare che dietro quegli arresti e quelle confische c’è anche il consistente lavoro giudiziario di tanti magistrati, che hanno trasformato i risultati dell’attività delle forze di polizia in provvedimenti giudiziari, spesso molto complessi, al termine di procedimenti quasi sempre di non breve durata e di non facile svolgimento. Sarà bene ricordare che le decisioni dei giudici sono la necessaria premessa per catturare qualcuno e confiscarne i beni.

La crisi della giustizia penale è soprattutto connessa ai tempi lunghi che separano l’inizio delle indagini dalla conclusione del processo con la sentenza definitiva. Questa eccessiva durata, da una parte, espone al rischio del risultato nullo del processo (prescrizione), dall’altra, provoca l’enfasi su custodia cautelare e indagini (peraltro, un vizio antico). E infine, può produrre anche l’ingiustizia di una pena scontata molto tempo dopo il fatto. Anche a questo proposito, però, è bene avere le idee chiare sulla durata dei processi. I rilevamenti statistici compiuti in occasione della discussione sul disegno di legge riguardante il processo breve, sia pure approssimativi, hanno evidenziato che in realtà la grande maggioranza dei processi di primo grado si conclude nel termine di due anni dall’esercizio dell’azione penale (non dall’inizio del processo, dunque, ma dal momento in cui il pubblico ministero chiede il processo); il vero punto critico, invece, è rappresentato dal lasso di tempo che separa la conclusione del giudizio di primo grado dal giudizio di appello. Contrastare la lunga durata dei processi, che dipende dalle cause che di seguito si indicheranno, fissandone per legge la durata massima e stabilendo che decorso il termine finale tutto si annulli, non è però il rimedio. Anzi si tradurrà in un ulteriore effetto di ingiustizia nei confronti delle persone i cui interessi sono in gioco nel processo.

D’altra parte, se è vero che il tempo è connotato essenziale della decisione giusta, è anche vero che la brevità del processo non può diventarne la caratteristica essenziale e il valore primario. La durata del processo deve essere «ragionevole» recita l’articolo 111 della Costituzione, ma è soprattutto importante che esso sia equo, in questo senso «giusto» secondo i parametri della norma costituzionale citata. Ne consegue dunque, tra l’altro, che la scelta operata nel 1989 per un metodo processuale fondato sul contraddittorio nella formazione della prova (che è l’essenza del sistema accusatorio) non deve essere abbandonata bensì ribadita. Tutto quello che può rafforzarla assicurando nella fase processuale la parità delle armi tra accusa e difesa è condivisibile. A condizione che non si spaccino per garanzie formalismi inutili il cui scopo sia quello di dilazionare il più possibile la decisione.

Fatte queste considerazioni e tornando al tema della crisi, occorre interrogarsi su come uscire da essa, migliorare la funzionalità della giustizia e riacquistare la fiducia della pubblica opinione. Per individuare i rimedi bisogna avere chiare le cause della crisi, che sono molteplici e di diverso tipo. Si fornisce di seguito, in modo sintetico, un catalogo delle principali cause, in relazione alle quali appare urgente intervenire.

Innanzitutto vi è l’enorme estensione della legislazione penale, il che significa, in termini più semplici, un numero esagerato di reati e un ricorso eccessivo alla pena del carcere. Qualche anno fa si parlava di “diritto penale minimo”, vale a dire del ricorso alla sanzione penale solo per le condotte che mettessero a rischio i beni fondamentali della persona e della collettività, della sanzione penale come extrema ratio nella tutela dei beni, a cui fare ricorso solo se altre sanzioni si dimostrassero insufficienti. Nel periodo della bicamerale si prospettò addirittura l’introduzione nella Costituzione della riserva di codice per le leggi penali, nel senso di vincolare a interventi sistematici la produzione normativa penale evitando il continuo ricorso alla previsione di reati con leggi speciali. Nell’ultimo decennio la direzione è stata quella opposta, verso un ricorso continuo alla introduzione di nuove fattispecie penali, senza attenzione alla razionalità e coerenza del sistema. Nessun apparato giudiziario, per di più se caratterizzato dal principio di obbligatorietà dell’azione penale e da una concezione garantista del processo, può far fronte ad un numero così elevato di reati. Occorre dunque intraprendere seriamente la strada del contenimento del diritto penale, se non proprio del diritto penale minimo. A titolo di esempio, perché non pensare ad un intervento riformatore sui reati attribuiti alla competenza del giudice di pace? Si tratta di reati minori, legati prevalentemente alla conflittualità tra le persone, come ingiurie, minacce, lesioni non gravi, per i quali è previsto l’intervento del pubblico ministero, vale a dire degli uffici di procura, il rito del processo penale, sia pure con qualche semplificazione, la possibilità dell’appello e del ricorso per Cassazione. Perché non trasformare questi reati in illeciti di carattere civile dando alla persona offesa la possibilità di ricorrere al giudice civile (lo stesso giudice di pace), con procedura semplificata senza impegnare polizia giudiziaria e pubblico ministero?

È evidente come l’eccessiva estensione del diritto penale si rifletta poi sulla situazione del carcere, anch’essa oggetto da tempo di denunce e critiche per il sovraffollamento e le condizioni di vita dei detenuti. Invero, non si tratta solo di fare i conti con una legislazione penale troppo estesa, ma anche con l’eccessivo ricorso nella previsione della legge al carcere come sanzione, nonostante sia oggi disponibile nel sistema un insieme articolato di sanzioni diverse.

In secondo luogo, la legislazione processuale vigente appare priva di coerenza. Sull’impianto iniziale del codice di procedura penale del 1989, ispirato al sistema accusatorio ma con l’apporto di molte correzioni, si sono stratificate numerose modifiche sia per i ripetuti interventi iniziali della Corte costituzionale sia per le tante modifiche legislative, quasi sempre ispirate a logiche di emergenza o di eccezionalità ovvero a esigenze del momento riconducibili a specifiche vicende processuali. Il risultato è un sistema processuale in cui sono presenti molti formalismi senza una vera giustificazione di garanzia (come il duplice deposito degli atti previsto, in un breve arco di tempo, alla conclusione delle indagini preliminari nei processi in cui è contemplata l’udienza preliminare), una disciplina della notifica degli atti che favorisce il prodursi di nullità e relative eccezioni, l’assenza di norme che evitano la celebrazione di processi a carico degli imputati irreperibili, per citare alcuni degli aspetti che pregiudicano il decorso spedito del procedimento. Senza dimenticare un sistema delle impugnazioni che di fatto consente tre gradi di giudizio nel merito, senza distinguere in relazione al tipo di sanzione irrogata e senza filtri significativi sulle impugnazioni all’evidenza infondate.

