Archivio | gennaio 4, 2010

Il presidente Obama nomina il primo zar transessuale della storia Usa.Il presidente Obama nomina il primo zar transessuale della storia Usa

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di Alessandra Farkas

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NEW YORK –Chi continua ad accusarlo di essere soltanto una creazione dei mass media, tutto fumo e niente arrosto, dovrà ricredersi. Dopo aver salvato l’economia con il bail out, varato la rivoluzionaria riforma sanitaria  e rimesso gli Usa in gara per combattere l’effetto serra,  Barack Obama passerà alla storia come il primo presidente americano ad aver nominato uno zar transessuale nella sua amministrazione.

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Amanda Simpson, membro del consiglio d’amministrazione del National Center for Transgender Equality, è stata scelta da Obama come Consigliere Capo del Ministero del Commercio Usa. Una nomina immediatamente applaudita dalle organizzazioni gay e transgender americane. “Obama è il primo presidente della storia ad aver nominato ad un’alta carica dello stato un individuo apertamente transessuale”,  afferma  sul suo sito web il Gay & Lesbian Victory Fund, uno dei gruppi gay più antichi e autorevoli del paese.

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“Questa nomina è un grande onore per me e non vedo l’ora di lanciarmi in questa grande opportunità che mi si apre davanti”, ha commentato la diretta interessata, “Inoltre, come una delle prime persone transessuali nominate dal presidente, spero che presto ce ne siano altre centinaia e che questa nomina apra le porte per molti altri”.

L’annuncio ha spaccato in due l’America. Da una parte c’è la gioia dei progressisti, già mobilitati in tutto il paese per far approvare le nozze tra persone dello stesso sesso. Dall’altra l’ira dei conservatori, scandalizzati da ciò che definiscono “La nuova Sodoma e Gomorra Obamiana”.

Contro il vetriolo della blogosfera di destra, secondo cui Obama avrebbe scelto la Simpson solo per dare un contentino ai gay che hanno votato per lui, la Casa Bianca ribatte mostrando l’impeccabile curriculum vitae della prescelta: trent’anni di esperienza nel settore aerospaziale e della difesa Usa, plurime lauree in fisica, ingegneria ed economia.

Dopo aver fatto pace con i nativi americani – risarcendo le tribù per i beni a loro defraudati per decenni dal governo federale – l’amministrazione Obama ha già battuto quella Clinton anche nelle politiche pro-gay. In meno di un anno Obama ha già nominato 100 funzionari apertamente gay, contro i 140 scelti da Clinton in ben 8 anni alla Casa Bianca.

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march2.jpg . 04 gennaio 2010 fonte:  http://route66.corriere.it/2010/01/il_presidente_obama_nomina_il.html

Ecuador, il paradiso cancellato dalla Texaco

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Sono ancora visibili tracce di paradiso. Dall’alto, la foresta pluviale del nord dell’Ecuador – nota con il nome di Oriente – sembra un arazzo di nebbia argentata punteggiato da chiazze di fogliame verde. Ma sotto il manto di nubi e di vegetazione, la giungla è un groviglio di chiazze nere di petrolio, di torbida fanghiglia e di tubature ossidate. Colonne di fumo sgorgano dal suolo vomitando aria calda che brucia la gola. Le acque di riflusso filtrano nel terreno raggiungendo le acque del sottosuolo per poi passare nei fiumi e nei ruscelli.

Questo paesaggio da incubo è l’eredità lasciata dalla multinazionale petrolifera Texaco. Tra il 1964 e il 1990 la Texaco (comprata dalla Chevron nel 2001) scavò nella foresta pluviale amazzonica all’incirca 350 pozzi su una superficie di 2.700 miglia quadrate. Ne ricavo più o meno 30 miliardi di dollari di profitti scaricando nei ruscelli e nei fiumi nei quali la popolazione prende l’acqua potabile, pesca, fa il bagno e nuota, 18 miliardi di galloni di liquidi inquinanti, una sorta di miscela tossica di petrolio, acido solforico e altre sostanze cancerogene. Durante la sua attività la Texaco costruì oltre 900 pozzi per la raccolta dei residui petroliferi, alcuni delle dimensioni di una piscina olimpica. Ma a differenza delle piscine olimpiche questi pozzi erano vere e proprie ferite nella Terra. In assenza di muri di cemento atti a proteggere il suolo circostante, le sostanze inquinanti penetrarono nelle acque freatiche.

Avevo sentito parlare di quella che veniva chiamata «la Chernobyl della Chevron in Amazzonia», ma ero tutt’altro che preparata allo spettacolo tremendo cui ho assistito in Ecuador. Ho tenuto in mano una libellula coperta di petrolio che tentava disperatamente e inutilmente di aprire le ali. Ho visto impronte di cinghiale nel fango non lontano dalla poltiglia di petrolio dove aveva mangiato erba contaminata che avrebbe poi avvelenato uomini, donne e bambini della zona che si nutrivano di quanto lasciato dalla Chevron. Ho conosciuto un uomo i cui due figli erano morti dopo aver fatto il bagno nelle acque inquinate. Uno era morto nel giro di 24 ore. L’altro era deceduto dopo sei mesi di terribile e dolorosa agonia. Ho conosciuto un altro uomo la cui casa si trova a poche centinaia di metri dai pozzi. Ha dieci figli. Tutti si sono ammalati, alcuni sono ricoperti di piaghe. Tutte le galline e tutti i maiali della sua fattoria sono morti. Nulla cresce nei pressi della sua casa.
Ho visto un pozzo avvelenato abbandonato dalla Texaco nel 1974 e mai più utilizzato da altre compagnie petrolifere. Dalle condutture che partono dal pozzo fuoriesce un liquido chiaro. Quando ho annusato il liquido ho avvertito un distinto odore di benzina. Il liquido finisce in un vicino ruscello che rappresenta la principale fonte di acqua potabile per quanti vivono lungo le sue sponde.

Abbiamo ascoltato storie terrificanti sui maltrattamenti cui erano sottoposti i lavoratori della Texaco: donne violentate, sciamani portati su remote catene montuose per vedere se erano capaci di ritrovare la strada di casa, indios cui veniva detto che strofinando il petrolio sulla testa rasata i capelli sarebbero cresciuti lunghi e forti, il tutto mentre i camion della Texaco rovesciavano i residui del petrolio sulle strade dove la gente camminava scottandosi sul catrame arroventato. Non è una faccenda di romantica nostalgia. E’ una questione di diritti umani – di violazione lampante del diritto degli indigeni dell’Ecuador ad una vita decorosa e sicura e all’autodeterminazione. Quando gli uomini della Texaco scesero dagli elicotteri nella giungla nei primi anni ’60, regalarono alla gente del luogo pane, formaggio piatti e bicchieri. A tutt’oggi e’ la sola ricompensa toccata alle popolazioni indigene che vivono da queste parti
I funzionari della Texaco prima di concludere un accordo con il governo dell’Ecuador non hanno sentito il dovere di chiedere l’autorizzazione alla popolazione locale. La Texaco sapeva che ci sarebbero stati dei morti a seguito della sua attività petrolifera, ma non diede alcuna importanza alla cosa. Si calcola che siano morti 1.400 uomini, donne e bambini per malattie correlate all’inquinamento causato dalla Texaco. L’incidenza dei tumori nelle popolazioni che vivono nelle aree interessate dallo sfruttamento petrolifero è 30 volte superiore rispetto ad ogni altra regione del Paese. Diverse organizzazioni mediche hanno documentato tassi elevati di malformazioni congenite, aborti, malattie della pelle e patologie del sistema nervoso.
Due gruppi nomadi che un tempo abitavano nella regione, i Tetetes e i Sansahuari, sono stati cancellati. Si può affermare che la Texaco si e’ resa responsabile di un vero genocidio. I restanti indigeni dell’Oriente – i Cofan, i Siona, i Secoya, i Kishwa e il popolo Huaorani – hanno deciso di battersi contro la Chevron. Grazie ad una organizzazione chiamata «Frente de Defensa de la Amazonia» (Fronte di Difesa dell’Amazzonia), chiedono semplicemente alla Chevron, con una class action che non ha precedenti, di porre rimedio ai danni causati.

