Archivio | gennaio 10, 2010

Elezioni Croazia, Josipovic presidente. Al candidato del centrosinistra oltre il 60%

L’esponente socialdemcoratico ha vinto il ballottaggio
Il sindaco di Zagabria ha ottenuto il 35,4 per cento

Elezioni Croazia, Josipovic presidente. Al candidato del centrosinistra oltre il 60%

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Josipovic al seggio

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ZAGABRIA – Il candidato di centrosinistra Ivo Josipovic ha vinto il ballottaggio delle presidenziali in Croazia con il 64,6 per cento dei consensi. Secondo gli exit poll diffusi dalle emittenti televisive, il suo rivale Milan Bandic, ex socialdemocratico sostenuto dalla destra, ha ottenuto il 35,4 per cento e tornerà quindi a guidare la capitale Zagabria, di cui è sindaco da dieci anni.
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Se questi dati saranno confermati dai risultati ufficiali, Josipovic sarà il primo presidente della Croazia eletto dalla sinistra postcomunista. Il suo più importante obiettivo, quello su cui ha incentrato la campagna elettorale, sarà  traghettare il Paese verso la piena adesione all’Unione europea, prevista per il 2012.
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Il presidente croato, che rimane in carica per tre anni, non ha funzioni esecutive, ma ha poteri in materia di politica estera, difesa e sicurezza nazionale, e incide fortemente sul profilo ideologico della società.
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10 gennaio 2010
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In Italia, la testimonianza di Pap Khouma, “Black Italian”, rilancia il dibattito sul razzismo

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pubblicato sabato 2 gennaio 2010 in Francia

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[Le Monde]

Khouma“Sono italiano e ho la pelle nera. Un ‘Black Italian’, come mi sono sentito dire al controllo dei passaporti dell’aeroporto di Boston da due afroamericane addette alla sicurezza. Ma voi avete idea di cosa significa essere italiano e avere la pelle nera nell’Italia del 2009?” Pap Khouma, di origine senegalese, italiano da quindici anni, libraio e scrittore, ha saputo trovare le parole. Il pezzo sulla sua “vita ad ostacoli”, pubblicato sul quotidiano La Repubblica, ha rilanciato il dibattito sul razzismo in Italia.

Autore di due opere, ha semplicemente raccontato la sua vita di tutti i giorni. Quando si è presentato in un ufficio del comune per un certificato, si sono fermati alla sua pelle nera. “L’impiegata non ha neppure guardato la carta d’identità che le mostravo e mi ha chiesto il permesso di soggiorno. Quando le ho detto che non l’avevo ma che bastava leggere quello che c’era scritto sulla carta, “italiano”, è rimasta sconcertata ed ha chiesto l’aiuto di due colleghi. Per i tre, era apparentemente un caso fuori dal comune”.

Quando si è trasferito nel suo immobile, il suo vicino lo ha scambiato per un venditore abusivo ed ha voluto metterlo alla porta. E i passanti erano sul punto di avvisare la polizia mentre apriva banalmente la portiera della sua auto. Nel tram, racconta, si prepara ogni volta ad essere umiliato.

Mille piccoli gesti segnati da pregiudizi e dal rifiuto dell’altro. “E il fatto di sapere che la persona nera o dagli occhi a mandorla che hanno di fronte è italiana non aggiusta le cose. Al contrario. Questo potrebbe essere inteso come una sorta di circostanza aggravante, una colpa. ‘Non soltanto sei nero ma pretendi pure di essere italiano!’” afferma ridendo.

La sua lettera ha sciolto le lingue. Sono seguite altre testimonianze schiaccianti di “nuovi” italiani. Secondo il rapporto annuale della Caritas, gli immigrati in Italia sono oggi più di 4.300.000, ossia il 7,2% della popolazione. Molti diventano italiani in seguito ad una lunga procedura: 40.000 solo nel 2008, ossia quattro volte più che nel 2000. Ma restano stranieri per molti dei loro concittadini. Il ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, si è detta scioccatta ed ha esortato le vittime di atti di razzismo a denunciarli.

L’Ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali (UNAR) è peraltro appena stato rafforzato. È disponibile un numero verde. Jamil Ajouz, un influente “mediatore culturale” libanese dell’ufficio, spiega che, tra le decine di telefonate quotidiane, i casi più gravi sono orientati verso un’assistenza giuridica. “Molti altri hanno soprattutto bisogno di un sostegno semplicemente morale. È spesso il caso di quei bar in cui non ti vogliono servire perché sei nero o perché hai i capelli ricci oppure dove ti servono il caffé in un bicchiere di plastica”, spiega.

Gli italiani non sembrano ancora pronti ad accettare questi cittadini venuti da altri luoghi, dicono gli esperti. Le norme esistono, ma occorre uno sforzo supplementare, soprattutto da parte dei politici e dei rappresentanti dei media.

Ma per il sociologo Emilio Reyneri, dell’università di Milano, gli uni e gli altri non fanno sempre il loro dovere. Di conseguenza, nella società, al contrario, “è il messaggio negativo verso gli immigrati che passa; che sia per il comportamento criminale degli stranieri o per il loro impiego al fondo della scala sociale. Invece di far comprendere che l’immigrazione non è un problema, che gli immigrati non finiranno con l’andarsene, un giorno, come alcuni pensano, gli uomini politici gettano benzina sul fuoco”. Il problema, spiega il professore, è che altrove in Europa, non esiste un partito come la Lega Nord, accanitamente anti-immigrati e fondamentale per la coalizione di governo.

Pap Khouma, quel giorno, è venuto ad incontrare il suo editore. Questi vede del buono nel dibattito in corso e pensa sia venuto il momento di affidargli un libro-intervista con Mario Balotelli. Questo italiano di origine ghanese è uno dei più dotati tra i giovani calciatori del campionato, ma negli stadi, è accolto al grido di “non ci sono negri italiani!”. Per molti una sola cosa potrà far tacere i razzisti: che Mario Balotelli porti la maglia della squadra Azzurra durante la coppa del mondo in Sud Africa, a giugno.