Da altro punto di vista si deve ricordare che vi è stata nel corso degli anni, inoltre, la riduzione progressiva dello spazio di autonoma decisione del giudice in particolare in materia di misure cautelari e che si è pervenuti nel tempo ad una eccessiva estensione della competenza monocratica (del magistrato giudicante che decide da solo) a danno di quella collegiale, anche in questo caso in modo poco razionale perché vi sono reati con previsione di pena contenuta attribuiti alla competenza del giudice collegiale e reati puniti più gravemente attribuiti a quella del giudice monocratico. Una revisione che andasse nella direzione del ripristino della collegialità per i reati più gravi sarebbe auspicabile.

C’è infine da osservare come la disciplina processuale prescinda dal tipo di sanzione irrogabile, prevedendo sostanzialmente lo stesso percorso e tre gradi di giudizio tanto per l’ipotesi in cui la pena sia detentiva, quanto per l’ipotesi in cui la pena sia pecuniaria, mentre in questo secondo caso sarebbe ragionevole prevedere un iter semplificato e, allo stesso tempo, ridurre i gradi di impugnazione. È necessario e auspicabile, dunque, un intervento riformatore nel senso della semplificazione senza pregiudizio delle garanzie.

In terzo luogo, vi sono gli aspetti riguardanti l’organizzazione, il personale amministrativo, i beni strumentali. L’attività giudiziaria non è solo attività dei magistrati; essa infatti ha bisogno dell’apporto qualificato del personale amministrativo e di attenzione agli aspetti amministrativi, che precedono, accompagnano e seguono l’attività giurisdizionale in senso stretto. Valga per tutti l’esempio del funzionamento del casellario giudiziale, in cui si archiviano tutte le condanne definitive. Orbene, il ritardo, spesso di anni, nella iscrizione al casellario ha comportato che i soggetti condannati risultassero incensurati e potessero usufruire in caso di commissione di nuovi reati di benefici a cui non avrebbero avuto diritto. Invece di irrigidimenti normativi nel trattamento sanzionatorio sarebbe più utile curare la tempestiva iscrizione al casellario delle condanne definitive. Altro esempio: uno dei punti critici dell’attività processuale è costituito dalla notifica degli atti introduttivi del giudizio. Un consistente aiuto nella riduzione dei tempi del processo potrebbe essere fornito dal potenziamento del servizio degli ufficiali giudiziari oltre che dall’estensione del riscorso a mezzi tecnici quali la posta elettronica certificata. Sul piano dell’organizzazione e delle risorse, il punto critico è rappresentato dalla irrazionale distribuzione di magistrati e personale amministrativo sul territorio. Si tratta dell’annosa questione della revisione delle circoscrizioni giudiziarie.

L’attuale geografia giudiziaria, infatti, è caratterizzata da un numero elevato di uffici di piccole dimensioni e dall’esistenza di alcuni megauffici. Sarebbe opportuno ridisegnare tale geografia, riducendo il numero degli uffici e fornendo ad essi una dimensione media che consenta il buon utilizzo delle risorse umane e materiali disponibili. Non è possibile una diffusione degli uffici giudiziari di primo grado che assecondi i localismi. Né vale contrapporre l’esigenza che la giustizia sia vicina alla comunità civile nella sua dimensione più ridotta. A questo fine è stato introdotto ed esiste il giudice di pace, la cui circoscrizione è appunto caratterizzata dal riferimento alla comunità locale. Il tribunale ordinario, l’ufficio di primo grado, va invece definito in un ambito territoriale più vasto di quanto sia oggi la circoscrizione della gran parte degli uffici. In tempi di risorse finanziarie limitate, un intervento razionalizzatore di questo tipo è ancora più importante. In una fase di ristrettezze economiche non si possono semplicemente invocare e chiedere più personale e più strumenti materiali.

Tuttavia, vi sono interventi assolutamente necessari che si possono e si devono fare anche in tempi di scarsità di risorse. Innanzitutto, è urgente riqualificare il personale amministrativo e provvedere a nuove assunzioni, bloccate ormai da oltre dieci anni. Inoltre, va ultimata l’informatizzazione degli uffici assicurando gli investimenti necessari per lo sviluppo dei programmi e per l’assistenza sistemistica e applicativa. Priorità va data al completamento dell’informatizzazione del registro generale delle notizie di reato e all’introduzione generalizzata di programmi per la informatizzazione degli atti del procedimento, essenziale tra l’altro per rendere agevole e funzionale la formazione e il rilascio delle copie degli atti del procedimento, che assume estrema importanza nei vari passaggi degli atti tra gli uffici (proprio la mancanza tempestiva e completa della trasmissione degli atti al tribunale del riesame ha provocato in tempi recenti la scarcerazione di imputati per gravi reati con eco allarmata nell’opinione pubblica). Vanno poi sviluppati sistemi di trasmissione telematica degli atti.

Occorre, dunque, un progetto riformatore che investa gli aspetti fin qui sinteticamente accennati. Ma qualsiasi intervento riformatore deve conservare le caratteristiche positive del nostro sistema in relazione ai principi costituzionali in tema di giurisdizione e di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Non si può, infatti, pensare alla funzionalità ed efficienza del sistema giudiziario solo in termini di numero delle decisioni e del tempo in cui esse sono prese. Il sistema giudiziario nel suo complesso deve assicurare un alto grado di effettività nella tutela dei diritti e delle libertà delle persone e delle condizioni generali della convivenza tra le quali rileva la legalità.

Da questo punto di vista occorre mettere in guardia dal rischio di abbandono del principio di obbligatorietà dell’azione penale stabilito dall’articolo 112 della Costituzione. Se il problema è, come abbiamo visto, quello di un’eccessiva estensione della sanzione penale, il rimedio da perseguire è quello di ridurla. Se il diritto penale minimo può apparire un’utopia difficilmente realizzabile, si punti almeno a una riduzione dell’area del diritto penale abbandonando la tendenza a intervenire ripetutamente in materia per rispondere a esigenze contingenti e troppe volte per esigenze di propaganda politica e ricerca del consenso, come è stato con l’introduzione dell’ideologico e inutile reato di clandestinità. Se, poi, non si vuole consentire, giustamente, una eccessiva discrezionalità ai pubblici ministeri nella scelta dei reati da perseguire con priorità, si definiscano per legge i criteri, come si è fatto più volte in anni recenti in relazione ai procedimenti di vecchia data e dopo l’emanazione dell’ultimo indulto nel 2006. L’abbandono del principio di obbligatorietà, oltre a risolversi in una ferita al principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, aprirebbe il problema del soggetto a cui attribuire la scelta discrezionale se procedere o meno e rischierebbe in definitiva di privilegiare gli autori di reati di più difficile accertamento.

