Archivio | gennaio 12, 2010

I craxiani sono peggio di Bettino / In Cina con Craxi e i suoi cari / Quando Bettino si beveva la città

l’opinione

I craxiani sono peggio di Bettino

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di Marco Travaglio

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Quanti Stati esistono in Italia, se uno condanna un corrotto e un altro lo celebra come statista?

Bettino Craxi
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Tra le fumisterie politichesi che precedono il decennale della morte di Bettino Craxi, nessuno è ancora riuscito a dare una risposta sensata a una semplice domanda: perché bisognerebbe riabilitarlo? Secondo Piero Fassino, “al di là delle responsabilità penali, a dimensione giudiziaria ha sovrastato a riflessione politica”. Come se non fosse un fatto politico gravissimo che un presidente del Consiglio infranga le leggi che lui stesso pretende di imporre agli altri. Fassino definisce Craxi “un capro espiatorio” perché “il problema del finanziamento illegale non riguardava solo il Psi, ma l’intero sistema politico”. Se le parole hanno un senso, sta confessando di essere stato complice del “problema”: cioè di un reato.
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Filippo Penati definisce Craxi “un grande statista“, ma statista deriva da Stato: quanti Stati esistono in Italia, se uno condanna un corrotto e un altro lo celebra come statista? Bobo, figlio d’arte, parla di “pacificazione”, ma non spiega chi dovrebbe far la pace con chi: le guardie con i ladri? I ladri con i derubati? Il ministro degli Esteri Franco Frattini andrà addirittura in pellegrinaggio ad Hammamet: è lo stesso Frattini che protesta perché qualcuno, in America, critica la condanna di Amanda Knox a Perugia. Ma come può un governo invocare il rispetto della giustizia italiana se i suoi ministri sono i primi a delegittimarla? Letizia Moratti paragona le condanne di Craxi a quelle di Garibaldi e Giordano Bruno, come se questi intascassero tangenti miliardarie su conti svizzeri. Paolo Franchi, sul ‘Corriere della Sera’, sostiene che Craxi non si assoggettò alla giustizia perché “erano tempi in cui non si facevano prigionieri”. In realtà Craxi doveva finire in carcere per scontare due condanne definitive a 10 anni emesse da un regolare tribunale al termine di regolari processi.

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Per Carlo Tognoli, pure lui pregiudicato, è ora di “riscrivere la storia” perché “è falso che la classe politica fosse totalmente corrotta“. Ma che rubassero tutti lo disse proprio Craxi alla Camera: mentiva Craxi o mente Tognoli? Carlo Ripa di Meana definisce Craxi “un gigante fra i lillipuziani”, mentre “Mani Pulite non portò alcuna redenzione”: ma le indagini giudiziarie servono a punire chi commette reati, non a impedire che altri ne commettano. Ripa paragona Craxi a Kohl. Forse gli, sfugge che dieci anni fa il patriarca della Germania unita fu indagato per i fondi neri della Cdu, ammise di aver incassato 1 milione di euro in nero, si scusò in lacrime, lasciò la presidenza del partito, pagò 300 mila marchi per chiudere il suo processo, ipotecò la casa e raccolse 3 milioni di euro per risarcire la multa pagata a causa sua dalla Cdu. Due mesi fa la sua erede Angela Merkel l’ha escluso dalle celebrazioni per i 10 anni dalla caduta del muro di Berlino. A proposito di giganti e di nani.

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08 gennaio 2010

fonte:  http://espresso.repubblica.it/dettaglio/i-craxiani-sono-peggio-di-bettino/2118998/1&ref=hpsp

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Rosa Blog di Chiara Valentini

In Cina con Craxi e i suoi cari

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Ho anch’io una storia da raccontare fra le molte che si leggono in questi giorni in vista del decennale della morte di Bettino Craxi. La mia storia ci riporta nel lontano 1986 e si svolge non nella Milano da bere né nella Roma del Preambolo, l’ambiguo patto di potere fra democristiani e socialisti – perché questa in soldoni era la famosa modernità praticata da Bettino- ma nella remota Cina. Ero stata mandata lì dal mio giornale di allora, Panorama, con una trentina di altri giornalisti, per raccontare la visita ai cinesi del presidente del Consiglio Craxi e del suo ministro degli esteri Giulio Andreotti.