L’azione legale va avanti da 16 anni. La Chevron (la cui dichiarazione in materia di diritti umani dice «apprezziamo e rispettiamo le culture e le tradizioni di molte comunità nelle cui regioni di residenza lavoriamo»), ha utilizzato la tattica del rinvio e ha fatto per impedire che si arrivasse ad una sentenza. Eppure le prove dei misfatti della Texaco sono sotto gli occhi di tutti. L’anno scorso un lobbista della Chevron, di cui si ignora il nome, ha detto: «l’Ecuador ci ha insegnato una cosa: non possiamo consentire a piccoli Paesi di intralciare il lavoro di grandi multinazionali come la nostra che hanno fatto enormi investimenti in tutto il mondo». Ma come americana sono sconvolta dal fatto che una multinazionale statunitense possa trattare con un tale disprezzo gente innocente. Noi consumatori, investitori, rappresentanti eletti delle istituzioni, giornalisti, attivisti e cittadini dobbiamo fare in modo che la Chevron risponda del suo operato e che giustizia sia fatta.

Qui nell’Oriente, a 45 anni dall’inizio dell’attività di sfruttamento dei giacimenti petroliferi ad opera della Texaco e a 16 anni dall’inizio dell’azione legale delle popolazioni dell’Ecuador contro la Chevron, sono ancora visibili le tracce del paradiso. Dobbiamo fare in modo che non svaniscano per sempre. © IPS Traduzione di Carlo Antonio Biscotto @BE:BISCAR@@

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04 gennaio 2010

fonte:  http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=93311

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“Il punto G è solo fantasia”: Scienziati scatenano la polemica / A. Graziottin: “Il ‘Punto G’ esiste, è provato scientificamente” / Punto G: scoprirlo e stimolarlo

“Il punto G è solo fantasia”
Scienziati scatenano la polemica

Per la ricerca pubblicata dal Journal of Sexual Medicine, il fulcro del piacere femminile è una leggenda. I risultati sono stati ottenuti studiando 900 coppie di gemelle

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<b>"Il punto G è solo fantasia"<br/>Scienziati scatenano la polemica</b>
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LONDRA – Il punto G esiste, il punto G non esiste. M’ama non m’ama. La zona erogena più discussa del pianeta, adesso è stata di nuovo messa in discussione. Ad affermare che sia frutto dell’immaginazione di alcuni stavolta è un gruppo di scienziati del King’s College di Londra guidati dal ricercatore Andrea Burri. Secondo loro non esistono prove certe del punto erogeno che resta più probabilmente frutto della fantasia della donna. La ricerca, pubblicata dal Journal of Sexual Medicine, sostiene che il fulcro del piacere femminile sarebbe un mito propagandato dalle riviste e da alcuni terapisti.
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“Alcune donne sostengono non solo di avere il punto G, ma anche che la sua maggiore o minore attività sia dipendente da fattori come la dieta o l’esercizio fisico. In realtà è praticamente impossibile trovare prove tangibili dell’esistenza di questo punto erogeno” ha spiegato Tim Spector, docente di Epidemiologia genetica e coautore della ricerca inglese.
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La conclusione dei ricercatori si basa sul risultato di un sondaggio effettuato su oltre 900 coppie di gemelle britanniche, mono o eterozigoti. Nonostante i gemelli identici condividano i geni, infatti, durante lo studio all’interno delle coppie di gemelle identiche sono emerse forti differenze tra le donne che affermavano di avere il punto G e le loro sorelle gemelle identiche che dicevano di non averlo.
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“Questo è di gran lunga il più grande studio mai effettuato sull’argomento – ha detto Burri – e dimostra abbastanza definitivamente come l’idea di un punto G sia del tutto soggettiva. Spesso quella che viene considerata l’assenza del punto G è un modo per dare una spiegazione alle sensazioni di inadeguatezza o scarso rendimento sessuale. Non si può affermare l’esistenza di qualcosa che non è mai stato realmente individuato”.

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Il punto Gräfenberg, o punto G, è stato chiamato così in onore del ginecologo tedesco Ernst Gräfenberg, che lo descrisse per la prima volta oltre 50 anni fa, e recentemente, proprio in Italia, nuove ricerche sembravano aver reso possibile la sua individuazione utilizzando scanner a ultrasuoni. Contro la ricerca inglese si è subito espressa la sessuologa Beverley Whipple, che da sempre avvalora l’idea del punto G. Secondo il suo giudizio lo studio dei ricercatori del King’s College “è pieno di crepe”: avrebbero ignorato le esperienze delle lesbiche o delle donne bisessuali ed errato nel considerare gli effetti di avere differenti partner sessuali con differenti tecniche amatorie.
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Contro la ricerca anche Emmanuele Jannini, ricercatore e docente di sessuologia medica all’università dell’Aquila, che il punto G l’ha proprio fotografato. A prova del suo scetticismo, Jannini punta il dito su alcuni aspetti deboli dello studio londinese. “Non è detto che il punto G abbia un’origine genetica – spiega – e non sia piuttosto legato a una differente esposizione agli ormoni durante la vita fetale, diversità che può sussistere anche tra gemelli. A maggior ragione considerando che il clitoride è tra gli organi più sensibili al testosterone”. Con questo il sessuologo riapre la questione che, a suo avviso, la ricerca inglese non ha risolto. E aggiunge così un altro tassello per sollevare ulteriori, amletici, dubbi.
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04 gennaio 2010
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Alessandra Graziottin: “Il ‘Punto G’ esiste, è provato scientificamente

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(AGI) – Roma, 4 gen. – Il punto ‘G’ non e’ una bufala, esiste davvero ed e’ provato ampiamente. La prof.ssa Alessandra Graziottin, direttore del centro di Gincecologia del S.Raffaele Resnati di Milano, non ha dubbi, malgrado lo studio inglese condotto su 900 coppie di gemelle secondo cui il punto G altro non e’ che una condizione mentale. “Niente affatto – replica la ginecologa – sappiamo benissimo cos’e’ il punto G: e’ un residuo embrionale della prostata nella vagina, fa parte della struttura di Wolf, che nel maschio si sviluppa e nella donna si cancella tranne appunto, a volte, il cosiddetto punto ‘G’.