Discussa da anni è la questione della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, diventata un obiettivo politico irrinunciabile dell’azione delle Camere penali e più in generale dell’avvocatura, vista come l’epilogo inevitabile della riforma dell’articolo 111 della Costituzione e come la conditio sine qua non per realizzare finalmente il giusto processo. Non si vogliono qui riproporre le ragioni contrarie della magistratura associata; si intende piuttosto richiamare una preoccupazione di tipo politico-istituzionale sulla sorte del pubblico ministero una volta separato dall’ordine giudiziario. Difficilmente, a meno che non venisse scritto chiaramente nella Costituzione, una magistratura requirente separata da quella giudicante rimarrebbe autonoma e indipendente e molto presto si porrebbe il problema di un suo controllo, che verosimilmente diverrebbe appannaggio del potere politico.

Inoltre, non è secondario chiedersi quale pubblico ministero si voglia. Se quello di oggi, a cui spettano la direzione e il coordinamento delle indagini della polizia giudiziaria, funzioni che garantiscono la libertà e l’autonomia delle indagini della stessa polizia giudiziaria rispetto anche ai vertici amministrativi dei corpi di polizia. Ovvero un pubblico ministero puro traduttore processuale dell’attività della polizia, privo di propria iniziativa, se non semplice avvocato dell’accusa. Se l’intervento riformatore vuol garantire anche per il futuro, più e meglio di quanto sia oggi, una giustizia penale che tuteli diritti e libertà delle persone assieme alla legalità come condizione della convivenza civile, non si può prescindere da un pubblico ministero indipendente, culturalmente formato come un giudice e dotato di iniziativa.

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17 febbraio 2010
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Moratti e Chiamparino uniti: “Stop alle auto in tutto il nord”

IL CASO

Moratti e Chiamparino uniti
“Stop alle auto in tutto il nord”

I Comuni di Milano e Torino propongono, per il 28 febbraio, il blocco del traffico in tutta la pianura padana per rispondere all’emergenza smog

Moratti e Chiamparino uniti "Stop alle auto in tutto il  nord"
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I Comuni di Milano e Torino propongono, per il 28 febbraio, il blocco del traffico in tutta la pianura padana. La proposta sarà fatta nell’incontro di venerdì a Milano con gli amministratori dei Comuni della pianura padana, in cui saranno discusse varie proposte per individuare un programma di interventi strutturali sull’intera area per combattere l’inquinamento atmosferico. “I Comuni di Milano e Torino – si legge nella nota – sono d’accordo nell’adottare questa misura straordinaria e chiedono agli altri Comuni di aderire alla proposta”.
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17 febbraio 2010
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Il libro questo sconosciuto: L’Italia è tra gli ultimi nella Ue

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I dati sconfortanti forniti dall’Associazione Italiana Editori. Nasce il “Centro per il Libro e la Lettura” per promuovere la fruizione di libri nel nostro paese. Obiettivo: far crescere del 50% i lettori min 10 anni

Il libro questo sconosciuto
L’Italia è tra gli ultimi nella Ue

Particolare attenzione per i giovani e i giovanissimi che risultano non lettori per il 45%

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di CLAUDIO GERINO

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ROMA – Il libro questo sconosciuto. Almeno in Italia. I lettori, infatti, sono solo il 38 % sul totale della popolazione di età superiore ai 14 anni, ma solo il 10 % si possono definire “abituali”. Lo strano è che, invece, il mercato dei libri nel Belpaese si presenta, tutto sommato, solido, con un fatturato complessivo di oltre 5 miliardi di euro, anche se in flessione rispetto agli anni precedenti. Del resto l’Italia, tra i 25 paesi dell’Unione Europea, si collocava nel 2006 solo al diciannovesimo posto, superando di poco la Spagna, la Romania, la Grecia e la Bulgaria. Oggi, con quel 38 % scarso, potrebbe anche essere stata scavalcata da tutti i paesi tranne il Portogallo.

I dati sono forniti dall’AIE, l’Associazione Italiana Editori e sono impietosi. Elaborando i dati Istat del 2009, infatti, l’associazione rileva che, nel 2009 il 45,1 % degli italiani di età superiore ai 6 anni ha letto almeno un libro non scolastico (25 milioni e mezzo). Ma la fascia dei lettori saltuari (da 1 a 11 libri l’anno) è consistente: quasi 22 milioni di persone sopra i sei anni d’età. Chi legge più di 12 libri l’anno, infine, rappresenta solo il 6,9 % (3 milioni e 900 mila).

Anche l’area geografica è importante al fine delle statistiche di lettura: il nord Italia vede una prevalenza di lettori sulla popolazione (52,2 %), seguita dal Centro (47,4 %) e, ben distaccata, il Sud e le Isole (31,6 %). Le prime cinque regioni italiane che leggono di più, naturalmente, si collocano al nord (Trentino Altro Adige col 57,5 %, Friuli Venezia Giulia col 56,5 %, Valle d’Aosta col 53,8 %, Lombardia col 53,5 %, Liguria, col 51,3 % e Piemonte col 50,6 %). Fanalino di coda è la Sicilia, invece (29,1 %), superata dalla Campania (29,4 %), dalla Puglia (29,9 %), dalla Calabria (31,4 %) e dalla Basilicata (34,3 %). Un altro dato significativo è la spesa media mensile per abitante in libri: appena 4,90 Euro che scende per i  bambini da 0 a 14 anni ad 1,48 euro.

Eppure, piccoli segnali positivi si stanno delineando: rispetto al 2007 e al 2008 c’è stata una crescita, sia pur minima (1%) dei lettori, arrivati a 25 milioni complessivi. Indubbiamente, a rendere ancora più difficile la propensione alla lettura c’è il fatto che la spesa per acquisto di libri da parte delle bibilioteche pubbliche è scesa dai 65,5 milioni di euro del 2005 ai 48 milioni di euro del 2008 e che ci sono ancora 691 comuni con più di 10 mila abitanti totalmente privi di emeroteche aperte alla popolazione, lasciando senza questo strumento il 21,3 % della popolazione italiana (quasi 13 milioni di persone). Ci sono però biblioteche d’eccellenza che hanno a disposizione oltre 10 mila volumi (3902), mentre le librerie private aperte al pubblico sono 2774.

A snobbare il libro sono soprattutto i giovani: il 45 % di loro in età dai 6 ai 19 anni non ne legge neanche uno al di fuori di quelli scolastici. Se si “sgranano” questi dati per età, poi, si evidenzia un fattore ancora più preoccupante: a formare la fascia più consistente di “non lettori” sono i ragazzi tra i 6 e i 17 anni (29 milioni e 400 mila).