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[Articolo originale “En Italie, le témoignage de Pap Khouma, “Black Italian”, lance un débat sur le racisme” di Salvatore Aloïse]

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fonte:  http://italiadallestero.info/archives/8697

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En Italie, le témoignage de Pap Khouma, “Black Italian”, lance un débat sur le racisme

LE MONDE | 02.01.10 | 13h58  •  Mis à jour le 03.01.10 | 16h47
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Milan (Italie) Envoyé spécial

“Je suis italien et j’ai la peau noire. Un “Black Italian, comme je me le suis entendu dire au contrôle des passeports de l’aéroport de Boston par deux Afro-Américaines de la sécurité. Mais avez-vous une idée de ce que cela signifie d’être italien et d’avoir la peau noire aujourd’hui en Italie ?” Pap Khouma, sénégalais d’origine, italien depuis quinze ans, libraire et écrivain, a su trouver les mots. Le récit de sa “vie à obstacles”, publié dans le quotidien la Repubblica, a lancé le débat sur le racisme en Italie.

Auteur de deux ouvrages, il a simplement raconté sa vie de tous les jours. Lorsqu’il s’est présenté dans un bureau de la mairie pour un certificat, on s’est arrêté à sa peau noire. “L’employée n’a même pas regardé la carte d’identité que je lui montrais et m’a demandé mon permis de séjour. Quand je lui ai dit que je n’en avais pas mais qu’il suffisait de lire ce qui était écrit sur la carte, “italien”, elle est restée interloquée et a demandé de l’aide à deux collègues. Pour les trois, c’était, apparemment, un cas hors du commun.”

Lorsqu’il a emménagé dans son immeuble, son voisin l’a pris pour un vendeur à la sauvette et a voulu le mettre à la porte. Et les passants sont à deux doigts d’alerter la police lorsqu’il ouvre banalement la portière de sa voiture. Dans le tram, raconte-t-il, il se prépare chaque fois à être humilié.

Mille petits gestes empreints de préjugés et de refus de l’autre. “Et le fait de savoir que la personne noire ou aux yeux bridés qu’ils ont devant eux est italienne n’arrange pas les choses. Au contraire. Cela pourrait être perçu comme une sorte de circonstance aggravante, une faute. ‘Non seulement tu es noir mais en plus tu prétends être italien !'”, lâche-t-il en riant.

Sa lettre a délié les langues. D’autres témoignages accablants de “nouveaux” Italiens ont suivi. Selon le rapport annuel de Caritas, les immigrés en Italie sont aujourd’hui plus de 4 300 000, soit 7,2 % de la population. Beaucoup deviennent italiens au prix d’une longue procédure : 40 000 rien qu’en 2008, soit quatre fois plus qu’en 2000. Mais ils restent étrangers pour beaucoup de leurs concitoyens. Ministre pour l’égalité des chances, Mara Carfagna s’est dite choquée et a exhorté les victimes d’actes de racisme à les dénoncer.

Le Bureau national contre les discriminations raciales (UNAR) vient d’ailleurs d’être renforcé. Un numéro vert est disponible. Jamil Ajouz, un “médiateur culturel” libanais influent du bureau, explique que, parmi les dizaines de coups de fil quotidiens, les cas les plus graves sont orientés vers une assistance juridique. “Beaucoup d’autres ont surtout besoin d’un soutien simplement moral. Comme c’est souvent le cas avec ces bars où on ne veut pas te servir parce que tu es noir ou que tu as les cheveux frisés ou bien où on te sert le café dans un verre en plastique“, explique-t-il.

Les Italiens ne semblent pas encore prêts à accepter ces citoyens venus d’ailleurs, disent les experts. Les normes existent, mais il faut un effort supplémentaire, surtout de la part des politiques et des représentants des médias.

Mais pour le sociologue Emilio Reyneri, de l’université de Milan, les uns et les autres ne jouent pas toujours leur rôle. Du coup, dans la société, au contraire, “c’est le message négatif envers les immigrés qui passe ; que ce soit pour le comportement criminel des étrangers ou pour leur emploi au bas de l’échelle sociale. Au lieu de faire comprendre que l’immigration n’est pas un problème, que les immigrés ne finiront pas par partir, un jour, comme certains le pensent, les hommes politiques jettent de l’huile sur le feu”. Le problème, explique le professeur, c’est qu’ailleurs en Europe, il n’existe pas un parti comme la Ligue du Nord, farouchement anti-immigrés et incontournable dans la coalition gouvernementale.

Pap Khouma, ce jour-là, est venu rencontrer son éditeur. Celui-ci voit du bon dans le débat en cours et pense le moment venu de lui confier un livre-entretien avec Mario Balotelli. Cet Italien d’origine ghanéenne est l’un des plus doués parmi les jeunes footballeurs du championnat, mais dans les stades, il est accueilli aux cris d‘”il n’y pas de nègres italiens !”. Pour beaucoup, une seule chose pourra faire taire les racistes : que Mario Balotelli porte le maillot de la Squadra Azzurra lors de la Coupe du monde en Afrique du Sud, au mois de juin.

Uccide il marito-padrone neonazista: giudice Usa la lascia in libertà

L’uomo torturava la moglie e rivolgeva “attenzioni” alla figlia
La donna condannata a 8 anni con la condizionale

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di Flavio Pompetti
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NEW YORK (10 gennaio) – Anni e anni di soprusi, violenza fisica e psicologica e minacce armate: la vita coniugale di Amber Cummings è stato un vero inferno fino al 9 dicembre scorso quando la donna si è alzata presto la mattina, ha fatto colazione con la figlia di nove anni, e poi è andata nella camera da letto del marito James che dormiva. La donna gli ha esploso due colpi di pistola alla tempia, poi si è rifugiata con la figlia in una casa di vicini, e da lì ha chiamato la polizia. Un mese dopo il tribunale di Bangor, in Maine, ha condannato Amber a otto anni di prigione, ma il giudice dopo aver studiato il caso ha raccomandato la scarcerazione immediata con la condizionale, perché ha riconosciuto l’emergenza di autodifesa che si era verificata nella famiglia.