Quindi che esista fisicamente e’ certo, come e’ certo che influisca sulla potenza e l’intensita’ dell’orgasmo femminile: studiando le donne che sostenevano di avere il punto G e avevano intensi orgasmi, gia’ Beverly Whippel ha scoperto che la loro vagina dopo l’orgasmo emette delle gocce di liquido che ha tutte le caratteristiche del liquido prostatico, con il PSA per intenderci. Il che significa che l’orgasmo e’ legato alle contrazione di ghiandolette associate a un residuo embrionale, che possiamo chiamare punto ‘G'”. In ogni caso le variabili da donna a donna, e persino tra gemelle identiche, sono moltissime: “Intanto la presenza o no del residuo nella vagina, poi il grado del suo sviluppo, e infine, last but non least, il grado di eccitazione mentale e fisica della donna e le qualita’ amatorie del partner”. Per questo anche tra gemelle e’ possibile che ci sia chi ce l’abbia (o meglio, che sappia di averlo) e chi no: “Quando in gioco sono i comportamenti, soprattutto quelli sessuali – avverte la ginecologa – non c’e’ mai concordanza al 100% tra due eprsone, neanche se sono gemelli monozigoti. Perche’ i fattori sono genetici, ma anche educazionali e ambientali”.

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fonte:  http://salute.agi.it/bollettini/attualita/201001041725-att-rsa1027-sesso_graziottin_il_punto_g_esiste_e_provato_scientificamente

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http://phorum.hardcore.lt/file.php?12,file=7225

Punto G: scoprirlo e stimolarlo

Ecco come trovare uno dei punti che se stimolati, danno più piacere alla donna

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a cura di Emanuela _Cerri

Redazione di Girlpower

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Anzitutto va detto subito che il punto G, contrariamente a quanto avrete certamente sentito dire, non è un bottone magico che basta toccare per avere un orgasmo ma piuttosto un’area piacevole da stimolare per alcune donne. Insomma non mitizziamolo tanto, semplicemente trattiamolo con rispetto…

Infatti, sebbene tutte le donne lo hanno purtroppo non tutte sono sensibili e/o provano piacere in quel punto. Perchè si chiama così? Non perchè in origine la donna fosse un gigantesco alfabeto, bensì perchè il suo scopritore si chiamava Grafenberg.

Molte donne dicono che essere stimolate in quella zona procura loro degli orgasmi più intensi rispetto alla penetrazione del pene. Quando viene fatta pressione nel punto G molte donne hanno lo stimolo di urinare tuttavia questa sensazione, se si continua a stimolare la parete, diminuisce automaticamente, provocando, in poco tempo, un piacere intenso che porta molto spesso a delle vere e proprie eiaculazioni e permettendo, in molti casi degli orgasmi multipli.

A Lui/lei: non siate precipitosi! Masturbatela sempre con molta delicatezza e pazienza, a lei piace di più! A lei: non vi scoraggiate se il punto G a voi non fa effetto. Ricordate che in materia di corpo umano e sesso siamo tutti diversi. E adesso la risposta alle domande che ci vengono poste più frequentemente

Cosa e’il punto G?
Per i sessuologi la posizione che procura le sensazioni più piacevoli alle donne non è certamente quella cosiddetta del missionario. Infatti l’organo sessuale maschile in tal modo eccita la parete posteriore della vagina, ma non quella anteriore, dove si trova il punto G. Si tratta di un piccolo fascio di terminazioni nervose che, se correttamente stimolato, produce un grado di soddisfazione inaspettato. Neanche a farlo apposta, il punto G in effetti è la parte meno agevole da rintracciare nell’anatomia femminile. Comunque, la sua stimolazione meccanica si ha in tutte le posizioni in cui la donna sta sopra. Il punto G allora si gonfia e assume la forma di una piccola massa che sporge, come un bottoncino.

Ha qualcosa a che fare con la “eiaculazione” femminile?
Se la stimolazione continua, l’utero comincia a contrarsi fino a produrre un orgasmo molto particolare, che talora si accompagna alla produzione di un liquido chiaro. Le analisi di laboratorio hanno rivelato che questo fluido è simile alla composizione del liquido prodotto dalla prostata, che ha il compito di proteggere gli spermatozoi. Proprio per questa ragione i ricercatori hanno ipotizzato che il punto G sia un abbozzo di prostata. Il punto G resta comunque uno degli aspetti più misteriosi del corpo femminile. Si è pensato anche che possa avere un ruolo nella maternità. L’orgasmo profondo prodotto dalla stimolazione del punto G è infatti spesso accompagnato da una sensazione di spinta verso l’esterno. Poiché il punto può essere stimolato anche dalla discesa del feto durante il parto, sembra possibile che il punto G abbia una funzione di aiuto alla nascita. Per strano che possa sembrare, ci sono donne, che malgrado i dolori del travaglio, raggiungono un orgasmo proprio durante l’espulsione del bambino.

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Come si può stimolare il punto G dalla propria partner durante il rapporto?
Per la maggior parte delle donne il punto G è collocato nella parete anteriore della vagina ad una profondità di circa 4-5 cm proprio dietro la localizzazione esterna della clitoride. Il motivo per cui dico “la maggior parte delle donne” è che per alcune può essere differente. Il punto G è grande più o meno quanto una piccola monetina e quando stimolata propriamente si dilata un po’ e cambia leggermente struttura. Alla maggior parte delle donne sono necessari lunghi preliminari e stimolazione sessuale prima che il punto G possa loro procurare piacere. Per alcune donne la stimolazione del punto G non è veramente un granché mentre per altre può condurre ad un orgasmo intenso l’intero corpo e perfino a stati alterati della coscienza. E poi ci sono quelle donne che hanno eiaculazine femminile con la stimolazione del punto G. Per tutto ciò la chiave sembrano essere preliminari prolungati ed una lunga stimolazione manuale e/o orale o un lungo rapporto. Per farla breve: occorre durare tanto a lungo quanto è necessario alla partner per avere un orgasmo del punto G durante il rapporto!

Le migliori posizioni adatte a questo scopo sono quelle da dietro con lei sul suo stomaco, la cosiddetta “pecorina” (con lui leggermente sopra di lei), lei sopra (lasciare che faccia lei) e con lui inginocchiato e lei seduta con le sue gambe intorno alla tua vita, mentre lui afferra l’anca e la tira mentre la penetra (il pene deve entrare con un angolazione all’insù per colpire il punto G). Una variante per chi ha muscoli d’acciaio, e’ quella con l’uomo disteso sulla schiena, e la donna inginocchiata di tergo, che si siede sul pene dell’uomo. Il punto G , verra’ stimolato dalla punta del pene ad ogni colpo.

Individuare il Punto G
Mentre la donna giace sul dorso, inserite uno o due dita nella vagina in modo da tenere il palmo della mano rivolto verso l’alto. Successivamente piegate leggermente le dita. Come detto in precedenza la parete sulla quale si trova il Punto G è una superficie rugosa, proseguite tra la vescica e la pelvi, li si trova un’area molto sensibile. E’ molto probabile che non si riconosca al tatto (comunque è caratterizzata da una forma a cupoletta tondeggiante), fai in modo che sia Lei (la diretta interessata) a guidarti. Non eccedere nella ricerca perchè è possibile che alla vostra partner la pressione esercitata dia fastidio, quindi cambiare stimolazione e rimandare alla prossima volta la ricerca del Punto G. Se pur difficile da trovare, il Punto G è estremamente divertente da cercare. Buona Fortuna!!