Quali fossero i contenuti di quella missione, che si rivelerà poi un mezzo flop , credo non se lo ricordi più nessuno. Ma fin dal primo giorno si era capito che l’interesse di quel viaggio non era negli incontri di routine di Craxi con dirigenti e burocrati del Celeste impero. In quella sterminata Pechino dove ancora non esistevano i grattacieli e milioni di cinesi in tuta blù scivolavano via silenziosi sulle loro biciclette, scoprivamo qualcosa che in Italia non era ancora così evidente. Era la faccia pacchiana e arrogante del craxismo, una sicumera di tipo nuovo, così diversa del felpato esercizio democristiano del potere. Per la prima volta vedevamo in azione sotto i nostri occhi la corte di familiari, vassalli e portaborse di Betttino, traghettati in Cina da un jumbo privato (banalmente, a spese nostre), molto più simili ad un gruppone di nuovi ricchi in gita sociale che ad una delegazione diplomatica.

E già, perché oltre alla moglie, alla figlia Stefania che poi costruirà nel mito di Bettino la sua carriera politica, al figlio Bobo con annessa fidanzata, ad un paio di fedeli segretarie e all’autista Nicola, c’era il misterioso Cornelio Brandini, il compagno di bisbocce milanesi insediato in un ufficio di palazzo Chigi per distrarre il capo. C’era Margherita Boniver e Ludovica Barassi, la compagna d’allora di Claudio Martelli. C’era il fotografo personale Cicconi e l’estroversa Marina Lante della Rovere con l’ultimo marito Carlo Ripa di Meana, si proprio quello che va dichiarando che Craxi era un gigante fra i pigmei.

Non contenti di essere in un luogo dove non avevano ragioni per stare, vari di questi allegri convitati indispettivano ogni giorno di più i cinesi con i loro comportamenti improvvidi. In una Cina non ancora aperta ai turisti ramazzavano a prezzi irrisori, nei pochi negozi per stranieri, interi stock di pullover di cachemire e di tagli di stoffe pregiate. Mettevano in crisi il rigido protocollo cinese arrivando in ritardo ai pranzi ufficiali e pretendendo piatti non previsti. Marina Lante aveva provocato un mezzo incidente diplomatico presentandosi con una vertiginosa scollatura, che i cinesi avevano giudicato offensiva per il pubblico decoro. Per non parlare di un altro accompagnatore che era arrivato ad una cerimonia travestito da guardia rossa, come se fosse carnevale.

“ Sono venuto in Cina con Craxi e i suoi cari”, aveva commentato Andreotti con un sorrisetto perfido, rivolgendosi al gruppone dei giornalisti. Ma su tutta questa storia, che pure era al centro delle nostre chiacchiere e delle telefonate alle redazioni italiane, i quotidiani non avevano scritto una sola riga, forse preoccupati di non dispiacere al rampante potere socialista. Ma al ritorno in Italia le inviate dei due settimanali di punta, io stessa e Fiamma Nierenstein, avevamo pubblicato tutto. Ne era nato un breve scandalo, presto dimenticato.

Se ripenso a quel viaggio mi torna in mente l’umiliazione provata di fronte agli sguardi gelidi dei nostri ospiti, la vergogna e l’imbarazzo di essere italiana. E’ quel che mi capita di nuovo oggi, nell’Italia berlusconiana che per molti aspetti si ispira a quel lontano modello. E dove non per caso si vuole fare di Craxi uno statista oltre che un perseguitato.

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04 gennaio 2010

fonte:  http://valentini.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/01/04/in-cina-con-craxi-e-i-suoi-cari/

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Quando Bettino si beveva la città

Superattici, cene e belle donne: gli anni ruggenti dei socialisti a Milano
La svolta del Psi: dalla sobrietà antica di Nenni all’ostentazione del potere