La coppia era arrivata due anni fa dalla California, ed era andata ad abitare sulla città costiera di Belfast, affollata dal turismo estivo, e semideserta il resto dell’anno. Il marito, neonazista e paladino della causa bianca contro la contaminazione razziale, era ugualmente ossessionato dalla minaccia della candidatura di Obama, e dalla ricerca sul web di materiale pedopornografico. Dopo la sua morte la polizia ha trovato nell’abitazione letteratura di propaganda, ma anche uranio impoverito, ed istruzioni per fabbricare una “bomba sporca”. I due dormivano in stanza separate, con due pistole sotto i relativi cuscini.

Amber ha subìto per nove anni ogni sorta di umiliazioni, dalle percosse alle violenze sessuali da parte del marito, il quale aveva piegato la sua volontà al punto di utilizzarla nell’adescamento on line di donne disposte a venirli a visitare nella loro casa. Al giudice ha detto di aver cominciato a ribellarsi quando si è accorta che la morbosità pedofila del marito era in piena ascesa, e minacciava di proiettarsi sulla figlia Claire. In un primo momento la moglie ha meditato il suicidio, poi ha deciso che non avrebbe lasciato la bambina in balia della sorte, e a quel punto ha maturato la decisione di armare la calibro 45 sotto il cuscino e usarla contro il marito.

Il giudice Jeffrey Hjelm si è trovato di fronte ad una scelta difficile. Comprendeva la profondità del dramma della donna, ma doveva anche guardarsi dall’avallare un atto di giustizia privata. Lo stesso avvocato difensore aveva abbozzato un patteggiamento con la procura che prevedeva un anno di carcerazione della Cummings, ma nella sentenza il giudice ha spiegato che la sua decisione va oltre i pochi istanti dell’omicidio, e segue le raccomandazioni di tre psichiatri che chiedevano di non aggiungere la violenza della giustizia penale a tutta quella che Amber ha già subito nella vita privata.

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=87131&sez=HOME_NELMONDO

SALUTE – Emicrania, scoperto perché la luce aumenta il dolore durante un attacco

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ROMA (10 gennaio) – Ora chi soffre di emicrania conosce il perché del terrore della luce, quella vera e propria fobia che in presenza di un attacco spinge a rintanarsi in un posto al buio per evitare di amplificare un dolore già insopportabile. La colpa è di un collegamento tra cellule luce-sensibili degli occhi e una famiglia di neuroni con un ruolo cruciale nel dolore dell’emicrania. La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature Neuroscience, si deve a Rami Burstein, Moshe Jakubowski e Rodrigo Noseda del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, in collaborazione con . Vanessa Kainz, Joshua J. Gooley, Clifford B. Saper e Kathleen Digre.

L’85% di chi soffre di emicrania e cefalea ha anche una fotofobia, vale a dire che una luce, anche la più fioca, fa aumentare il dolore pulsante. Bastano pochi secondi di luce dall’inizio dell’attacco per provocare l’effetto, e poi occorre almeno mezz’ora di buio per far rientrare i sintomi, ma finora non era noto il perché di questa avversione alla luce. Burstein si è insospettito studiando due diversi gruppi di non vedenti che soffrono di emicrania: uno che aveva gli occhi completamente danneggiati e non poteva avvertire la presenza di luce, né percepire l’alternanza giorno/notte; un secondo che però poteva sentire la presenza di luce e distinguere il giorno dalla notte. I primi non sono fotofobici mentre i secondi lo sono.

Gli esperti hanno ipotizzato quindi che dietro la fotofobia ci fossero il nervo ottico, che nei non vedenti totali non funziona più, e un gruppo di fotorecettori retinici basati sulla melanopsina, che sentono la luce e la differenza tra giorno e notte. Per verificare la loro ipotesi i ricercatori hanno usato topi emicranici e con un tracciante colorato iniettato negli occhi di questi ultimi hanno seguito il percorso naturale dai fotorecettori melanopsinici al cervello. Così hanno visto che la “strada della luce” porta fino a una famiglia di neuroni che si attiva proprio durante l’attacco emicranico.

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=87151&sez=HOME_SCIENZA

SCUOLA – Stranieri nelle classi, dal tetto del 30% sono esclusi i bambini nati in Italia

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Maroni: «Sono assolutamente d’accordo con la Gelmini»

Stranieri nelle classi, dal tetto del 30% sono esclusi i bambini nati in Italia

Rappresentano il 37% dei giovani immigrati. Per gli altri c’è il rischio di essere trasferiti in altri istituti scolastici

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MILANO – Dal tetto del 30% fissato per classe per gli studenti stranieri saranno esclusi i nati in Italia. Lo ha precisato il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ospite del programma In mezz’ora su Raitre. Dunque una bella fetta di giovanissimi immigrati saranno esclusi dal provvedimento: i nati in Italia sono infatti circa il 37% del totale degli studenti stranieri.

TRASFERITI – Situazione ben diversa per gli altri studenti stranieri: se risulteranno in sovrannumero nelle classi potranno essere trasferiti da un plesso scolastico all’altro. A questo scopo il ministero dell’Istruzione prevede di stipulare convenzioni con gli enti locali che si occuperanno degli spostamenti logistici. La Gelmini assicura che l’eventuale problematica interesserà un numero ridotto di scuole, soprattutto nelle grandi città, e che gli spostamenti saranno brevi, al massimo da quartiere a quartiere. Il tutto «senza pesare sulle famiglie». Gelmini ha ribadito che il provvedimento è stato studiato da tecnici e suggerito da insegnanti e che sarà favorita una «distribuzione equilibrata».

MARONI – Il tetto del 30% piace anche al collega dell’Interno Maroni, che si dice «assolutamente d’accordo» con l’iniziativa. «È una richiesta che aveva fatto la Lega – ha spiegato -. È necessario distinguere tra le politiche di integrazione, che sono giuste, necessarie e sacrosante e il fatto che può essere dannoso per tutti mettere insieme bambini che parlano lingue diverse e che non hanno un equilibrio comune nella composizione della classe».