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fonte:  http://www.girlpower.it/sex/guide_erotiche/punto_g.php

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Gaza, riaperto il valico di Rafah. Stampa Israele: c’è un piano di pace Usa

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Hamas: in caso di guerra combatteremo a fianco di Hezbollah

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ROMA (4 gennaio) – Il posto di frontiera di Rafah, al confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, resterà aperto fino a martedì per permettere ai palestinesi di attraversarlo nei due sensi: lo hanno comunicato fonti ufficiali. Testimoni hanno riferito che, subito dopo l’apertura, molti palestinesi hanno varcato il confine in direzione della Striscia, mentre circa 120 – soprattutto studenti e persone che necessitano di cure mediche – si sono messi in fila per andare in Egitto, dove è stato allestito un presidio medico che esamina i malati e stabilisce dove possono andare a farsi curare.

Stampa israeliana: c’è un piano di pace degli Usa. Gli Stati Uniti hanno formulato un «piano di pace» per riportare israeliani e palestinesi al tavolo dei negoziati, fermi da oltre un anno, secondo quanto ha riferito oggi il quotidiano Maariv di Tel Aviv. Il piano, che dovrebbe essere discusso dal presidente dell’ Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen col presidente egiziano Hosni Mubarak nell’odierno incontro a Sharm El-Sheikh, stabilisce l’immediata ripresa dei negoziati di pace, fissando una scadenza massima di due anni per la conclusione di un accordo.

L’agenda dei colloqui. La prima voce sull’agenda dei colloqui sarà quella dei confini del futuro stato di Palestina. L’intento è quello di arrivare a un’intesa entro nove mesi che, sulla base di uno scambio di territori, concili la richiesta palestinese di un totale ritiro di Israele alle linee di confine antecedenti il conflitto del 1967 con quella dello stato ebraico di confini difendibili. Solo ad accordo raggiunto le parti affronteranno poi anche le altre spinose questioni in contenzioso, come l’assetto politico permanente di Gerusalemme e la questione dei rifugiati palestinesi. Secondo il Maariv, i palestinesi riceveranno dagli Stati Uniti una lettera di garanzia che il termine di due anni per la conclusione del negoziato è definitivo e che, in caso di insuccesso delle trattative, gli Stati Uniti appoggeranno la richiesta palestinese di avere uno Stato la cui superficie non sia inferiore a quella della Cisgiordania prima dell’ occupazione israeliana nel 1967. Secondo il giornale è prevedibile che gli Stati Uniti diano anche a Israele una lettera di garanzie che riconfermi il contenuto della lettera inviata nel 2004 dal presidente George W. Bush al premier israeliano Ariel Sharon, stando alla quale un accordo di pace deve tenere conto dei cambiamenti verificatisi in Cisgiordania in 40 anni di occupazione israeliana.

Lo sforzo per riportare Abu Mazen al tavolo. Infine, secondo il Maariv, è probabile che sarà esercitato uno sforzo diplomatico per una decisione della Lega Araba che esorti Abu Mazen a tornare al tavolo dei negoziati. A questo fine anche il presidente israeliano, Shimon Peres, avrebbe avuto di recente frequenti colloqui telefonici con Abu Mazen, d’intesa col premier, Benyamin Netanyahu, che la scorsa settimana era stato dal presidente Mubarak per sottoporgli sue proposte per rilanciare i negoziati di pace.

Hamas: in caso di guerra saremo a fianco di Hezbollah. Se ci sarà una nuova guerra tra Israele e Hezbollah, il movimento palestinese Hamas combatterà al fianco del gruppo sciita libanese. Lo hannunciato il rappresentante di Hamas a Beirut, Ali Baraka, citato dalla radio dell’esercito israeliano. «Israele deve sapere che se deciderà di attaccare, non staremo a guardare e affiancheremo i nostri fratelli contro la brutalità israeliana, che sia la resistenza, l’esercito o il popolo a reagire all’aggressione – ha detto il dirigente di Hamas in occasione della cerimonia commemorativa di due esponenti del movimento uccisi nelle scorse settimane da un’esplosione a Beirut – Rimaniamo impegnati a resistere alle forze di occupazione israeliane».

Abbattute costruzioni illegali nell’insediamento di Hebron. Le forze di sicurezza israeliane, insieme a funzionari della locale amministrazione civile, hanno abbattuto questa mattina alcune costruzioni illegali nei pressi dell’insediamento di Negahot, sulle colline di Hebron. E’ quanto si legge sul sito del quotidiano Jerusalem Post, secondo il quale sono state rimosse tre strutture in legno e una tenda che, secondo le autorità, rappresentavano un tentativo di dar vita a un insediamento illegale. Un gruppo di persone, tutte appartenenti alla stessa famiglia, è stato evacuato dalla zona.

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=86412&sez=HOME_NELMONDO

Valico di Rafah

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ECCO PERCHE’ CONVIENE LAVORARE ALL’ESTERO: Gli stipendi lordi degli italiani sotto la media Ue del 32,3%

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I REDDITI

Gli stipendi lordi degli italiani
sotto la media Ue del 32,3%

Non solo tasse, pesano i contributi sociali. L’Ocse: buste paga al 23esimo posto

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ROMA — Non è solo un problema di tasse. È vero che l’imposizione fiscale fa del suo meglio, ma se le buste paga degli italiani, che nel 2008 secondo i dati anticipati dal Corriere della Sera, hanno denunciato un reddito medio di 19.100 euro, sono tra le più basse in Europa e tra i Paesi industrializzati, è colpa anche dei salari lordi troppo bassi e dei contributi sociali molto alti che gravano sui lavoratori e sulle imprese. E un po’ anche dell’università che in Italia, a differenza di moltissimi altri Paesi, non rappresenta un investimento redditizio per ottenere salari più alti nella carriera lavorativa.

Secondo le ultime classifiche dell’Ocse gli stipendi netti degli italiani sono al ventitreesimo posto nella classifica dei trenta Paesi più industrializzati che aderiscono all’organizzazione. E se si considera lo stipendio al lordo delle ritenute fiscali e dei contributi, la nostra classifica migliora solo di una posizione. A parità di potere d’acquisto, lo stipendio di un lavoratore italiano single senza figli è pari a 30.245 dollari, e nella graduatoria Ocse siamo davanti solo alla Repubblica Ceca, l’Ungheria, il Messico, la Nuova Zelanda, la Polonia, il Portogallo, la Slovacchia e la Turchia. E nella classifica che considera il salario netto, pari per un italiano a 21.374 dollari, ci supera pure la Nuova Zelanda. La nostra distanza dalla testa della classifica, che vede al primo posto per il salario netto la Corea (39.931 dollari), seguita da Regno Unito (38.147) e dalla Svizzera (36.063), è siderale. Ma siamo molto lontani anche dalla Germania (29.570 dollari) e dalla Francia (poco più di 26 mila).

Per farla breve, basti considerare che i salari lordi italiani sono più bassi del 32,3% rispetto alla media dell’Europa a quindici. Naturalmente, siamo ben sotto la media dei 30 Paesi Ocse, con un 16% per cento abbondante in meno. Le differenze del salario tra gli italiani e i loro concittadini europei appaiono ancor più macroscopiche se si considerano i valori assoluti degli stipendi: 26.191 euro lordi per un lavoratore medio italiano, 32.826 per un francese, 43.942 per un tedesco e poco meno per un olandese. Solo spagnoli, greci e portoghesi, ma senza considerare l’inflazione, le tasse ed i carichi sociali previdenziali, sono dietro. E il peggio è che con il tempo, da noi, le cose stanno peggiorando.