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di MICHELE BRAMBILLA
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MILANO
Basilio Rizzo, della Lista Fo,
è ormai rimasto uno dei pochi politici a dire, senza timore di apparire spietato, che Milano a Craxi non deve dedicare alcunché. E non tanto per la corruzione che – Craxi regnante – prosperò, e che Rizzo – consigliere comunale dal 1983 – già da allora denunciò. Quanto perché «dopo di lui la parola socialismo non è più identificata con le lotte dei lavoratori ma con una stagione di pacchiana grandeur». Con lui il socialismo si identifica con quella “Milano da bere” che era sinonimo di soldi da spendere – spiega Rizzo – Craxi ha tradito non solo la storia del Psi ma anche i comportamenti dei suoi militanti, il loro stile di vita. Con lui i socialisti hanno subìto una mutazione antropologica: dalla sobrietà di un Nenni all’ostentazione del lusso e del potere».
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«Milano da bere» era un fortunato spot pubblicitario della Ramazzotti, datato 1987. Voleva indicare una città gioiosa, ottimista, desiderosa di uscire dalle nebbie, le luci gialle, i cortei e le violenze dei cupi anni Settanta. Finalmente tornava la vita, la voglia di divertirsi, di produrre, di consumare e di crescere. Fecero anche dei film, su quel tempo da Bengodi, come Sotto il vestito niente e Via Montenapoleone di Carlo Vanzina. Soldi, champagne, moda, modelle, sesso. Ma fu vera gloria? L’ideatore di quello spot, Marco Mignani, mai avrebbe immaginato che cinque anni dopo la «Milano da bere» sarebbe stata chiamata «Tangentopoli», un neologismo inventato all’epoca dell’inchiesta Mani Pulite. «A bere Milano – ha scritto Massimo Fini – erano solo i socialisti».
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Il Psi governava la città dal primo dopoguerra. Ma fu negli anni Ottanta che si verificò, sotto la guida di Craxi, la fortunata congiunzione astrale che consentì al Psi di trovarsi sempre dalla parte di chi governa: a Roma con la Dc e a Milano con il Pci. Senza più intralci, il partito abbandonò la falce e martello per il garofano, la vocazione operaista per quella modernizzatrice e borghese. Enzo Biagi capì che la «mutazione antropologica» era in corso già nel 1983, quando Craxi diventò presidente del Consiglio: «È l’ora di Craxi: di sicuro, di strada ne è stata fatta dagli scamiciati di Pelizza da Volpedo alle cravatte Regimental della giovane guardia Psi». A Milano ricordano una battuta che testimonia quel cambiamento. Viene attribuita a Matteo Carriera, un ex autista del sindaco Carlo Tognoli che diventò presidente dell’Eca Ipab, uno degli storici istituti di assistenza milanesi: «Ora non mangio più alla mensa ma al ristorante».
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E la «Milano da bere» socialista aveva i suoi, di ristoranti, quasi tutti concentrati fra Brera e la confinante zona-Corriere. Il Matarel di via Mantegazza Solera, la Trattoria dell’Angolo in via Fiori Chiari, il Garibaldi di via Monte Grappa. Era la zona dove già negli anni Sessanta si radunavano i socialisti di «fascia alta», intellettuali e imprenditori: al bar Jamaica di via Brera, storico locale degli artisti, e al club Turati del giovane Carlo Ripa di Meana. Ma negli Anni Ottanta l’egemonia sulla città diventò totale. Con Craxi regnante, al tempo dei grandi congressi con le scenografie dell’architetto Filippo Panseca, il Psi godeva dell’appoggio di tutti quelli che a Milano contavano. Del mondo della moda: Nicola Trussardi («Facevo l’imprenditore a Milano e a Milano governavano i socialisti, gli interlocutori erano loro», dirà in un’intervista del 1993, in piena Mani Pulite), Santo Versace, Krizia. Del mondo della cultura e della scienza: per intenderci, da Giorgio Strehler a Umberto Veronesi; dal Paolo Grassi del Piccolo alla Scala e alla Rai. Del mondo dello spettacolo: da Milva a Caterina Caselli a Ornella Vanoni. «Ridateci il ciccione – ha detto la Vanoni in un’intervista a La Stampa nel 2007 – che ci ha fatto vivere gli anni Ottanta come se fossimo ricchi e felici».
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La dolce vita si rifletteva nei comportamenti privati di politici e professionisti non proprio conformi allo stile di un tradizionale «compagno». Come l’assessore Walter Armanini, che condannato in via definitiva riparò all’estero con la modella Demetra Hampton (dalle canoniche misure: 90-60-90), l’attrice che interpretò sugli schermi la Valentina di Crepax e che lui, Armanini, chiamava «scimmietta». O come l’architetto Silvano Larini, raffinato bon vivant che per i magistrati era il grande raccoglitore di tangenti. Quando, al processo Cusani, Di Pietro gli chiese in quale orario si svolse una certa cena-con-mazzetta, Larini rispose: «Per me ora di cena è all’uscita dalla Scala». Dall’abitazione di via Foppa 5 al superattico di viale Coni Zugna (dove custodiva i cimeli garibaldini) all’ufficio di piazza Duomo 19, Craxi tutto dominava.
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Fu solo un’orgia di potere, come dicono i detrattori? È probabile che no, non fu solo quello. Ma è ancora forte il ricordo di quando la «Milano da bere» si svegliò con le manette ai polsi di uno dei potenti socialisti del tempo, Mario Chiesa, beccato con le mani nelle banconote. «È solo un mariuolo», cercò di tagliere corto Craxi. Ma i tempi erano cambiati. Per una magistratura e una stampa che prima non sempre avevano voluto vedere; per quegli imprenditori che, stanchi di pagare, andarono in pellegrinaggio da Di Pietro; per un clima politico generale che stava cambiando, e forse ancor di più per un destino che è sempre lì a ricordarci che, per tutti, passa la scena di questo mondo.
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03 gennaio 2010
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Preti pedofili, la svolta del Vaticano: “Se casi certi, sì a giustizia ordinaria”