Ed è per questi motivi che è nato il “Centro per il Libro e la Lettura”, su iniziativa dell’AIE e del governo. L’obiettivo del Centro è quello di far riavvicinare o avvicinare per la prima volta al libro un numero sempre crescente di italiani, con il proposito di incrementare i lettori del 50 % nei prossimi dieci anni. Sette i programmi annunciati dall’Associazione: dal giorno in cui tutti saranno invitati a regalare un libro a coloro cui si vuol bene, alla donazione di testi di buona qualità che gli editori eliminano per arrivare a un appuntamento annuale di studio e confronto sul futuro del libro.

Il primo programma prevede di costruire un modello di promozione della lettura su scala provinciale applicabile successivamente a tutto il territorio nazionale. Il secondo mira a dare al libro un valore socialmente apprezzabile e prevede di donare gratuitamente libri di buona qualità, che gli editori eliminano, alle situazioni più svantaggiate. Il terzo programma prevede una campagna di comunicazione, concentrata in una settimana che, in collaborazione con Aie (Associazione Italiana Editori), culminerà nella giornata di domenica 23 maggio, dove tutti saranno invitati a regalare un libro a coloro cui si vuol bene.

I programmi 4 e 5 sono stati delineati per promuovere la cultura del libro puntando a dare agli autori e alle opere italiane la presenza internazionale che oggi non hanno e di fare dell’Italia la sede internazionalmente riconosciuta di riflessione approfondita e di elaborazione sulla cultura del libro. In questo senso si organizzerà un appuntamento annuale di studio sui temi di frontiera, sull’evoluzione e sul futuro del libro. L’ipotesi della sede è Torino, in futuro alla Reggia di Moncalieri, nel mese di ottobre.

Infine, gli ultimi due programmi: rilevazione Nielsen per poter costituire un’unica autorevole fonte di dati sul mondo dei libri e far diventare il Centro un punto di riferimento per rappresentare gli interessi del mondo dei libri nelle sedi istituzionali.

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17 febbraio 2010

fonte:  http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/02/17/news/il_libro_questo_sconosciuto_l_italia_tra_gli_ultimi_nella_ue-2332404/?rss

Inchiesta G8, il procuratore Toro si è dimesso dalla magistratura

Per difendere la sua onorabilità e quella del figlio Camillo, indagato per favoreggiamento

Inchiesta G8, il procuratore Toro
si è dimesso dalla magistratura

È indagato per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio, ha deciso di dimettersi «in maniera definitiva»

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Il procuratore aggiunto di Roma Achille Toro  in una immagine d'archivio del 13 gennaio 2006 al suo arrivo presso gli  uffici giudiziari di Perugia (Ansa)
Il procuratore aggiunto di Roma Achille Toro in una immagine d’archivio del 13 gennaio 2006 al suo arrivo presso gli uffici giudiziari di Perugia (Ansa)

MILANO – Il procuratore aggiunto di Roma, Achille Toro, si è dimesso dalla magistratura. Toro è indagato per rivelazione del segreto d’ufficio in concorso con il figlio Camillo (indagato anche per favoreggiamento) nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Firenze sui presunti illeciti legati ai cosiddetti «Grandi eventi» (mondiali di nuoto 2009, G8 alla Maddalena, celebrazioni per i 150 dell’Unità d’Italia), che vede coinvolto anche il capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso.

L’ACCUSA – La ragione dell’iscrizione di Toro nel registro degli indagati sarebbe una informazione passata a uno degli imprenditori sotto indagine dal figlio del magistrato. In una lettera inviata al Csm e, per conoscenza, al ministro della Giustizia e al Procuratore capo di Roma, Giovanni Ferrara, Toro scrive che «volendo essere libero di difendere l’onorabilità mia e di mio figlio in ogni sede, e nel contempo decidendo di eliminare ogni ragione di imbarazzo dall’ambiente di lavoro, con grande rammarico ma con animo sereno dichiaro di volermi dimettere con effetto immediato dall’ordine giudiziario». Giovedì la Procura informerà della decisione il ministro della Giustizia.

CADE PROCEDIMENTO DISCIPLINARE – Con le dimissioni dall’ordine giudiziario decade il procedimento disciplinare nei suoi confronti istruito dalla procura generale della corte di Cassazione. Le dimissioni di Toro sono definitive ed irrevocabili in quanto, avendo il magistrato oltre 40 anni di servizio, non hanno bisogno di accettazioni da parte del Csm.

FERRARA, SONO RAMMARICATO – A commentare la decisione dell’aggiunto Achille Toro di dimettersi dalla magistratura il procuratore della Repubblica di Roma Giovanni Ferrara: «Sono rammaricato e dispiaciuto anche perché è un collega che conosco da 40 anni. Auguro a lui – ha aggiunto – una vita serena anche fuori dall’ordine giudiziario. La sua è una decisione da rispettare».

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Redazione online
17 febbraio 2010

fonte:  http://www.corriere.it/cronache/10_febbraio_17/toro-dimissioni-inchiesta-g8_60e2ec32-1be7-11df-a6d3-00144f02aabe.shtml

Primi casi di donatori “samaritani” Rene gratis senza legami familiari

https://i0.wp.com/www.ilpiave.it/imgart/111105/trapianti.jpgMomento di un trapianto

Tre persone si sono offerte in Lombardia e Piemonte. Modalità utilizzata in altri paesi
In Italia non è prevista dalla legge. Il ministero della Salute dovrà esprimersi in merito

Primi casi di donatori “samaritani”
Rene gratis senza legami familiari

Contrario il Comitato nazionale di bioetica: “Il trapianto implica una lesione grave”