In vent’anni, secondo uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il valore degli stipendi degli italiani rispetto al prodotto interno lordo è diminuito di quasi il 13%, contro una flessione media dell’8% registrata nei 19 Paesi più avanzati. I salari reali, secondo l’agenzia dell’Onu, considerati a parità di potere d’acquisto, sono crollati in Italia di quasi il 16% tra il 1988 ed il 2006. Il calo più forte, manco a dirlo, che si è registrato tra i primi undici Paesi industrializzati del mondo, superiore pure a quello della Spagna (-14,5%).

Colpa delle tasse, ma non solo. Pesano, e tanto, anche i contributi sociali. In particolare quelli a carico dei datori di lavoro: nella classifica Ocse l’Italia è addirittura ventiseiesima, seguita solo da Svezia, Repubblica Ceca, Ungheria e Francia (dove però c’è una tassazione del lavoro più bassa). Fatta la somma, la pressione tributaria complessiva sulla busta paga media di un italiano è pari al 46,5% del costo del lavoro, ed è più alta solo in Germania, Belgio, Austria e Francia. Così l’Italia occupa la posizione numero 19 nella graduatoria del costo del lavoro: con un valore di 39,9 siamo quasi alla metà della Germania (61,6) e di gran lunga sotto la Francia (51,2). Anche se negli anni il nostro Paese non pare proprio che sia riuscito a sfruttare questo vantaggio competitivo.

Sul banco degli imputati, allora, vanno pure le imprese ed il sistema dell’istruzione. E anche qui è l’Ocse ad illuminare con luce tetra la situazione del nostro Paese, uno dei pochi al mondo dove una laurea non garantisce affatto salari dignitosi e dove le imprese sembrano assai poco disposte a premiare la manodopera più qualificata. E le donne. Anche se sono dei geni.

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Tra il 1998 ed il 2004 in Italia il differenziale di stipendio tra un lavoratore laureato ed uno che ha fatto solo la scuola dell’obbligo, è diminuito del 6,2%, del 5% se si considerano i lavoratori con il diploma di scuola secondaria superiore. È, ancora una volta, la flessione più consistente che si è registrata tra i 22 Paesi più industrializzati del mondo. Ma non è l’ultimo record negativo, perché a parità di livello di istruzione con gli uomini, le donne italiane sono quelle che guadagnano meno di tutte rispetto agli altri Paesi industrializzati del mondo. In media, il 50% in meno.

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Mario Sensini
04 gennaio 2010

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fonte:  http://www.corriere.it/economia/10_gennaio_04/redditi_6f4e8b70-f903-11de-9441-00144f02aabe.shtml

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La Fondazione di Fini, FareFuturo, su Feltri: E’ un “capo-popolo e non rappresenta gli elettori del Pdl, e la sua retorica ricorda quella dei fascisti della prima ora”

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Un articolo sul sito della fondazione del presidente della Camera, Gianfranco Fini
“Si è autoproclamato unico depositario degli umori e delle idee del centrodestra”

Farefuturo si scaglia contro Feltri
“Non rappresenta gli elettori del Pdl”

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di CARMINE SAVIANO

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ROMA – Non si ferma lo scontro tra Gianfranco Fini e Vittorio Feltri. Il direttore del Giornale è un “capo-popolo e non rappresenta gli elettori del Pdl e la sua retorica ricorda quella dei fascisti della prima ora”. La dura presa di posizione arriva in un articolo pubblicato stamattina da FareFuturo Web Magazine il giornale online della fondazione del presidente della Camera. In pratica una risposta all’editoriale con cui Feltri aveva criticato il messaggio di fine anno del capo dello Stato e agli attacchi del Giornale a Renata Polverini candidata alla presidenza della Regione Lazio. “Così proprio non va”, scrive Filippo Rossi.

In un editoriale pubblicato sabato scorso, Feltri aveva scritto: “Non critichiamo Napolitano per quanto ha detto, ma per averlo solo detto. Perché dire e non fare è inutile”. Parole non condivise da FareFuturo, soprattutto per il possibile impatto di queste posizioni tra gli elettori del centrodestra. “Eccoci qui a dover polemizzare con il ‘Montanelli del nuovo millennio, quel Vittorio Feltri che si è fatto re senza popolo, generale senza esercito”. E non manca una stoccata al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Il ruolo di Feltri dipende dal fatto che “il suo quotidiano appartiene, casualmente, alla famiglia del leader del centrodestra”.

Diversa la posizione della fondazione di Fini. “Quello che non va, è il fatto che gli ultrà vogliano invadere il campo della gente normale”. Un’operazione che a lungo andare può essere pericolosa, perché “la retorica barricadera del muro contro muro” s’impossessa “di chi non ha nessuna intenzione di stare in guerra, di odiare, di urlare”. E ancora: “La risposta di Feltri ricorda la retorica dei fascisti della prima ora, quelli che pensavano di essere depositari dell’anima genuina del regime”. Ma, per FareFuturo, la politica “non è questione di identità forti. E questione di dialogo e, ancor di più, di analisi dei problemi”. E non si può ridurre al “tifo da stadio, anche se il Corriere dello Sport appare molto più problematico del Giornale”.


Un dialogo che, a volte, può anche portare a rivedere le proprie posizioni. Nell’articolo di FareFuturo si prende di mira anche un’altra frase di Feltri riferita al discorso di fine anno di Naspolitano, “ciò che è rosso non può essere condiviso da chi è bianco”. E si replica: “Della serie, è proibito cambiare idea. Della serie, è reietta ogni forma di complessità”, un “modo postmoderno per bruciare i libri, per sputare addosso alla cultura”. E ancora: “Per mettersi una divisa e non togliersela più. E a noi che siamo di destra non ci rimane che ricordare una frase di Giuseppe Prezzolini: “La coerenza è la virtù degli imbecilli'”.

Quello tra il giornale e FareFuturo è uno scontro che va avanti da mesi e che si è acuito nelle ultime settimane. Il 5 dicembre 2009 FareFuturo definiva Feltri “un difensore che segna sempre nella propria porta”, e il 16 dello stesso mese “il nemico interno del centrodestra”. Durante le festività natalizie era scoppiata la lite sui cinepanettoni, con il Giornale che aveva definito la fondazione di Fini “un animale dall’immenso prurito che ogni giorno si danna per grattare via le ultime crosticine di autoritarismo e rendersi autorevole”.

Sul Giornale di questa mattina c’è spazio anche per un botta e risposta tra Daniela Santanché e Vittorio Feltri. Il tema è la candidatura di Renata Polverini. Con la Santanché che difende la scelta: “Direttore ti sbagli, io donna di destra sto con la Polverini”.

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04 gennaio 2010

fonte:  http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/politica/regionali-2010-2/polverini-feltri/polverini-feltri.html?rss

IMMIGRAZIONE & INGIUSTIZIA – Sei nato in Italia? Allora non sei Italiano

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Caro Samir, gli esami finiranno solo nel 2018

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di Khalid Chouaki

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Caro Samir, cara Chen. Siete nati in Italia all’inizio di questo nuovo anno, il 2010. E avrete la cittadinanza italiana, salvo complicazioni eventuali, solo nel 2028. Mi chiederete il perché di tale ingiustizia. Vi rispondo: chiedetelo a zio Bossi e zio Berlusconi. Siete nati tra decine di vostri piccoli coetanei, ma forse non siete italiani perché avete il colore della pelle diversa dalla vostra compagna di culla. Il vostro nome è impronunciabile per l’infermiera. La vostra religione è ormai associata ad una pericolosa setta di terroristi. Insomma: non siete uguali ai vostri colleghi di culla perché il vostro sangue è diverso da quello degli italiani veri. Non so se i due zii B&B vi darebbero queste risposte. Ma io, da ormai ex vostro collega extracomunitario, non me la sento di prendervi in giro fin da ora. Avrete ancora tempo da qui al 2028 quando compirete i vostri diciotto anni per sentirne delle belle: gente che vorrà sottoporvi a test di lingua e cultura italiana, test di dialetto bergamasco, test adesione ai valori repubblicani, escludendo però l’articolo 8 della Costituzione, perché se siete musulmani non avrete una moschea decente dove pregare.