Intervista del prefetto della Congregazione del Clero all’Osservatore
“Fatti gravissimi e delittuosi, che feriscono profondamente la Chiesa”

Preti pedofili, la svolta del Vaticano
“Se casi certi, sì a giustizia ordinaria”

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di ORAZIO LA ROCCA

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CITTA’ DEL VATICANO – Sui preti che si macchiano del “gravissimo crimine” della pedofilia, in Vaticano è scattata l’ora della svolta. D’ora in poi oltre ad essere sottoposti al giudizio delle leggi ecclesiastiche, saranno consegnati anche ai tribunali civili per essere giudicati e condannati dopo un regolare processo. Per i preti pedofili, quindi, oltre alle pene ecclesiastiche – vale a dire immediata riduzione allo stato laicale e scomunica dalla Chiesa cattolica – saranno comminate anche le punizioni previste dai Codici penali ordinari.
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L’annuncio è stato dato ieri, dal cardinale prefetto della Congregazione per il clero, il brasiliano Claudio Hummes, il “ministro” vaticano incaricato da Benedetto XVI di intervenire “con la massima severità” nei confronti di quei sacerdoti che, tradendo il loro ruolo, vengono ritenuti colpevoli di violenze sessuali nei confronti dei minori che frequentano le loro parrocchie, come purtroppo è accaduto in diverse diocesi, specialmente negli Usa e nell’Irlanda del Nord.
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Papa Ratzinger l’11 dicembre scorso, ricevendo in Vaticano i vertici della Chiesa irlandese, aveva preannunciato chiaramente che sui preti pedofili non ci sarebbe stata nessuna tolleranza. La conferma di tale proposito arriva ora – ad un mese esatto da quella drammatica udienza – dal cardinale Hummes attraverso una intervista all’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede.
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“La dolorosa vicenda irlandese
– per la quale tra l’altro alcuni vescovi si sono assunti le loro responsabilità e si sono fatti da parte – non può essere riferita a tutto il ministero episcopale”, afferma il porporato in un passaggio di un’intervista al giornale pontificio. “I vescovi sono buoni padri per i loro sacerdoti. Certo, esistono alcune situazioni disdicevoli, ma sono molto limitate. Si tratta purtroppo di situazioni legate alla condizione umana. E’ quanto accaduto in Irlanda. Un fatto dolorosissimo che colpisce prima di tutto, è vero, le vittime, ma ferisce anche profondamente il cuore della Chiesa. Accertate oggettivamente le responsabilità di tanto male, bisogna andare risolutamente sino in fondo – conclude il cardinale Hummes – anche facendo ricorso alla giustizia ordinaria”. Al di là della prudente analisi fatta dal cordinale su un fenomeno tanto grave e sconvolgente come i casi di pedofilia tra i preti, è un fatto che per la prima volta un “ministro” della Santa Sede evoca per questi reati il ricorso alla giustizia ordinaria.
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“Provo rabbia e vergogna; sono profondamente colpito, turbato e addolorato: chi ha sbagliato pagherà”, aveva detto Benedetto XVI ricevendo a dicembre in Vaticano i vertici della Chiesa irlandesi per analizzare il Rapporto Murphy, l’inchiesta-choc fatta dal governo dell’Irlanda del Nord sugli abusi sessuali commessi dai sacerdoti della diocesi di Dublino dal 1975 al 2004. Trenta anni di violenze compiute da 46 preti ai danni di centinaia di bambini. Dopo la pubblicazione del Rapporto, nei giorni scorsi sono stati costretti alle dimissioni due vescovi irlandesi accusati di omesso controllo sui casi di pedofilia denunziati nelle loro diocesi. Altre dimissioni per analoghi motivi potrebbero essere decise dal cardinale Sean Brady, presidente della Conferenza episcopale irlandese, e dall’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin, i due più importanti prelati cattolici irlandesi a cui il Papa ha affidato il gravoso compito di fare “pulizia” tra i preti corrotti e di rilanciare la comunità cattolica del loro Paese. Un obiettivo che sarà oggetto anche di una prossima lettera ad hoc che lo stesso Benedetto XVI invierà ai vescovi irlandesi prossimamente. In attesa della lettera papale, nel frattempo il Vaticano ha aperto ai preti pedofili “colpevoli” anche la strada dei tribunali civili. Non è poco. Anche se forse ci si poteva arrivare prima.
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12 gennaio 2010
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Ora dal Sud fuggono i laureati: 80mila emigrati in cinque anni