ROSARNO – La Gelmini ha poi parlato del caso Rosarno, accusando una parte della sinistra di «buonismo» e di volere nel nostro Paese un numero di immigrati indefinito, non rispettando le regole. Questo «eccesso di buonismo» – ha osservato – fa le sue prime vittime proprio fra gli immigrati che diventano manodopera della criminalità organizzata oltre che vivere in degradanti condizioni di vita. Una importante responsabilità è da attribuire anche agli enti locali «che non possono chiamarsi fuori», mentre è «ingeneroso e riduttivo» attribuire al governo in carica quanto accaduto. Per la Gelmini la colpa è anche dei magistrati: «Non basta che un governo faccia le leggi se una parte dei magistrati non le applica e si occupa di più di Berlusconi».

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10 gennaio 2010

fonte:  http://www.corriere.it/politica/10_gennaio_10/gelmini-tetto-immigrati-scuola-esclusi-nati-italia_a9cf7624-fdf4-11de-b65b-00144f02aabe.shtml

Sit-in pro Costituzione e premi viola: Il popolo del No-B day rilancia

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Assemblea nazionale a Napoli: Con le saponette davanti a Montecitorio per dire che noi siamo puliti”

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Eletti sette coordinatori nazionali. “Il problema è uno solo: il premier”

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di ALESSANDRA LONGO

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NAPOLI – Diventare partito, darsi uno statuto o una carta etica, associarsi o non associarsi, riconoscersi in un coordinamento, sia pur «leggero», o fare i cani sciolti nel nome dell´antiberlusconismo? Eccoli qui i rappresentanti – ma già la parola non va bene – del popolo viola, gli eredi inquieti del patrimonio incassato il 5 dicembre 2009 con il No Berlusconi Day.
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Primo appuntamento nazionale a Napoli per i responsabili delle realtà territoriali. Una cinquantina di persone stipate nella bella sede del centro culturale Città del Sole, a due passi dalle bancarelle di cornetti rossi di San Gregorio Armeno. Più che un´assemblea, una seduta di autocoscienza collettiva. Non ci sono capi riconosciuti e a stento viene tollerato il tavolo di presidenza, sul quale sono appoggiati un drappo viola e una kefiah mentre alle spalle degli oratori c´è una libreria con il meglio dei testi di Marx, Mao, Stalin e Lenin. Una giornata intera di discussione che comunque approda ad un risultato concreto.
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Nonostante il mito «dell´orizzontalità» e dell´«intelligenza collettiva», alla fine escono sette nomi di coordinatori nazionali (il più noto è Gianfranco Mascia). Una “cupola” provvisoria incaricata di portare i viola alla loro prima assemblea nazionale che si terrà il 19, 20 e 21 marzo prossimi. Mica male come risultato se si va a vedere l´andamento della discussione, segnato da continue diffidenze reciproche nei confronti di chiunque vada al microfono («Scusa, tu a nome di chi parli? Qui non si decide nulla, qui vale la democrazia partecipata!»).
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Primo incontro pericolosamente senza copione che lascia in eredità una sequenza di proposte formulate senza gerarchia, così come vengono. Ecco un elenco: il 30 gennaio sit-in in tutta Italia a difesa della Costituzione; il 6 marzo «catena umana viola» nelle città; il 2 giugno «Costituzione Day»; il 28 ottobre con gli anarchici a Predappio. E nel mezzo idee in libertà «perché ognuno ci deve mettere la faccia» in ossequio a quello che è un po´ lo slogan individualista del militante viola tipo: «I am my personal revolution», sono la mia rivoluzione personale.

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Sergio di Terracina propone di andare davanti a Montecitorio e distribuire saponette di lavanda accompagnate da una frase del tipo «noi siamo puliti»; Emanuele Toscano, sociologo di Roma, pensa all´istituzione di premi viola da attribuire a «personalità» (la Gabanelli?) che si siano distinte per la loro non sintonia con Berlusconi. Subito qualcuno gli disegna la coppa-trofeo con la testa del premier e un paio di manette come gadget aggiuntivo. Dalla capitale parte anche l´idea di organizzare, in primavera, dei «pic-nic antiberlusconiani nelle ville aperte al pubblico».
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Dicono: «Il vero popolo della libertà siamo noi e il problema è uno solo, è Berlusconi». Così a Forlì si attrezzano per «una notte viola» con proiezione nostalgica del mega raduno del 5 dicembre. A Caserta pensano ad una manifestazione contro la criminalità organizzata, mentre Mascia propone il boicottaggio dei prodotti degli inserzionisti Mediaset presenti nella fascia oraria più pregiata, quella dalle 21 alle 22. I partiti? Quasi ignorati. Adele, di Catania, è iscritta al Pd e ha il coraggio di dirlo. La consolano: «Non è grave, coraggio».
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Va da sé che quando Christian, bancario di Rovigo, propone ai viola di diventare essi stessi il nuovo partito italiano, viene gentilmente spernacchiato. Platea fredda, disciplinata militarmente, interventi regolati dal cronometro. Platea che vorrebbe sapere chi è il misterioso San Precario che gestisce 200 mila persone sulla pagina di Facebook senza rivelare la sua identità. Platea che si scalda solo alla fine – rivelando una rassicurante normalità – quando si tratta di decidere chi comanda.
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10 gennaio 2010
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POESIA IN ‘MOVIMENTO’ – Cento poeti alla ricerca del verso di opposizione

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Cento poeti alla ricerca del verso di opposizione

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di Pietro Spataro

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Da Bari e da Torino. Da Bologna e dall’Aquila. Da Ancona e da Milano. Sono arrivati da tutta Italia, in macchina e in treno: tutti a spese proprie. Si sono ficcati, pigiati uno addosso all’altro, dentro un piccolo locale di San Lorenzo a Roma e sono stati per sei ore a discutere di questo Paese spezzato, dell’odio contro gli immigrati, della scuola malata, della cultura depredata, della tv che comanda. Lo hanno nominato poco, ma dietro ogni discorso c’era lui: Silvio Berlusconi. I protagonisti di questa «rivolta delle parole» sono poeti.