E intanto che ci siamo anche un test di canto dell’Inno di Mameli e una prova di tifo della nazionale di calcio. Se supererete tutto questo, allora forse, nonostante siete nati sul sacro suolo della nazione, sarete italiani. Nel frattempo avrete fatto tante lunghe file per rinnovare il permesso di soggiornare in Italia. Per diciotto anni non potrete immaginarvi né poliziotti né giudici. Né giornalisti né sindaci. E se sarete insultati o offesi perché considerati dei diversi, il vostro coetaneo potrà giustificarsi rispondendovi che l’ha sentito in tv da zia Santanchè o da zio Calderoli. Insomma, benvenuti nel Paese della civiltà dell’accoglienza cari miei Samir e Chen. Vi dico subito che la vostra unica speranza sarà in un bravo parroco del vostro oratorio o in una delle tante maestre dalle ampie vedute. Un paese, il nostro, che regredisce giorno dopo giorno senza nemmeno accorgersene ignorando volutamente un presente che è mille volte diverso dal recente ieri e che ci riserverà un domani ancora più diverso. Un Paese che conosce ogni giorno la nascita di nuovi cittadini destinati a vivere da stranieri nel Paese loro destinato e di cui inevitabilmente si sentono di appartenere. E allora a cosa serve una politica che non riesce a emarginare gli imprenditori della paura e gli istigatori all’odio nei confronti del diverso. Samir e Chen sono figli della nostra società e abbiamo il dovere di considerarli tali riconoscendo loro il sacrosanto diritto di cittadinanza nel Paese dove hanno avuto la fortuna (o la sfortuna) di nascere. E se loro, insieme ai loro genitori, si sentiranno accolti e riconosciuti come normali cittadini, la loro migliore risposta sarà l’amore ancora maggiore per un paese che non ha ceduto alla tentazione di discriminarli e di umiliarli come ora invece stiamo continuando a fare per milioni di donne e uomini.

Persone che lavorano nelle nostre case, nelle fabbriche e a raccogliere sottopagati frutta e verdura nelle nostre terre. Nonostante tutto ciò, continuiamo a metter loro i bastoni tra le ruote, approfittando di ogni cavillo per destabilizzare la loro stabilità, accrescere la loro ansia e evidenziare a caratteri cubitali la loro diversità, per alcuni inferiorità, rispetto a noi. Magari i loro genitori si sentono anche legittimante ancora ospiti. Ma Samir e Chen non accetteranno più di essere additati come stranieri. E allora i due zii B&B saranno costretti a dar loro una spiegazione. In un italiano corretto e ripassandosi bene i valori della Costituzione.

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03 gennaio 2010

fonte:  http://www.unita.it/news/immigrazionestorie/93287/caro_samir_gli_esami_finiranno_solo_nel

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Mio figlio nato italiano, tanti altri senza patria

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di Dijana Pavlovic

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Io non sono scappata dalla povertà e dalla guerra. Sono arrivata per amore per un attore italiano conosciuto in un festival in Montenegro. Era il ’97, non c’era ancora la Bossi-Fini, ma le precauzioni erano tante e la legge rigida. Potevo venire solo con il visto turistico che mi è costato giorni di lunghissime file davanti all’ambasciata italiana.

Venivo intorno alle quattro di mattino e trovavo già una coda di persone che avevano passato lì la notte per prendere il numero. Per il visto turistico per dieci giorni mi chiedevano un assicurazione medica privata, 100.000 lire per ogni giorno di permanenza in Italia su un conto corrente anche se venivo ospitata da una famiglia di cui si verificava il reddito, il certificato che studiavo all’università di Belgrado come garanzia che sarei tornata e la fedina penale pulita. Dopo un mese ce l’ho fatta, e così iniziò una serie di viaggi turistici preceduti da file, certificati, spese per me enormi e moduli di cui ero oramai esperta, fino al ’99 quando decisi di sposarmi.

In realtà volevamo convivere un po’ prima di sposarci ma non era possibile, la legge non prevedeva questa possibilità tra un italiano e una extracomunitaria. Per il matrimonio ho dovuto pagare un traduttore perché io capissi tutto quello che riguarda diritti e doveri del coniuge. Poi di nuovo lunghe file davanti a commissariati di polizia e prefetture per il permesso di soggiorno per 5 anni.

Dopo 6 mesi e alcuni controlli di un impiegato, che si è informato dai vicini e dal portinaio se vivevo dove dicevo insieme a mio marito, ho avuto la residenza e potevo fare domanda per la cittadinanza. Dopo 2 anni mi è arrivata una convocazione in comune per prestare il giuramento alla Costituzione italiana.

Per me era un momento speciale, sono andata con la macchina fotografica, ma anche lì ho fatto una lunga fila e quando è arrivato il mio turno un impiegato mi ha chiesto solo se parlavo italiano. Ho risposto: sì. Mi ha detto: bene, firmi qui, mi ha regalato il libro della Costituzione e mi augurato la buona giornata. Davanti all’ufficio mi sono scattata una foto sorridente da sola ed era fatta.

Ora ho un figlio, lui è nato cittadino italiano, per lui abbiamo preso una casa che abbiamo ristrutturato. Gli operai delle imprese italiane erano albanesi, ucraini, egiziani, in regola con le tasse. I muratori albanesi mi hanno raccontato che sono in Italia da 16 anni e i loro figli sono nati qui, parlano italiano, non vogliono parlare albanese, quando vanno in Albania dopo un po’ si stufano e chiedono quando si torna a casa. Ma non sono cittadini italiani. Come migliaia di figli di immigrati e migliaia di rom slavi nati in Italia, non amano il paese dei loro genitori e parlano l’italiano come lingua materna, ma sono senza una patria. Chi deve si interroghi sul futuro di bambini che si sentono italiani, ma per la legge e per i loro compagni sono diversi, estranei, senza identità per l’unica colpa di non avere un genitore italiano.

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03 gennaio 2010

fonte:  http://www.unita.it/news/immigrazionestorie/93286/mio_figlio_nato_italiano_tanti_altri_senza_patria

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MILANO – L’«ultimo minuto» per salvare il pane

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IL CASO

L’«ultimo minuto» per salvare il pane

Esperimento in 40 città: avanzi ai volontari del quartiere. Petrini: si fermi lo spreco

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180 quintali di pane finiscono ogni giorno nella spazzatura solo a Milano
180 quintali di pane finiscono ogni giorno nella spazzatura solo a Milano

MILANO — Pioggia, nebbia o neve che sia, don Domenico Bendin ha un appuntamento fisso per ogni giorno feriale che il Signore manda in terra. Alle 19.29 in punto si presenta allo storico panificio-pasticceria Orsatti di Ferrara, a due passi dal Duomo. «Come va Don, tutto bene?», sorride la titolare mentre gli consegna tre vassoi con gli avanzi di giornata di paste e pasticcini. I cabaret in meno di mezz’ora atterrano sul tavolo della mensa dell’associazione viale K, fondata per aiutare chi ha bisogno.