Dati preoccupanti da una ricerca di Bankitalia sulla mobilità del lavoro in Italia

Tra il 1990 e il 2005 due milioni di persone si sono trasferite al Centro-Nord

Ora dal Sud fuggono i laureati
80mila emigrati in cinque anni

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ROMA – L’esodo dal Mezzogiorno non si ferma, ma a cercare fortuna nelle regioni del centro nord non sono più ex braccianti e operai disoccupati, ma migliaia di giovani con un titolo di studio qualificato: tra il 2000 e il 2005, in particolare, oltre 80mila laureati (l’1,2% dei residenti con tale titolo di studio) hanno abbandonato le regioni del Sud per emigrare in cerca di un’opportunità lavorativa.
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Il dato è contenuto in una ricerca sulla mobilità del lavoro realizzata da due economisti della Banca d’Italia (Sauro Mocetti e Carmine Porello). Lo studio dimostra che “il mezzogiorno diventa sempre meno capace di trattenere il proprio capitale umano, impoverendosi della dotazione di uno dei fattori chiave per la crescita socio-economica regionale”. L’emigrazione dei “cervelli”, rilevano i due economisti, può comportare “un impoverimento di capitale umano che, a sua volta, potrebbe riflettersi nella persistenza dei differenziali territoriali in termini di produttività, competitività e, in ultima analisi, di crescita economica”. In un simile contesto, a parere dei due economisti, l’intervento dello Stato deve essere mirato ad eliminare le cause che ostacolano, in termini quantitativi e qualitativi, la crescita economica nel Mezzogiorno.
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Nel 2005, spiega la ricerca di Bankitalia, i trasferimenti di residenza tra comuni italiani sono stati oltre un milione e 300mila, il valore più elevato degli ultimi 15 anni. Le iscrizioni anagrafiche nel centro-nord sono aumentate in tutto questo periodo, mentre sono diminuite nel mezzogiorno. Al sud, in particolare, “è diminuita la già modesta mobilità di breve raggio, mentre rimane consistente il flusso migratorio  unidirezionale verso le regioni più sviluppate del paese”.