Quei trenta che due mesi fa scrissero poesie per l’antologia «Calpestare l’oblio» (che abbiamo pubblicato su l’Unità) più tanti altri che si sono aggiunti strada facendo. Più tanti altri ancora che non scrivono poesie ma le amano e le leggono e che soprattutto non sopportano la cappa di piombo che oggi pesa sull’Italia. Oltre cento in tutto Già questo è un fatto strano. Mentre il quartiere romano della movida si prepara alla lunga notte dei pub, dei locali e delle osterie, più di cento persone mettono in scena la loro protesta.

Ci sono tantissimi giovani, la maggioranza: non hanno nemmeno trent’anni e si sentono defraudati del proprio futuro. Hanno studiato, si sono laureati e ora arrancano in una società che premia i grandi fratelli ma non fa nulla per quelli che hanno faticato sui libri sperando di fare cosa giusta e utile. Evelina De Signoribus è una di queste: viene da Cupra Marittima, è laureata in Lettere e sta studiando per la seconda laurea. «La scuola è un vero disastro – dice – La Gelmini la sta distruggendo e alla fine noi non riusciamo a trovare uno straccio di lavoro».

Davide Nota, che è il giovanissimo padre di questa ribellione nata sul web, era preoccupato ma alla fine osserva soddisfatto la platea e il piccolo palco. «Vedi, tutta questa gente è la dimostrazione che i poeti possono smetterla di fare le monadi – spiega – e devono confrontarsi con la realtà che sta lì fuori». Lui crede con tutta l’anima che bisogna battersi contro il consumismo che «riduce l’individuo a un ruolo». Franco Buffoni è poeta assai rodato, ha sessant’anni e si muove agilmente in mezzo a questi ragazzi jeans e maglietta che vogliono cambiare il mondo cambiando le «piccole cose». «Il danno più grande – spiega – è la rimozione della cultura. Un tempo la tv educava, poi sono arrivate le tv commerciali e allora è iniziato il declino». Ironizza Flavio Santi, trentenne friulano: «Siamo in una situazione in cui possiamo dire, con Homer Simpson: tutto quel che so l’ho imparato dalla tv. È un dramma».

Questo giovane movimento è nato dal verso di un ottantenne come Roberto Roversi: «Calpestare l’oblio / il viaggio dei ricordi non è mai finito / là c’ero anch’io». Difesa della memoria, battaglia contro chi vuole cancellare la storia, e tutti dalla parte della Costituzione: il progetto è qui. I ragazzi osservano un Paese che è diventato cinico e razzista (basta guardare a Rosarno), che si è votato al consumismo e ha spezzato ogni legame sociale. È ormai il luogo dove trionfa l’individualismo. «Usatela la poesia – dice Rosemary Liedl, vedova di Antonio Porta – Abbiate il coraggio di ritrovare la forza di fare». Aggiunge Maria Grazia Calandrone: «Come diceva Borsellino parlando di mafia: uniamoci, non potranno ammazzarci tutti». Enrico Piergallini, poeta vicesindaco a Grottammare, indica un compito: «Penetrare nella coscienza dei cittadini».

Ma è questo il ruolo di un poeta? È questo. Perché di poeti cuore-amore, pensano, ne abbiamo sopportati troppi. Perché di fronte allo sfascio del Paese occorre sporcarsi le mani con la realtà. Come dice Gianni D’Elia: «Uniti in mille forse possiamo fare almeno un mezzo Pasolini». Poeti così non piacciono. Non piacciono ai giornali della destra (Giornale e Foglio) che li hanno attaccati duramente. Ma nemmeno ai giornali come il Corriere e a tutti gli altri che infatti li ignorano. Pensano che la poesia debba stare al posto suo: lontana dai drammi della vita, lontana dalla politica. Invece, come ha detto qualche mese fa proprio su questo giornale Andrea Zanzotto, «la poesia ha un ruolo fondamentale in questa melma di disvalori: crerare le connessioni tra passato e futuro».

Questi ragazzi venuti
da ogni parte d’Italia lo sanno e infatti vanno avanti con passione. La strada sarà lunga. Ma forse anche in mezzo a loro, così come in mezzo al «popolo viola», l’opposizione potrà ritrovare il filo del verso giusto.
pspataro@unita.it

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10 gennaio 2010

fonte: http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=93521

Medioriente, gli errori della Cia e la schizofrenia americana

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Medioriente, gli errori della Cia e la schizofrenia americana

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di Robert Fisk

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Nel grande edificio che ospita l’ambasciata americana sulle colline in prossimità della capitale giordana, Amman, un ufficiale superiore delle Forze Speciali americane gestisce un ufficio altrettanto speciale. L’ufficiale compra informazioni dagli ufficiali dell’esercito e dei servizi della Giordania – in contanti, ovviamente – ma contribuisce anche ad addestrare soldati e agenti di polizia afgani e iraniani. Le informazioni che cerca non riguardano esclusivamente Al Qaeda, ma anche gli stessi giordani, la lealtà dell’esercito al re Abdullah II nonché gli insorti anti-americani che vivono in Giordania, per lo più iracheni, ma anche i rapporti tra membri iracheni di Al Qaeda e l’Afghanistan.

In Medio Oriente è facile comprare ufficiali dell’esercito. Gli americani hanno passato gran parte del 2001 e del 2002 a mettere a libro paga i signori della guerra in Afghanistan. Hanno pagato le truppe giordane perché si unissero all’esercito di occupazione americano in Iraq – e proprio per questa ragione l’ambasciata giordana a Baghdad è stata bombardata dai nemici di Washington.

Quanto ha fatto l’agente doppio della Cia, Humam Khalil Abu-Mulal al-Balawi – anch’egli medico come molti seguaci di Al Qaeda – era del tutto normale. Lavorava per entrambi gli schieramenti in quanto da tempo i nemici dell’America hanno infiltrato loro agenti nei servizi segreti dei Paesi arabi «alleati« di Washington. Anche Abu Musab al-Zarqawi, un giordano che è stato alla testa dell’insurrezione di Al Qaeda in Iraq, ha mantenuto i contatti con i servizi di Amman, il cui ufficiale superiore Sharif Ali bin Zeid, è stato ucciso questa settimana insieme ad altri sette americani in quello che è stato il più grave colpo subito dalla Cia dopo il bombardamento dell’ambasciata americana a Beirut nel 1983.