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Primi casi di donatori "samaritani" Rene gratis senza  legami familiari
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ROMA – Si solleva in Italia il caso dei donatori “samaritani”, vale a dire persone che si offrono di donare un organo (nello specifico un rene) gratuitamente e senza alcun legame di affetto o parentela. Negli ultimi mesi ci sono state tre offerte di questo tipo: due in Lombardia e una in Piemonte. Tre persone, dunque, hanno espresso la loro volontà di farsi espiantare un rene per regalare una speranza a tre perfetti sconosciuti. Peccato che la legge italiana sulle donazioni non preveda questa possibilità: sul caso dovrà esprimersi l’ufficio legislativo del ministero della Salute. Il Comitato nazionale di bioetica (Cnb) ha già espresso il suo parere: contrario.
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Il Centro Nazionale Trapianti
ha riunito ieri i rappresentanti delle rispettive reti interregionali per verificare la possibilità legale di questa modalità. Si tratta, come si è detto, di una forma di donazione già utilizzata in altri paesi, ma non prevista nel sistema italiano. La legge nazionale, infatti, oltre a vietare ogni forma di vendita, regola la donazione da vivi solo tra consanguinei o persone con legami affettivi. Il resto, semplicemente, non è contemplato.
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Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica, si è detto “contrario” a questa tipologia di donazione. “Poiché il trapianto di rene da vivente implica una grave lesione al corpo del donatore e dal momento in cui esiste il dovere etico di tutelare la salute di ogni vivente – ha commentato D’Agostino – sono contrario alla possibilità di donatori samaritani”. La donazione del rene, secondo il bioeticista, “rappresenta una grave lesione alla salute del donatore ed è difficile prevedere se il soggetto potrà recuperare pienamente il trauma subito. Ma se tale rischio è in qualche modo giustificato per la donazione a beneficio di un parente stretto – ha affermato – non reputo lo sia per casi diversi”. C’è poi il rischio, ha proseguito, “che tali donazioni possano essere spinte da motivazioni sbagliate, ad esempio da una sorta di narcisismo o autoesaltazione del soggetto, non dunque pienamente consapevole della scelta fatta”.
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A dare la notizia della comparsa dei “samaritani” è stato il direttore del Centro Nazionale Trapianti, Alessandro Nanni Costa, che ha spiegato come casi di questo genere “non sono unici, ce ne sono stati altri, ma certo in Italia sono rarissimi”. I tre donatori si sono presentati ai centri di riferimento dichiarando semplicemente di voler donare un rene, senza niente in cambio e senza avere amici o parenti da indicare come riceventi.
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La cosa, però, non è così semplice: “In Italia la normativa non prevede questi casi – ha spiegato Nanni Costa – anche se non li esclude. Ora si tratta innanzitutto di appurare il benessere psichico e psicologico dei donatori, e poi capire come eseguire gli interventi nel rispetto delle leggi”. Toccherà all’ufficio legislativo del ministero della Salute “la valutazione delicata del caso e delle procedure da seguire. Bisogna – ha precisato il direttore del Centro – definire i criteri di assegnazione degli organi, che possono essere di vario tipo. Una volta ammessa la procedura da adottare si valuta l’ammissibilità della richiesta dei donatori, e si procede”.
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Si tratta, insomma, di colmare un vuoto normativo che “in altri paesi non c’è: anzi, la donazione volontaria e gratuita è una procedura standardizzata”. In ogni caso, quella dei tre “samaritani” di Lombardia e Piemonte è un’offerta tanto generosa quanto rara: “Siamo sommersi di chiamate di gente che vuole cedere un rene – ha sottolineato il direttore – ma è sempre per venderlo. Di solito chiediamo alle persone che telefonano nome e cognome, visto che si tratta di un reato. Stavolta, però, è tutto diverso”.
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17 febbraio 2010
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Sanremo dà uno schiaffo al principe: fuori Emanuele Filiberto, come Cutugno / Morgan: contento di non esserci

Ma l’addio ai Savoia non l’avevamo già dato?

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Sanremo dà uno schiaffo al principe: fuori Emanuele Filiberto, come Cutugno

Eliminato anche D’Angelo. Per Morgan solo un veloce accenno della Clerici. Dita Von Teese, strip da 80mila euro

80mila euro? Per uno strip di qualche minuto? Questa qualcuno me la deve spiegare. mauro

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di Simona Orlando
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SANREMO (17 febbraio) – Fuori Toto Cutugno con la sentimentale Aeroplani, Nino D’Angelo e Maria Nazionale con la dialettale Jammo jà e il trio Pupo, Emanuele Filiberto e Luca Canonici (accolto in sala a suon di fischi) con Italia amore mio: un brano oltre i limiti del genere trash, oltre il consentito in una manifestazione che si rispetti. L’esibizione offensiva per occhi e orecchi ha visto Pupo al piano che recitava un testo davvero ruffiano, il Principe che ne mimava le parole e fingeva disperazione, il tenore che alzava i toni patriottici, insomma è stata la dimostrazione che al festival purtroppo si arriva anche senza saper cantare, basta essere dotati di faccia tosta e sciorinare una carnevalata in tema col calendario.

A nulla è servito tappezzare la riviera di adesivi pro-trio e far girare la minaccia che avrebbe addirittura vinto. A scongiurare questa possibilità, prima del televoto, è giunto il giudizio della giuria demoscopica. Restano in gara La cometa di Halley di Irene Grandi, scritta con Francesco Bianconi dei Baustelle, da subito considerata una delle migliori, Per tutte le volte che di Valerio Scanu (il giovane principe di Amici che a Sanremo gira smarrito davanti a una platea il cui consenso va conquistato), Malamorenò, la filastrocca fantascientifica en travesti di Arisa (con le Sorelle Marinetti viene da canticchiare Tuli-tuli-tulipan), il vincitore di X Factor Marco Mengoni con Credimi ancora, vestito da Joker bianconero, a pronunciare le dentali all’anglosa ssone e ad ostentare le sue capacità vocali, il tiro rock di Meno male di Simone Cristicchi, la sofisticata Ricomincio da qui di Malika Ayane, La notte delle fate di Enrico Ruggeri, Baby dei Sonhora, La verità di Povia (un recitato presuntuoso su un tema delicatissimo, qui tradotto in una letterina da elementari), Il mondo piange di Irene Fornaciari (che né la mano di papà Zucchero né quella dei Nomadi riescono ad aiutare), Noemi con Per tutta la vita, un’altra delle favorite, sanremese vecchio stile interpretata da una voce piena di sfumature, Fabrizio Moro con il reggae di Non è una canzone.

La prima serata
è andata via liscia, apprezzabilmente, salvo le solite noiosaggini che però sono organiche alla manifestazione. Era necessario un affiancamento per non correre il rischio di una brutta partenza, così in apertura di Festival abbiamo ritrovato al buio l’accoppiata Bonolis-Laurenti, come se dallo scorso anno non se ne fossero mai andati, quasi avessero abitato nel teatro dismesso, sempre rapidi a rincorrersi nelle battute, nel paradiso della pubblicità come nel girone sanremese.

Qualche riferimento alle polemiche
dei giorni scorsi («Se aveva mo qualcosa da confessare andavamo nelle sedi opportune: da Vespa», «Se vince Emanuele Filiberto ci ridanno la Corsica»), poi un messaggio per le donne complessate dal peso («Godetevi la vostra taglia: il 42 è il burqa dell’occidente») e il passaggio di consegne ad Antonella Clerici, scesa da un’astronave, vestita di rosso con un decolleté troppo compresso, alla sua prova del fuoco.