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In un arco di tempo più ampio – tra il 1990 e il 2005 – quasi due milioni di persone sono emigrate verso il centro-nord e l’emigrazione dal Sud (isole incluse) “ha ripreso vigore nella seconda metà degli anni Novanta, interrompendo un trend decrescente che durava dai primi anni Settanta; all’inizio del decennio in corso il deflusso si è nuovamente attenuato”.
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Negli ultimi anni, inoltre, è aumentato anche il cosiddetto “pendolarismo di lungo raggio”, fenomeno che riguarda coloro che, pur mantenendo la residenza d’origine, vanno a lavorare in una località molto lontana dal proprio Comune nel quale riescono a tornare raramente nel corso dell’anno. Un dato del 2007 rivekla, ad esempio, che al centro-nord lavoravano stabilmente circa 140mila persone residenti nel Mezzogiorno (pari al 2,3% degli occupati dell’area); spesso, secondo la ricerca, si tratta di giovani che non hanno ancora raggiunto la stabilità dal punto di vista familiare e occupazionale.
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Quante alle cause, l’emigrazione dal Sud continua ad essere alimentata dalle maggiori opportunità di lavoro esistenti nel Centro-Nord e dunque dalla persistenza, nel Mezzogiorno, di un disagio storico legato alla mancanza del lavoro ed al ritardo di sviluppo e crescita economica. Secondo lo studio di Bankitalia, all’inizio degli anni Duemila a rallentare i flussi migratori dal Sud contribuì il forte aumento dei prezzi delle case al centro-Nord. Ma anche il cambiamento del mercato del lavoro con il boom del precariato che certo non incentivava le persone, soprattutto i giovani, a spostare la residenza per seguire un lavoro a termine.
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Infine, conclude lo studio, anche la crescita dell’immigrazione straniera ha contribuito a modificare le scelte migratorie degli italiani, favorendo “l’afflusso dei nativi laureati” e frenando “quello dei meno scolarizzati”. In particolare, la concentrazione degli stranieri nel Centro-Nord avrebbe incontrato una domanda di lavoro che in passato veniva soddisfatta dai lavoratori del mezzogiorno”.
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12 gennaio 2010
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CICLONE CINA – Auto, Cina leader del mercato mondiale / Export, la Cina supera la Germania (ed è la prima al mondo)

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Auto, Cina leader del mercato
cade il primato Usa dopo 100 anni

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ROMA – La Cina conquista il titolo di primo mercato mondiale dell’auto e soppianta gli Stati Uniti che per oltre 100 ne hanno mantenuto il dominio.
La Cina ha archiviato nel 2009 un balzo del 46% delle vendite di automobili, bus e camion per un totale di 13,6 milioni di veicoli. Il risultato, comunicato dall’Associazione dell’industria automobilistica cinese, si deve principalmente all’effetto degli incentivi del governo di Pechino e si raffronta ai 9,4 milioni di auto vendute nel 2008.
Negli Usa, le vendite di auto 2009 sono diminuite del 21% a 10,4 milioni, un livello che non si vedeva dal 1982.
In Cina nel solo mese di dicembre, le vendite di autoveicoli sono aumentate del 92% a 1,4 milioni, mentre nell’intero 2009 le immatricolazioni automobili hanno segnato un rialzo del 53% a 10,3 milioni.
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11 gennaio 2010
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Export, la Cina supera la Germania

Nei primi undici mesi del 2009 le esportazioni di Pechino hanno raggiunto i 748 miliardi di euro contro 734 di Berlino

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Foto Export, la Cina supera la Germania

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E’ ormai ufficiale: la Cina è la prima potenza esportatrice al mondo, davanti la Germania, nonostante la contrazione dell’export in seguito alla crisi globale. Il sorpasso è avvenuto nei  primi mesi del 2009. Secondo i dati diffusi dall’ufficio statistico tedesco, da gennaio a novembre, le esportazioni cinesi hanno raggiunto un totale di 748 miliardi di euro contro quelle tedesche a 734,6 miliardi di euro.

Dal 2003 la Germania era leader incontrastata dell’export mondiale. La crisi ha segnato profondamente l’economia tedesca che ha sofferto soprattutto a livello internazionale. Dai 13,6 miliardi di ottobre, il surplus commerciale tedesco è lievitato a quota 17,2 miliardi a novembre. L’import scende del 5,9% mensile a 53,4 miliardi di euro, l’export aumenta del 1,6% mensile e del 12% annuale a 70,6 miliardi di euro.

“Esportare non vuol dire esser la prima economia. Le esportazioni cinesi sono sopratutto di merci, e non di servizi, mentre nelle economie  avanzate sono sopratutto i servizi che contano. Quindi la Cina è certamente la prima potenza industriale. Gli Stati Uniti sono sempre considerati la prima potenza economica al mondo, la seconda il Giappone, anche se con tutta probabilità quest’anno o quello venturo la Cina supererà il Giappone”, precisa Carlo Filippini, professore ordinario di Economia Politica all’università Bocconi di Milano.
Intano il vice-ministro aggiunto per il Commercio cinese, Zhong Shan, guardando al 2010 promette: “l’export cinese continuerà a crescere”.