Tuttavia lo spionaggio in Medio Oriente non ha alcunché di romantico. Numerosi agenti della Cia uccisi in Afghanistan erano stati ingaggiati come mercenari mentre le spie giordane del «mukhabarat» (NdT, servizio segreto), per cui lavoravano sia bin Zeid che al-Balawi, torturano regolarmente i presunti nemici della Giordania e hanno torturato uomini che erano stati «trasferiti» ad Amman dalla Cia durante la presidenza Bush.

Il mistero tuttavia non consiste tanto nella presenza di agenti doppi all’interno dell’apparato di sicurezza degli Stati Uniti in Medio Oriente, quanto nell’utilità, tutta da dimostrare, di una «talpa» giordana in Afghanistan. Pochissimi arabi parlano Pashtun o Dari o Urdu, mentre al contrario sono numerosi gli afgani che parlano arabo. La cosa, tuttavia, induce a ritenere che ci siano stati legami molto più stretti tra gli insorti iracheni anti-americani ad Amman e gli insorti afgani.

Quindi sul piano squisitamente logistico è del tutto chiaro che – malgrado tra i due Paesi si trovi il vasto territorio dell’Iran – gli operativi iracheni e afgani di Al Qaeda sono in condizione di collaborare. In altre parole, così come la Cia riteneva sconsideratamente di poter stringere rapporti amichevoli e di potersi fidare degli agenti dei servizi dei Paesi musulmani, la stessa cosa pensavano gli insorti. La presenza in Afghanistan di una spia giordana anti-americana – disposta a correre il rischio di perdere la vita a molta distanza dalla sua patria – è la prova di quanto stretti siano i legami tra in nemici dell’America ad Amman e nella parte orientale dell’Afghanistan. Non sarebbe azzardato ipotizzare che i giordani anti-americani abbiano contatti che arrivano fino ad Islamabad.

Se vi sembra una ipotesi troppo fantasiosa non dimenticate che se fu la Cia ad appoggiare i combattenti arabi contro l’esercito sovietico in Afghanistan, fu il denaro saudita a finanziare la resistenza. All’inizio degli anni 80, il responsabile dei servizi segreti dell’Arabia Saudita incontrava regolarmente Osama bin Laden nell’ambasciata saudita di Islamabad e aveva rapporti con il servizio segreto pakistano che forniva aiuto logistico ai «mujahidin» come poi fece – e continua a fare ancora oggi – con i talebani. Se gli americani credono che i sauditi non stiano inviando denaro ai nemici dell’America in Afghanistan – o agli altri nemici fondamentalisti in Iraq e in Giordania – allora vuol dire che la Cia non capisce nulla di quanto accade in Medio Oriente.

Ma disgraziatamente le cose stanno proprio così. Il desiderio dell’America di essere amata e al contempo temuta ha erroneamente indotto i suoi servizi segreti a fidarsi di quanti appaiono amici, criminalizzando quelli che si suppone siano nemici. È esattamente quanto è accaduto in Libano prima che l’attentatore suicida sciita facesse saltare in aria, nel 1983, l’ambasciata americana di Beirut durante una riunione di quasi tutto il personale della Cia impegnato in operazioni in Medio Oriente. La maggior parte degli agenti morirono nell’attentato. L’ingresso agli uffici della Caia nell’edificio dell’ambasciata situato sul lungomare di Beirut era strettamente sorvegliato, ma tra gli operativi in Libano c’erano uomini e donne che lavoravano sia per gli israeliani che per la primitiva versione di Hezbollah e gli addetti alla sicurezza dell’ambasciata americana uscivano con donne libanesi che non erano state sottoposte a nessuna seria verifica.

Ma l’asse giordano-americano èdi ben altra natura. In questo caso la Cia agiva in un ambiente quasi completamente musulmano sunnita tra giordani che, pur accettando il denaro della Cia, avevano molte ragioni per contrastare le politiche di Washington e del re di Giordania. Un minoranza consistente di agenti dei servizi segreti giordani sono di origine palestinese e sono del parere che l’acritico, servile appoggio di Israele da parte degli Stati Uniti abbia distrutto la «nazione» palestinese e schiacciato il suo popolo. Il desiderio della Cia di fidarsi dei «collaboratori assunti sul luogo» non è dissimile dalla fiducia che i britannici nutrivano nei confronti dei Sepoy (NdT Parola di origine persiana che indicava qualunque militare indigeno dell’India facente parte dell’esercito britannico) alla vigilia della ribellione degli indiani contro la dominazione della Gran Bretagna.

I «loro» reggimenti locali non si sarebbero mai opposti al comandante; i «loro» ufficiali indiani sarebbero rimasti leali. Ma non andò così.  La vittima giordana di Balawi, bin Zeid, ha avuto onoranze funebri da martire alla presenza del cugino, il re Abdullah. Vediamo chi presenzierà alla sepoltura del suo assassino – sempre che sia rimasto qualcosa da seppellire.

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© The Independent
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

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10 gennaio 2010

fonte:  http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=93522

Libertà di religione? Per 5 miliardi di uomini è un sogno proibito

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Libertà di religione? Per 5 miliardi di uomini è un sogno proibito

Lo dimostra il Pew Forum con la più grande indagine mai compiuta sul tema. Alle restrizioni dei governi si sommano le ostilità sociali. Anche i paesi più liberi non ne sono immuni. In Israele, incidenti tra ebrei ultraortodossi e cristiani

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di Sandro Magister
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ROMA,
8 gennaio 2010 – Il diagramma riprodotto qui sopra classifica le cinquanta più popolose nazioni del mondo sulla base delle rispettive restrizioni alla libertà religiosa: sia le restrizioni imposte dai governi, in misura crescente da sinistra verso destra, sia quelle prodotte da violenze di persone o di gruppi, in crescendo dal basso verso l’alto.

Le violazioni della libertà religiosa saranno un tema rilevante del discorso che papa Benedetto XVI terrà l’11 gennaio – come ogni inizio d’anno – al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.