Tutto sommato se l’è cavata bene,
sola sul palco, con il sorriso, la compostezza, il rispetto dei tempi televisivi e delle canzoni. Una conduzione casalinga, poco pretenziosa, come promesso. Ha presentato «un ospite fantasioso e ribelle, in bilico fra in coscienza e innocenza, fra genio e sregolatezza» ma non era Morgan, semmai Antonio Cassano, calciatore un po’ vittimista, prima in versione Sora Camilla, tutti lo vogliono ma nessuno se lo piglia (i doriani cominciano ad accusare il fatto che da quando non gioca, la squadra vince), poi in versione cuore di mamma, poi pentito dei suoi errori (confessa che a Totti dedicherebbe Un amico di Renato Zero, che i loro problemi sono dipesi dalla sua testa matta, mentre a Lippi gliele vorrebbe suonare), insomma si è cimentato in una serie imbarazzante di sgrammaticatezze e in un’intervista perfettamente inutile.

Morgan è stato velocemente citato
dalla Clerici: «Sono lontana anni luce dalla droga, la mia unica dipendenza è la mia famiglia, il lavoro, un cappuccino al bar la mattina. Sono addirittura intollerante verso questo vizio, verso chi non ha amore per la vita. Ma per lui la passione è la musica». Ha letto un estratto del testo La sera, qualche nota di accompagnamento, poi, inevitabile, l’italica benedizione: «Morgan spero che tu e tutti quelli come te si possano ritrovare», così ancora una volta non si è capito se lo si chiama in causa per misericordia o per stima professionale.

Ospiti sono state Susan Boyle, la bruttina dalla voce incantevole che “sognava un sogno” e lo ha realizzato (anche se poi è seguito un forte esaurimento nervoso ) e Dita Von Teese, la pin up regina del burlesque, ex moglie di Marylin Manson, che per ottantamila euro è finita seminuda in una coppa di champagne. Vedremo se gli ascolti di domani faranno brindare qualcuno.

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fonte: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=91617&sez=HOME_SPETTACOLO&ssez=MUSICA

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Morgan: contento di non esserci

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ROMA (17 febbraio) – «Vedendo questo Festival sono contento di non esserci andato. Emanuele Filiberto è stato una vergogna. Quando l’ho sentito cantare (cantare?) ho nascosto la testa sotto il cuscino»: Morgan, escluso dal Festival per le sue affermazioni – poi precisate e chiarite – sul crack come antidepressivo, vede la serata iniziale con un cronista della Stampa al quale affida le sue considerazioni decisamente critiche.

Il cantante conferma la trattativa con la direzione artistica del Festival per portarlo comunque sul palco dell’Ariston: «Fino all’altro ieri sembrava che dovessi venire lì a Sanremo e far ascoltare la mia canzone fuori gara. Invece ieri in sala stampa Gianmarco Mazzi dice che il capitolo Morgan è chiuso e che la Clerici leggerà una lettera in diretta dove si dispiace artisticamente per la mia eliminazione. Ma per favore. Per favore. Sono inc… nero. Ma dico: stiamo scherzando?».

Morgan ieri ha deciso di dare sfogo alla sua rabbia in una lettera fatta pervenire al festival dove accusa: «Voi, che da una parte obbedite all’ordine del mio allontanamento dal palco e dall’altra sfruttate in ogni occasione il mio nome, la mia vicenda, la mia persona per vostro tornaconto. Questo comportamento vergognoso produrrà l’effetto contrario a ciò che andate predicando. Dunque, chi sarebbero i cattivi maestri che rischiano di allontanare i giovani dall’idea di non drogarsi? Voi che punite, inquisitori, moralisti senza morale, o io?».

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=26570&sez=HOME_SPETTACOLO&npl=&desc_sez=

MENO MALE CHE SILVIO C’E’ – Corruzione, l’allarme della Corte dei conti: “Nel 2009 le denunce aumentate del 229%”

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L’aspetto che preoccupa di più è la mancanza di “anticorpi” nella Pubblica Amministrazione
La Toscana risulta essere la regione con il numero più alto di denunce per danni erariali

Corruzione, l’allarme della Corte dei conti
“Nel 2009 le denunce aumentate del 229%”

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ROMA – La corruzione “è diventata un fenomeno di costume”, una “patologia grave” che nel 2009 ha fatto registrare un aumento di denunce alla Guardia di finanza del 229% rispetto all’anno precedente, nonché un incremento del 153% per fatti di concussione. E’ la denuncia del procuratore generale e del presidente della Corte dei Conti, Mario Ristuccia e Tullio Lazzaro, in occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario. Contro queste condotte illecite individuali, le pubbliche amministrazioni “troppo spesso” non attivano i necessari “anticorpi interni”. “Il Codice penale – sottolinea Lazzaro – non basta più, la denuncia non basta più. Ci vuole un ritorno all’etica da parte di tutti. Che io, purtroppo, non vedo”. Lazzaro, nel corso della conferenza stampa che è seguita alla cerimonia, ha poi precisato che “Non esiste nessun buco di bilancio Inteso come tale. C’è una scarsa correttezza contabile nello scrivere le cifre, ma assolutamente non esiste nessun buco come denaro pubblico”.
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Sulla Protezione Civile. A questo proposito “ci dovrebbe essere un controllo reale – ha detto Lazzaro – non solo politico”. Secondo il presidente della Corte dei Conti “dove c’è controllo c’è trasparenza” e questo, sia nell’interesse del cittadino, che della politica. Per legge, ha poi spiegato Lazzaro, “non c’è un controllo della Corte sulle ordinanze della Protezione Civile. La Corte – ha precisato – può fare accertamenti sulla gestione, ma il nostro controllo reale su quelle ordinanze, per legge è escluso”. Dove può intervenire la Corte – ha concluso – è “una scelta del Parlamento”.