Don Bendin e il panificio Orsatti non sono soli. C’è tutta un’Italia che s’inventa l’impossibile per evitare gli sprechi. Convinta che l’uomo non sia solo ciò che mangia ma anche ciò che evita di buttare nella spazzatura. Gente che si mobilita soprattutto di fronte a notizie come quella segnalata ieri dal Corriere: 180 quintali di pane buttati ogni giorno solo a Milano.

«Fermare lo spreco: ecco la questione chiave con cui ci confronteremo in futuro», mette in allerta il presidente di Slow Food, Carlo Petrini. Il problema è già chiaro a circa 65 mila famiglie che in Italia fanno parte dei Gas e dei Gap, gruppi d’acquisto solidale e popolare determinati a comperare solo ciò che si consuma davvero. La Caritas ambrosiana da una parte fa notare la sensibilità di alcune catene, come Coop Lombardia, che consegnano l’invenduto al mondo del non profit. Dall’altra lancia una proposta: «Sono certo che imilanesi pagherebbero qualche centesimo in più gli acquisti al super o in negozio pur di finanziare un sistema di riutilizzo delle eccedenze», riflette il direttore, don Roberto Davanzo.

A dire il vero «il sistema» qualcuno è convinto di averlo già trovato. «Il pane buttato a Milano potrebbero sfamare chi ne ha bisogno. Basta organizzarsi», assicura Andrea Segrè, preside della facoltà di Agraria dell’università di Bologna. Le brioches di don Bendin sono salvate dal cestino proprio grazie a un modello messo a punto dal professor Segrè e dai suoi studenti. I primi studi sono iniziati una decina di anni fa. Nel 2003 è nata una società partecipata dall’ateneo di Bologna e da nove ex studenti ( www. lastminutemarket.org) che aiuta a salvare dalla spazzatura le eccedenze della grande e piccola distribuzione. Oggi il modello ha una quarantina di applicazioni in giro per l’Italia. Da Cagliari a Verona, passando per Modena, Bologna, Cagliari e, appunto, Ferrara.

Nel suo ruolo di presidente della Lastminutemarket, Segrè è stato invitato, il 18 dicembre scorso, al forum sul clima di Copenhagen. E lì ha illustrato la situazione del nostro Paese. Recuperando le eccedenze di grande e piccola distribuzione, in Italia si potrebbero salvare all’anno 244.252 tonnellate di cibo per un valore di 928.157.600 euro. Sarebbe inoltre possibile fornire tre pasti al giorno a 636.600 persone (gli abitanti della provincia di Modena, ndr) e risparmiare 291.393 tonnellate di CO2 prodotte a causa dello smaltimento del cibo di risulta come rifiuto».

Il sistema elaborato dall’ateneo di Bologna si basa sul riutilizzo delle eccedenze a chilometro zero, nelle immediate vicinanze. Tra i punti vendita aderenti, l’iper Conad-Leclerc di via Larga a Bologna. «Non solo abbiamo la soddisfazione di non buttare nulla, migliora anche il risultato economico», assicura il responsabile del punto vendita, Stefano Cavagna.

La normativa fiscale potrebbe determinare in futuro il successo del progetto. «Il ministero dell’Ambiente leghi la tassa sui rifiuti non ai metri quadrati del punto vendita, ma alle quantità smaltite», dice Paolo Masciocchi, direttore del settore Ambiente di Confcommercio. Certo è che dove i Comuni agevolano i negozi virtuosi il sistema funziona. Tanto che la pasticceria Orsatti di Ferrara, a furia di donare vassoi, ha risparmiato duemila euro di tasse. Che ora finanzieranno un progetto in Tanzania.

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Rita Querzé
04 gennaio 2010

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fonte:  http://www.corriere.it/cronache/10_gennaio_04/pane_3df2af80-f902-11de-9441-00144f02aabe.shtml

NO della Campania alle centrali nucleari

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ENERGIA

No della Campania alle centrali nucleari

Il divieto nella Finanziaria regionale. Il Pdl insorge: ricorreremo alla Consulta. Più ampio il fronte del rifiuto: la norma ricalca quella varata dalla Puglia

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di ROBERTO FUCCILLO

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NAPOLI – Anche la Campania alza il suo muro contro gli impianti nucleari rilanciati dal ministro Claudio Scajola. La Regione governata da Antonio Bassolino ha provveduto a inserire il suo “no, grazie” all’interno di una manovra finanziaria di bilancio votata a fine anno. Nel testo si stabilisce che “in assenza di intese con lo Stato in merito alla loro localizzazione”, il territorio campano viene precluso a impianti di produzione di energia nucleare, ma anche di fabbricazione e stoccaggio di combustibile nucleare, nonché a depositi di materiali radioattivi”.
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In attesa che i siti vengano definiti, la Campania dichiara dunque off-limits il nucleare, in tutte le sue versioni. Anche se dalle tante voci ufficiose non era emersa finora l’ipotesi di un sito in Campania, fatta eccezione forse per la tentazione di utilizzare la dismessa centrale di Sessa Aurunca sul Garigliano come deposito. La norma ricalca quasi letteralmente quella varata circa un mese fa dalla Puglia di Nichi Vendola. E si aggiunge alla battaglia già intrapresa da altre Regioni con il ricorso avanzato alla Corte costituzionale contro il piano energetico nazionale. Proprio quel piano diventa ora il terreno di battaglia, dato che è lì che si individua il carattere strategico degli impianti e quindi anche la competenza dello Stato centrale.
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Non a caso, passato il capodanno, in Campania è scoppiata immediata le polemica da parte di esponenti del Pdl. Il fuoco alle polveri lo ha dato il consigliere regionale Fulvio Martusciello: “È un polverone su una materia non delegabile alle regioni. Abbiamo già provveduto a segnalare l’incostituzionalità al ministro competente. La verità è che c’è chi vorrebbe una Campania anni ’50”. È d’accordo Franco D’Ercole, leader dell’opposizione in Consiglio regionale: “Quella parte della Finanziaria potrebbe essere impugnata dal governo in quanto il nucleare risponde ad una scelta strategica nazionale che è sottratta alla competenza regionale. Noi non diciamo che in Campania debbano necessariamente farsi le centrali, ma affermare il principio che la Campania non può autorizzare l’installazione di centrali nucleari può comportare il rischio di rimanere a secco di energia”.