S.M.

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12 gennaio 2010

fonte:  http://www.progressonline.it/index.php?livello=Home&sezione=1&articolo=2703&lang=it

Bettino Craxi, il latitante / Una via dedicata a Craxi, no della Lega: «Dedichiamogli la linea metro mai fatta»

L’Italia che dimentica, da Mussolini al leader socialista

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craxiIn questi giorni la politica italiana ricorda il segretario del Psi, morto il 19 gennaio del 2000 ad Hammamet in Tunisia, dove era fuggito per evitare di essere arrestato, processato e per non andare in carcere dopo essere stato condannato ad oltre dieci anni di carcere.

Le celebrazioni previste per il giorno della sua morte, l’intenzione del sindaco di Milano, Letizia Moratti, di intitolargli una strada, la prevista ‘attenzione’ del presidente della Repubblica, Giorgio Naplitano, per la ricorrenza e il quasi plebiscitario ‘buon ricordo’ del mondo politico per la sorte del latitante ‘caduto in esilio’ sono un avvilente esempio del cinismo italiano.

Lo stesso che ha portato a ‘ricordare con pacatezza’ il criminale Benito Mussolini, responsabile di venti anni di dittatura fascista, della persecuzione di oltre sedicimila oppositori, della condanna di 4596 cittadini per complessivi 27. 735 anni di carcere, della fucilazione di 31antifascisti, di aver commissionato omicidi e feroci aggressioni ne corso delle quali furono uccisi Amendola, Matteotti, Gobetti, Don Minzoni, Gramsci, Rosselli e colpevole della segregazione di ebrei, zingari e omosessuali. Mussolini, colui che ha scatenato con il suo ‘allievo’ e alleato Adolf Hitler la Seconda guerra mondiale, nella quale morirono 55 milioni di persone, tra le quali 40 milioni di europei.

Craxi non fu solo responsabile dei propri reati, ma contribuì alla degenerazione del sistema politico italiano. Durante gli anni della sua leadership inventò un meccanismo in base al quale il suo partito, il Psi, che disponeva di percentuali inferiori al 14 per cento di voti, diventava condizionante per tutto, perchè minacciava costantemente di mettere in crisi le alleanze alle quali partecipava pur di ottenere nuovi posti di governo e sottogoverno.

Un altro importante esponente socialista, Rino Formica, definì l’Assemblea nazionale del Partito dell’era craxiana una “corte di nani e ballerine”, perchè nel periodo in cui fu segretario, il ‘latitante’ si circondava di personaggi discutibili, di affaristi e di ragazze senza qualità, che poi insieme ai suoi collaboratori inseriva tra i dirigenti del Psi, faceva lavorare in qualunque azienda pubblica, ‘lottizzava’ a piene mani e senza alcuno scrupolo morale.

Le degenerazioni del craxismo portarono Enrico Berlinguer, molti anni prima di ‘Mani Pulite’, a dichiarare il  28 luglio 1981: “La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del Paese e la tenuta del regime democratico”.

Craxi ed i suoi alleati, nel Psi e degli altri partiti, lasciarono che il sistema delle tangenti esplodesse in Italia come mai era avvenuto prima, mentre dal 1983 al 1987 il debito pubblico passò da 234 a 522 miliardi di euro (dati valuta 2006) e il rapporto fra debito pubblico e Pil passò dal 70 per cento al 90, devastando l’economia nazionale con conseguenze che si sono trascinate fino ad oggi.

Sempre durante il regno craxiano le regole etiche in politica cambiarono, rendendo la già ossessiva voracità dei partiti in un incontrollabile macchina ‘piazza persone’, un ufficio di collocamento per raccomandati che è ancora la regola nel Paese.

I concorsi pubblici o le assunzioni, i finanziamenti, le autorizzazioni per ogni cosa divennero direttamente collegate all’appartenenza e se si era ‘indipendenti’ o peggio ‘critici del craxismo’ si era tagliati fuori da tutto senza scampo.

Si racconta di episodi surreali nella Rai, dove nelle strutture sotto controllo socialista (Raidue) i funzionari e collaboratori non socialisti si ‘confessavano’ tra loro l’infedeltà ‘ai padroni’ a bassa voce nelle toilettes della direzione generale di viale Mazzini, terrorizzati dalla possibilità di essere scoperti e cacciati via.