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Mancano gli anticorpi nella P.A. – La corruzione – rileva il pg Ristuccia nella sua relazione – dilaga nella pubblica amministrazione: il Ministero dell’Interno, i Comandi dei Carabinieri e della Gdf, nel solo periodo gennaio-novembre 2009 hanno denunciato 221 reati di corruzione, 219 di concussione e 1714 reati di abuso di ufficio, con un vertiginoso incremento rispetto all’anno precedente. E’ poi assai “grave” – aggiunge il presidente Lazzaro – la mancanza di “anticorpi” nella P.A. contro le condotte illecite individuali che causano “offuscamento dell’immagine dello Stato” e “flessione della fiducia che la collettività ripone nelle amministrazioni e nelle stesse istituzioni del Paese”. “Se le pervicaci resistenze che questa patologia sembra opporre a qualsiasi intervento volto ad assicurare la trasparenza e l’integrità nelle amministrazioni possono dirsi essere una sorta di ‘ombra’ o di ‘nebbia’ che sovrasta e avvolge il tessuto più vitale operoso del Paese, non si può fare a meno di notare – sottolinea il presidente – che l’oscuramento resta tuttora grave, non accenna neppure a dissolversi o a flettere nella sua intensità”.
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Toscana, la regione meno virtuosa. Dalla relazione del pg, inoltre, emerge che la Toscana – dove in sede penale la procura di Firenze sta indagando sugli appalti del G8 – è in testa alla classifica delle regioni in cui la Corte dei Conti ha emesso il maggior numero di citazioni in giudizio per danno erariale: sono 21 (su un totale nazionale di 92), mentre a seguire ci sono Lombardia (18), Puglia (11) Sicilia (10), Umbria (7), Piemonte (7), Trento (5), Calabria (4), Lazio (3) Abruzzo (2) Emilia Romagna (2) Friuli Venezia Giulia (1), Liguria (1).
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Troppe le opere pubbliche non completate.
Aumenta il fenomeno delle opere pubbliche “progettate e non appaltate, ovvero non completate o inutilizzabili per scorretta esecuzione”. Lo ha detto il procuratore generale della Corte dei Conti, Mario Ristuccia. “Le cause di questo fenomeno – spiega – che determina un ingente spreco di risorse pubbliche, sono molteplici e da annoverare nella carenza di programmazione, eccessiva frammentazione dei centri decisionali, complessità delle procedure di progettazione, dilatazione dei tempi di esecuzione imputabili alle imprese committenti ed alle amministrazioni aggiudicatrici, carenti per inadeguatezze nei controlli tecnici e amministrativi”.
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Ammende per 15 milioni.
Per la Corte “le patologie maggiormente ricorrenti negli appalti pubblici di opere, beni e servizi sono rappresentate da quelle iniziative volte alla realizzazione di un’opera pubblica senza una preventiva accurata verifica della sua concreta esiguibilità economica, tecnica, logistica, l’assenza o la superficialità in tali casi di un’analisi di fattibilità sono le cause del sorgere, in corso d’opera, di difficoltà di esecuzione  e del conseguente fallimento dell’opera o del servizio appaltati, rendendosi così vano il dispendio di risorse finanziarie nel frattempo utilizzate”. In tutto, circa 15 milioni le ammende inflitte nel 2009 per danni erariali derivanti da attività contrattuale in Italia. Lo scorso anno le sezioni centrali e regionali hanno emesso 46 sentenze per danno erariale derivante da attività contrattuale svolta dalle amministrazioni pubbliche, delle quali 29 sfociate nella condanna dei chiamati in giudizio per un importo complessivo pari a 14.858.718 euro.
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Norme superate. Il presidente Tullio Lazzaro, nel suo discorso di apertura dell’anno giudiziario dei magistrati contabili ha aggiunto: “Occorre provvedere con urgenza alla riforma della procedura per i giudizi davanti alla Corte dei Conti”. Pur dando atto della “grandissima importanza” di alcune riforme contenute nella legge-Brunetta sulla Pubblica Amministrazione, Lazzaro ritiene che l’attuale procedura che regola i giudizi contabili sia “disciplinata da norme ormai del tutto superate e inadeguate” e che dunque “possono lasciare ampio spazio a interpretazioni pretorie”, cioè fondate su una ricostruzione del giudice e non su regole certe.
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Il Pm contabile è diverso da quello penale. Lazzaro chiede, in particolare, una “attenta riflessione” sia sulle funzioni del Pm contabile, sia sulle attività di controllo e consultive della Corte dei Conti. Il Pm contabile – osserva – è una “figura ontologicamente e giuridicamente diversa dal Pm penale” per cui la riflessione sul suo ruolo è “tanto più necessaria ed urgente nel momento in cui il Parlamento è investito dell’esame di riforme del sistema giustizia”. Quanto invece  all’azione consultiva e di controllo, occorre una “esigenza di certezza” nell’interpretazione delle norme e nella valutazione di comportamenti. In particolare, il controllo “può essere un’arma forte contro i fenomeni delinquenziali nel campo della finanza pubblica”, e dunque è “logico” che “possa, potenzialmente, abbracciare ogni centro di spesa o di entrata”, tanto più che recenti sentenze della Corte costituzionale hanno riconosciuto alla magistratura contabile “compiti di coordinamento della finanza pubblica”, e tanto più in vista dell’evolversi dello Stato verso un assetto di tipo federale.
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In vista del federalismo fiscale. La Corte dei Conti “sarà inevitabilmente sempre più coinvolta nell’attuazione dell’applicazione del disegno di federalismo fiscale” che però, per essere tradotto in fatti concreti, “avrà bisogno di un’innovazione altrettanto forte della governace dell’Istituto e della linee di azione del Consiglio di presidenza” della magistratura contabile. Lazzaro ha auspicato anche un rafforzamento dei poteri del vertice della magistratura di Viale Mazzini, ulteriore rispetto a quello già ora contestato dal sindacato delle ‘toghe’ della Corte dei Conti.
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Troppa ideologia tra i giudici. Nel suo discorso inaugurale dell’anno giudiziario, il presidente ritiene che meno di 500 magistrati contabili, un numero assai inferiore delle ‘toghe’ ordinarie, non potranno che “rendere molto più facile individuare e condividere gli obiettivi e i metodi” per il migliore esercizio delle funzioni della Corte. Ma subito dopo aggiunge, con una stoccata, che “ciò sarebbe del tutto logico se ci si muovesse su direttrici avulse da preconcetti o da posizioni ideologiche, ma l’affidarsi solo al raziocinio e al senso di equilibrio istituzionale che in un tempo lontano era quasi un prerequisito per l’essere magistrati, oggi sembra divenuta merce rara”. La Corte dei Conti, conclude Lazzaro, è un istituto “ausiliario del Parlamento e del Governo”, quindi deve essere “utile ai supremi organi dello Stato”. Ed è per questo che “ciascun magistrato, prima di compiere qualsiasi attività, deve chiedersi se essa sia, non solo conforme alla legge, ma effettivamente utile”.
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17 febbraio 2010
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Rapporto dei Ros. Il boss-imprenditore rivela: “Sono entrato a Palazzo Chigi”

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Arresto di Leonardo Badalamenti figlio del boss don Tano, operato l’anno scorso dai Ros

Nel rapporto dei Ros allegato all’inchiesta fiorentina sugli appalti della Protezione civile
spuntano anche i nomi di Micciché e Dell’Utri. E viene fuori anche Tesauro

Il boss-imprenditore rivela:
“Sono entrato a Palazzo Chigi”

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di PAOLO BERIZZI

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Il boss-imprenditore rivela: "Sono entrato a Palazzo  Chigi" Gianfranco Micciché