Il tema non è nuovo. Eppure mai prima d’ora era stato analizzato con la precisione scientifica messa in campo dal Pew Forum on Religion & Public Life di Washington, nell’indagine da cui è tratto il diagramma.

L’indagine riguarda 198 paesi,
tra i quali manca la Corea del Nord per l’invincibile scarsità di dati, e copre i due anni che vanno dalla metà del 2006 alla metà del 2008.

La sintesi dell’indagine e le 72 pagine del rapporto finale possono essere scaricate gratuitamente dal sito del Pew Forum:

> Global Restrictions on Religion, December 2009

Nel diagramma la grandezza dei cerchi è commisurata alla popolazione di ciascun paese. Come si vede, tra i paesi con più restrizioni alla libertà religiosa hanno un peso schiacciante l’India e la Cina, ciascuna con una popolazione ben sopra il miliardo. Col corredo di altri paesi illiberali anch’essi densamente popolati, va a finire che il 70 per cento dei 6,8 miliardi della popolazione del globo vivono in nazioni con alti o altissimi limiti alla libertà di religione.

Viceversa,
sono appena il 15 per cento della popolazione mondiale coloro che vivono in paesi ove le religioni sono accettabilmente libere.

Naturalmente, le modalità con cui nei vari paesi la libertà religiosa incontra ostacoli sono dissimili.

In Cina e in Vietnam, ad esempio, le popolazioni non mostrano ostilità verso l’una o l’altra religione. Sono i governi a imporre forti limiti alle espressioni di fede. In Cina le restrizioni colpiscono i buddisti del Tibet, i musulmani dell’Uighur, i cristiani privi di registrazione governativa e i seguaci del Falun Gong.

L’opposto avviene in Nigeria e in Bangladesh. Lì i governi optano per la moderazione, mentre è nella società civile che esplodono atti di violenza contro l’una o l’altra religione.

Anche in India l’ostilità è più opera delle parti sociali che delle autorità, nonostante anche queste impongano pesanti restrizioni.

Tra 198 paesi, ce n’è uno solo in cui gli indici di ostilità contro le religioni “nemiche” toccano i picchi massimi sia da parte del governo che da parte della popolazione. Ed è l’Arabia Saudita.

Ma anche Pakistan, Indonesia, Egitto ed Iran hanno indici complessivamente molto negativi, al pari dell’India. In Egitto, le restrizioni alla libertà religiosa si abbattono soprattutto sui cristiani copti, che sono circa il dieci per cento della popolazione.

Metà dei paesi del mondo proibiscono o limitano fortemente l’attività missionaria. Alcuni governi sostengono una sola religione (in Sri Lanka, Myanmar e Cambogia il buddismo) reprimendo tutte le altre. In alcuni paesi l’ostilità è tra frazioni dello stesso mondo religioso. In Indonesia, il paese islamico più popoloso del globo, a soffrire sono i musulmani Ahmadi. E in Turchia i musulmani Alevi, che pure si contano in milioni.

In una mappa del mondo inclusa nel rapporto, con i singoli paesi colorati a seconda del grado di restrizione della libertà religiosa, balza agli occhi che le aree di maggiore libertà sono quelle in cui è più presente il cristianesimo: l’Europa, le Americhe, l’Australia e l’Africa subsahariana.

Ma anche qui qualche restrizione c’è. In Grecia solo i cristiani ortodossi, gli ebrei e i musulmani possono organizzarsi in quanto tali e detenere proprietà. I cristiani di altre confessioni no.

In Francia, la legge che nelle scuole proibisce il velo alle ragazze musulmane vieta anche ai cristiani di portare una croce troppo visibile e ai sikh di portare il turbante.

In Gran Bretagna, dove pure il capo dello Stato è anche capo della Chiesa d’Inghilterra, una sentenza ha consentito che un’azienda imponesse ai propri dipendenti cristiani di nascondere i simboli della loro fede sul luogo di lavoro, lasciando però liberi gli appartenenti ad altre religioni di far vedere i loro simboli.

E in Israele? La novità più incoraggiante è che in tutto il 2009, per la prima volta da molti anni a questa parte, non si è registrata alcuna uccisione di ebrei ad opera di terroristi suicidi musulmani.

La novità esula dall’arco temporale dell’indagine del Pew Forum. Che però ha registrato in Israele anche restrizioni di altro tipo alla libertà religiosa: soprattutto per i privilegi accordati, ad esempio nella legislazione matrimoniale, agli ebrei ortodossi, nonostante questi siano solo una piccola parte degli ebrei residenti nel paese.

Nelle scorse settimane – anche qui al di fuori dell’indagine del Pew Forum – vi sono stati inoltre a Gerusalemme degli atti di violenza commessi da ebrei ultraortodossi ai danni di cristiani.

Quello che segue è il comunicato emesso il 5 gennaio 2010 dall’ambasciata d’Israele presso la Santa Sede dopo i passi compiuti per porre fine a questi incidenti, accompagnato da un appello alla pacificazione firmato dalle autorità preposte alla comunità ebraica implicata.


COMUNICATO

In seguito alle lamentele causate dalle molestie dirette verso sacerdoti e luoghi cristiani nella capitale d’Israele, il consigliere del sindaco di Gerusalemme per le comunità religiose, il signor Jacob Avrahmi, ha preso delle iniziative intese a mobilitare il sostegno della comunità ultraortodossa degli Haredim per combattere la tensione lungo la linea di separazione tra gli ebrei ultraortodossi e i loro vicini cristiani.

In un incontro tra i rappresentanti del ministero degli affari esteri e la municipalità di Gerusalemme con il rabbino Shlomo Papenheim della comunità degli Haredim, è stata presentata una lettera di denuncia verso gli attacchi, che cita come i saggi di tutte le epoche hanno sempre proibito di molestare i gentili.

Qui di seguito si riporta la traduzione della lettera del Beth Din Tzedek – il tribunale della comunità ebraica ortodossa e la più alta istanza della comunità ebraica ultraortodossa a Gerusalemme – scritta in un ebraico piuttosto originale:

PROVOCAZIONI PERICOLOSE

Recenti e ripetute lamentele sono state fatte da gentili a proposito di reiterate molestie ed insulti diretti verso di loro da giovani irresponsabili in vari luoghi della città, specialmente nei pressi di Shivtei Yisrael Street e nei pressi della tomba di Shimon il Giusto.