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Si profila dunque un braccio di ferro sul nucleare presso la Consulta. I partiti del centrosinistra campano comunque difendono la norma. Nicola Marrazzo di Italia dei valori non ha dubbi: “Abbiamo salvato la Campania da un piano scellerato. Ora il governo deve concordare le sue scelte con la Regione”. Tonino Scala di Sinistra e Libertà sancisce che “il piano di Scajola è inapplicabile”. E la notizia viene accolta con favore da Alfiero Grandi, presidente del “comitato per le energie rinnovabili-no al nucleare”. Grandi rileva che “ben 13 Regioni hanno già fatto ricorso alla Corte Costituzionale e molte hanno adottato atti che concordano ad escludere il nucleare nel loro territorio. Purtroppo ancora troppo poco si è capito che il Governo ha fatto approvare una legge che non solo è uno schiaffo al referendum del 1987 ma prevede una procedura autoritaria e impositiva”. Il che fa augurare a Grandi che “nelle prossime elezioni regionali la questione nucleare venga affrontata esplicitamente”.
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04 gennaio 2010
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Class action all’italiana: cosa ci aspetta in tribunale

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INCHIESTA/ Anche il nostro Paese ha la sua legge sulle azioni collettive dei consumatori
Uno strumento molto utilizzato negli Usa, qui il deterrente risulterà inferiore

Class action all’italiana
cosa ci aspetta in tribunale

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di GIOVANNI PONS

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Class action all'italiana cosa ci aspetta in tribunaleUn gruppo di risparmiatori con cartelli di protesta davanti al tribunale del processo Parmalat

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«Il nostro futuro digitale è nel risultato della class action intentata negli Stati Uniti da autori ed editori contro Google, accusata di violare le leggi sul copyright mettendo in rete i libri stampati e diventando di fatto la più grande libreria del mondo in regime di monopolio». Le parole sono di Guido Rossi, noto giurista esperto di diritto antitrust e la causa è quella intentata presso la Southern District Court di New York.
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Ma anche in Italia, da pochi giorni, si è cominciato a parlare di class action in termini concreti, essendo entrata in vigore dal primo gennaio la relativa legge. E in soli quattro giorni si è verificata una partenza sprint per le iniziative in materia, la cui efficacia, però, dovrà essere verificata sul campo.
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Il Codacons, un’associazione di consumatori, ha annunciato il varo di tre azioni collettive: una contro le banche, una contro il vaccino antinfluenzale e una riguardante le cartelle pazze. E i verdi ne hanno minacciato una contro i danni provocati dalla tangenziale di Napoli. Ma l’impressione di molti esperti è che la “montagna abbia partorito il topolino”.
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Solo due anni fa, ai tempi del governo Prodi, le aziende erano molto preoccupate per la possibile introduzione della class action e sono corse a chiedere pareri giuridici e legali. Oggi sono molto più tranquille. Unicredit e Intesa Sanpaolo aspettano ovviamente di conoscere nei dettagli ciò di cui sono accusate e per ora non replicano all’annuncio di azioni collettive contro le commissioni applicate ai conti correnti in sostituzione a quella di massimo scoperto e per cui si chiederebbe un risarcimento di 6,25 miliardi di euro. Di certo c’è che la legge italiana è comunque molto diversa da quella americana, paese dove l’istituto ha mosso i primi passi negli anni ’60 quando si affermò il concetto di dare accesso alla giustizia anche alle piccole pretese, quelle non convenienti da portare avanti individualmente.

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“In generale la class action è un istituto di tutela e risarcimento dei privati cittadini più deboli – spiega Guido Rossi – In Usa è stata utilizzata molto anche per i reati di tipo finanziario e in questa chiave rappresenta uno straordinario strumento di deterrenza per le società a non commettere irregolarità”. In pratica, in presenza di una minaccia di cause di risarcimento miliardarie, le imprese ci penseranno tre volte prima di commettere illeciti. È quello che nel diritto anglosassone si chiama “enforcement” e che in Italia è ancora una chimera. Inoltre esistono almeno due elementi chiave che hanno reso molto popolari le class action negli Stati Uniti ma che mancano completamente nell’ordinamento italiano ed europeo in generale.
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Il primo è quello che viene denominato “triple damage”, cioè il danno punitivo. La giuria americana può condannare un’azienda non solo al risarcimento integrale del danno ma anche a somme molto superiori volte a disincentivare in futuro le pratiche scorrette. Sotto la minaccia di risarcimenti senza limiti spesso (il 60-70% dei casi) si arriva a una transazione prima della sentenza di merito. E qui subentra il secondo elemento discriminante: in America le spese legali sono sempre divise tra le parti (ognuno si paga le proprie) e gli avvocati possono farsi retribuire in percentuale solo a risultato ottenuto. Con questo sistema molti studi legali a stelle e strisce si sono arricchiti semplicemente sollecitando cause anche temerarie contro le aziende grazie a un atteggiamento che a volte è apparso quasi ricattatorio. Ma di certo ha funzionato in un’ottica di deterrenza. “In Italia c’è un sistema più equilibrato, non esiste il danno punitivo e i danni, sia patrimoniali che non, devono essere provati”, spiega Giulio Ponzanelli, partner dello studio Bonelli, Erede, Pappalardo e professore di diritto privato alla Cattolica di Milano. “La legge italiana sulla class action prevede un primo filtro sull’ammissibilità, poi parte la causa ordinaria che essendo collettiva implica l’esame da parte del giudice di una pluralità di richieste, quindi l’accertamento del danno e infine la sua quantificazione”. Come dire, si sa quando si inizia ma non si sa quando si finisce.
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Inoltre, c’è da aggiungere un fatto non secondario. Il governo Berlusconi ha nei mesi scorsi abolito il cosiddetto “patto in quota lite” che aveva introdotto Bersani ai tempi dell’esecutivo Prodi. In pratica in Italia gli avvocati possono farsi pagare a percentuale, anche elevata (30-40%), solo alla fine della causa e solo nel caso questa vada a buon fine. Una pratica che di certo non stimolerà la ricerca di casi da sottoporre a class action da parte dei professionisti, come si è invece verificato in America.
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Un esempio può chiarire meglio quanto potente possa essere lo strumento della class action in America. Qualche mese fa le note case d’asta Sotheby’s e Christie’s in violazione delle norme antitrust si erano comunicate reciprocamente quali erano i loro maggiori collezionisti definendo dei prezzi minimi da applicare agli stessi nelle aste. Gli avvocati che hanno promosso la class action hanno notificato anche a un noto finanziere milanese la possibilità di associarsi alla causa, il quale ha ovviamente accettato e proprio in questi giorni ha ricevuto un congruo risarcimento per le opere acquistate a valori troppo elevati. Ma in Italia, anche qualora Unicredit e Intesa Sanpaolo venissero dichiarate colpevoli, sarebbero costrette semplicemente a restituire le somme incassate irregolarmente. “Nel nostro diritto vige il principio della riparazione integrale del danno, ma non di più. Punire è estraneo al nostro diritto civile, è qualcosa che sconfina nel penale” spiega ancora Ponzanelli.
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Più che altro la legge italiana non chiarisce se l’istituto della class action possa essere applicato ai reati finanziari. Di certo non a quelli precedenti l’agosto 2009, un colpo di spugna dell’attuale governo nei confronti dei crack dei primi anni Duemila, da Parmalat a Cirio fino ai bond argentini. Ma anche per le truffe future i giuristi nutrono numerosi dubbi. “Per il risparmiatore italiano la class action ci sembra un’arma spuntata – osserva Arturo Albano, rappresentante di Deminor in Italia, società specializzata nella corporate governance – putroppo in Europa si è costretti a promuovere cause di risarcimento collettive, istituto molto più limitato rispetto a una class action”. I clienti Deminor che erano incappati in Parmalat avevano in un primo momento ottenuto un grosso risultato essendo stati riconosciuti obbligazionisti. Ma poi il giudice americano si è dichiarato non competente a decidere per i cittadini non-Usa. E anche per il caso Madoff rischia di essere lo stesso: azioni collettive in Lussemburgo e Olanda ma non una vera e propria class action che consentirebbe ai danneggiati di associarsi anche successivamente al riconoscimento del danno.
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04 gennaio 2010
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