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FIRENZE – Un imprenditore di Cosa Nostra che arriva a Palazzo Chigi. Un giudice, Giuseppe Tesauro, in società con un funzionario ministeriale e anche imprenditore legato al clan dei Casalesi. Un commercialista mafioso, Pietro Di Miceli, che fa da mediatore con la Provincia di Frosinone per procurare un appalto a Riccardo Fusi, presidente di Btp. Ecco lo scenario che emerge dal rapporto del Ros dei carabinieri allegato all’inchiesta fiorentina sui grandi appalti della Protezione civile.
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Tutto o molto ruota intorno alla figura di Antonio Di Nardo – considerato vicino al clan dei casalesi – al quale si lega anche il personaggio più scomodo delle storie ricostruite dagli investigatori. Quello che in una telefonata sostiene di essere stato “alla presidenza del consiglio”. Lui è Mario Fecarotta, imprenditore affiliato a Cosa Nostra e legato, in particolare, alla famiglia Riina, arrestato nel 2002 per mafia e per estorsione aggravata (una mazzetta da 500 milioni). I rapporti con Di Nardo diventano “espliciti” il 27 gennaio 2009. E’ Fecarotta a chiamare: “Antonio carissimo… e allora domani a mezzogiorno e mezzo siamo lì al Ministero ok?”. Il ministero è quello delle infrastrutture. Fecarotta: “va bè all’una… all’una ci vediamo.. ti aspettiamo lì fuori…”. Non è chiaro, dai brogliacci, se i due si incontrano fuori o dentro il palazzo. Fecarotta e Di Nardo si risentono il 29 gennaio, a incontro avvenuto. E’ qui che entra in ballo la Presidenza del Consiglio. Dice l’imprenditore mafioso: “… no è importante perché poi il 25 abbiamo … fra il 10 e il 25 abbiamo questa cosa.. poi siamo stati pure da Gianfranco lì.. alla… Consiglio.. alla Presidenza del Consiglio e abbiamo due appuntamenti in Sicilia in questa settimana abbastanza importanti.. tu devi vedere con quell’amico tuo…”. A quale Gianfranco si riferiscano non è specificato. Un voluminoso dossier giudiziario sulla nuova mafia corleonese contiene il virgolettato di una vecchia telefonata tra Fecarotta e l’allora viceministro dell’economia Gianfranco Micciché. E’ l’11 giugno 2001. Fecarotta, socio di Giuseppe Salvatore Riina, figlio di Totò, chiama Micciché al cellulare chiedendogli di intercedere per l’apertura di un conto corrente bancario.

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C’è poi il nome di Giuseppe Tesauro, giudice costituzionale dal 2005 e presidente dell’Antitrust fino al 2004. Stando alle carte Tesauro risulta socio dal 2007 (nella Paese del Sole immobiliare) di Antonio Di Nardo, funzionario del Ministero delle infrastrutture e socio occulto del consorzio di costruttori “Stabile Novus”. Nelle 20mila pagine del rapporto del Ros saltano fuori, questa volta esplicitamente, anche i nomi di Gianfranco Micciché e Marcello Dell’Utri. Citati sempre in riferimento a Riccardo Fusi. Il 5 maggio 2009 Elena David dell’UNA Hotel – una catena riconducibile a Riccardo Fusi – dice di aver ricevuto una richiesta di sconto per l’alloggio negli alberghi della catena da parte di Francesco Costanzo (definito “quello che organizza la roba per Dell’Utri e Micciché”).
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Ancora Fecarotta e Di Nardo. E’ il 12 marzo 2009. “Vorrei portare una persona con me a Bruxelles, un interlocutore valido, solo che non ho potuto parlare con la persona che volevo portarmi con me.. Penso che ci parlerò lunedì”, dice Di Nardo. Buscemi richiama Di Nardo per sapere se va a Bruxelles. “Sì, però richiamami domani”. Secondo i carabinieri l'”interlocutore valido” destinatario dell’invito di Di Nardo sarebbe il provveditore alle opere pubbliche del Lazio Giovanni Guglielmi.
(ha collaborato Mario Neri)
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17 febbraio 2010
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STRANE FESTE – Il Sanremo dei Mariposa

STRANE FESTE

Il Sanremo dei Mariposa

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di Mariposa
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Al Festival di Sanremo i Mariposa non ci andranno. Ma, nonostante tutto, il supergruppo italiano ha deciso di festeggiare comunque regalando al pubblico un nuovo brano. Che, forse, avrebbe meritato di risuonare sul palco dell’Ariston…
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Li gens de San Rëmu navigou san remu (la gente di Sanremo naviga senza usare i remi)

I Mariposa e Sanremo

ASCOLTA E SCARICA IL BRANO

Anche il nome della città di Sanremo è una truffa. Pare che infatti la città dei fiori prenda il nome da San Romolo: San Romolo quindi dà il nome a Sanremo, ristabilendo un parziale equilibrio tra i due fratelli litigiosi. Se quindi già dal nome ci troviamo evidentemente nella patria del “Great Rock and Roll Swindle”, i Mariposa che sono notoriamente, “only in it for the money”, hanno deciso di donare all’etere italiano e al web un brano nuovo di zecca che uscirà oggi in contemporanea con l’inizio del 60esimo Festival dell Canzone Italiana.

Il brano si intitola, per non lasciar spazio a dubbi fastidosi, Sanremo. Una piccola storia ignobile ambientata proprio al Casinò della città rivierasca, dove una vecchietta intenta a dilapidare la pensione su una slot machine viene colta da un malore quando un’altra vecchietta vince giocando sulla slot dove lei aveva puntato fino a poco prima.

Musicalmente Sanremo prende sul serio il concetto di “canzone sanremese”: quel che sentirete è la personale declinazione del suono Ariston da parte dei Mariposa, con tanto di grande orchestra, crescendo finale e stecca del cantante. La canzone, oltre a fungere da sigla per il nuovo programma Lo strano caso di Sanremo a Radio Fragola dell’omonima emittente triestina, sarà radiodiffusa da numerose emittenti via etere e online.

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fonte: http://xl.repubblica.it/dettaglio/79780

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info disco

Sanremo (5.07)
testo: Fiori
musica: Canè, Cimino, Fiori, Gabrielli, Giusti, Marchi, Orvieti

Mariposa:
Valerio Canè, Enzo Cimino, Alessandro Fiori, Enrico Gabrielli, Gianluca Giusti, Rocco Marchi, Michele Orvieti.

Orchestra Intercontinentale della Toscana e di San Paolo del Brasile:
Rodrigo D’Erasmo e Enrico Gabrielli

Registrata e missata da Roberto Rettura a Bologna e Milano nel gennaio2010
Prodotta dai Mariposa

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fonte:  http://www.naufragati.com/index.php/discografia/sanremo/