Oltre a dissacrare il Santo Nome, che già di per sé rappresenta un peccato assai grave, provocare i gentili, secondo i nostri saggi – benedetta sia la loro santa e virtuosa memoria – è proibito e può portare tragiche conseguenze sulla nostra comunità, possa Dio avere pietà.

Noi quindi invochiamo chiunque abbia il potere di porre fine a questi vergognosi incidenti, attraverso la persuasione, di attivarsi per rimuovere questi pericoli, affinché la nostra comunità possa vivere in pace.

Possa il Santissimo, che Egli sia benedetto, diffondere il tabernacolo di una vita misericordiosa e pacifica su di noi e sulla Casa d’Israele e Gerusalemme, mentre noi aspettiamo la venuta del Messia presto e nel nostro tempo, Amen.

Firmato oggi, il 13 di Tevet 5770 (30 Dicembre 2009) dal Tribunale di Giustizia della comunità Haredim, nella santa città di Gerusalemme.

Le parole del tribunale sono chiare e semplici, e si spera che tutti coloro che le ascoltano e che possono prevenire queste azioni lo facciano.

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La home page dell’istituto di ricerca autore dell’indagine “Global Restrictions on Religion”:

> The Pew Forum on Religion & Public Life

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Gli ultimi tre precedenti servizi di http://www.chiesa:

4.1.2010
> Anna e i suoi fratelli. I mille volti del vero islam
In un libro che illumina come pochi, una giovane italo-marocchina racconta di sé e dei suoi tanti parenti musulmani. Amori, rovine, passioni, fanatismi. E l’Europa come sogno incompiuto. Un islam multiforme e sconosciuto. Tutto da scoprire

30.12.2009
> In Olanda non c’è più posto per il bambino Gesù. O invece sì
Chiese che non sono più chiese ma condominii, negozi o moschee. Un cattolicesimo in pericolo di sparire. Un reportage da Amsterdam con un’intervista al cardinale Simonis: “Dobbiamo ricominciare da capo”

25.12.2009
> “Il segno di Dio è che egli si fa piccolo, diventa bambino”
“Non è più il Dio distante, che attraverso la creazione e mediante la coscienza si può in qualche modo intuire da lontano”. A Betlemme irrompe la notizia che cambia tutto, anche i “cuori di pietra”. L’omelia del papa nella notte di Natale

__________Altre notizie e commenti in

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fonte:  http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1341657?ref=hpchie

SESSUALITA’ – Gli ultrasuoni con effetto Viagra

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Scoperta di un andrologo italo-israeliano del Rambam Medical Center di Haifa

Il Viagra sostituito dagli ultrasuoni?

Le onde stimolano l’afflusso di sangue in modo innocuo, bersagliando cinque aree specifiche dei genitali maschili

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Dall’inviato CorSera Francesco Battistini
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HAIFA (Israele) – Viagra vai via: l’erezione non è più una schiavitù da farmaco. E gli impotenti cardiopatici, ipertesi, priapisti, intolleranti (nel senso del glucosio), insomma tutti quelli che per ragioni di salute e di controindicazioni nell’ultimo decennio non hanno mai avuto accesso alla pillola blu della riscossa, forse la vera rivoluzione sessuale di questi Anni Zero, anche loro possono finalmente innalzare i cuori e il resto. La buona notizia è che erigere si può. Senza ricette, citrati, rischi del metabolismo. Bastano un po’ d’onde d’urto, ha scoperto un andrologo italo-israeliano del Rambam Medical Center di Haifa, il dottor Yoram Vardi: choc a bassissima energia, quanto basta per ridare al pene la posizione che gli compete, «e soprattutto eliminare il problema per un tempo relativamente lungo: anche dopo tre mesi, l’effetto permane».

ULTRASUONI – Il sistema è quello degli ultrasuoni che bombardano i calcoli renali. Le onde stimolano l’afflusso di sangue all’organo genitale, in modo innocuo, attivando il fattore di crescita endoteliale: «Non abbiamo fatto altro che ripetere una forma lieve di litotripsia – dicono gli andrologi -, la terapia per i calcoli messa a punto vent’anni fa. Ce n’eravamo accorti già con gli animali: con le onde, è possibile stimolare la creazione di nuovi vasi sanguigni, che vanno ad aggiungersi a quelli esistenti, ma “in crisi”. Bersagliamo cinque aree specifiche dei genitali e i risultati, con nostra sorpresa, sono stati davvero buoni». Su venti volontari, età media 56 anni e da almeno tre con disfunzioni erettili, sei sedute per tre settimane, in quindici casi ci sono stati notevoli miglioramenti. Lo studio è serio, supervisionato dall’International Society of Sexual Medicine, e i ricercatori sono i primi a mettere qualche stop: la terapia si applica solo a chi ha scarso flusso di sangue al pene (comunque l’80 per cento degli impotenti), non a chi ha problemi muscolari o nervosi, e in ogni caso bisogna attendere altri test per evitare che qualcuno abbia subito l’effetto placebo, una semplice suggestione.

OTTIMISMO – Fatte queste tare, l’ottimismo regna: «Ci sono buone speranze per ridurre il ricorso a farmaci come il Cialis o il Viagra, che peraltro risolvono il problema solo per qualche ora, lasciando inalterato lo stato patologico». Alla Pfizer, la multinazionale che in questi anni ha incassato miliardi grazie al Viagra, un estratto della ricerca è già arrivato. E letto con qualche preoccupazione: chi ha provato gli ultrasuoni, è passato felice a salutare i ricercatori nei laboratori del centro di Haifa. «La loro vita sessuale è tornata quasi normale – dicono i medici -. Senza effetti collaterali indesiderati. E perdipiù, spendendo molto meno».

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09 gennaio 2010

fonte:  http://www.corriere.it/salute/10_gennaio_09/viagra-ultrasuoni-battistini_225ae760-fd5d-11de-9229-00144f02aabe.shtml