Ieri sera la tv pubblica ha mandato in onda in prima serata su Raidue uno speciale su leader socialista realizzato dal pur bravo Giovanni Minoli. Peccato che il direttore di Rai Educational abbia risposto a Sabelli Fioretti (che gli diceva in una recente intervista: “Eri realmente craxiano. Facesti realmente uno spot propagandistico per Craxi”) in modo inequivocabile: “Lo rifarei tutta la vita. Misi la mia faccia. Non feci come fanno tutti quando fanno gli spot a chiunque facendo finta che sia informazione…”.

Le ‘riabilitazioni’ sono in molti casi riconoscimenti dovuti a chi ha dovuto subire emarginazioni, condanne ed ostracismi a causa del proprio pensiero indipendente, ma nel nostro Paese da alcuni anni sono diventate un alibi per giustificare la fondazione del un nuovo regime, diverso da quello fascista, ma altrettanto pericoloso, quello del berlusconismo.

Il definire “grande statista” Craxi, un latitante pluricondannato per corruzione o sostenere, come fece Gianfranco Fini nel 1994 in un’intervista a ‘La Stampa’, che “Mussolini è stato il più grande statista del secolo” non sarebbe pensabile in altre democrazie europee e serve per giustificare la presenza di ex fascisti o indagati nell’attuale governo del Paese.

Vanno ricordate le parole del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che facendo gli auguri di buone feste nella caserma Vannucci della Folgore a Livorno ha reso omaggio alla X Mas definita “L’indimenticata Decima Mas”, un corpo militare che con i nazisti si rese responsabile di orrendi delitti durante la Seconda guerra mondiale.

Il suo capo, Julio Valerio Borghese, fu processato nel 1948 perchè accusato di aver compiuto “continue e feroci azioni di rastrellamento di partigiani e di elementi antifascisti, talvolta in stretta collaborazione con le forze armate germaniche, azioni che si concludevano di solito con la cattura, le sevizie efferate, la deportazione e l’uccisione degli arrestati, e tutto ciò sempre allo scopo di contribuire a rendere tranquille le retrovie del nemico, in modo che questi più agevolmente potesse contrastare il passo agli eserciti liberatori”.

I giovani italiani nulla sanno degli anni torbidi del craxismo, i crimini del fascismo sono seppelliti nel silenzio ed intanto si cerca di intitolare strade a chi si è reso responsabile di gravi reati. Nessun italiano si sente ‘personalmente’ responsabile per la tragedia della Seconda guerra mondiale.

La ‘rivoluzione culturale’ del berlusconismo è in pieno svolgimento e non sembra preoccupare neppure la fatiscente opposizione, se l’ex segretario del Pd, Veltroni, ha potuto dire senza pudore a ‘Il Corriere della Sera’ che Craxi “interpre­tò meglio di ogni altro uomo politico come la società italia­na stava cambiando”.

I riflessi di quella capacità di ‘cambiamento’ si vedono oggi con chiarezza e non c’è motivo per esserne lieti.

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12 gennaio 2010

fonte:  http://www.inviatospeciale.com/2010/01/bettino-craxi-il-latitante/

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Una via dedicata a Craxi, no della Lega: «Dedichiamogli la linea metro mai fatta»

Salvini: «Senza gli sperperi del craxismo si sarebbero potuto costruire a Milano almeno tre nuove linee»

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MILANO (12 gennaio) – A una settimana dal decimo anniversario della morte di Bettino Craxi, il leader milanese della Lega Nord Matteo Salvini ha ribadito al sindaco Letizia Moratti la contrarietà del Carroccio alla proposta di intitolare una via o un giardino all’ex segretario del Psi. Salvini ha invece ironicamente suggerito al primo cittadino di aspettare la costruzione della linea 6 (ancora lontana dall’essere messa in cantiere) e dedicare a Craxi la prima stazione della nuova metropolitana.

«Mentre il Comune si appresta a discutere un bilancio di lacrime e sangue – ha detto Salvini – la Lega non considera opportuno dedicare alcunché a Craxi, visto che l’epoca craxiana resta quella più scialacquatrice che si ricordi. Con i soldi della metropolitana tre, senza il craxismo, si sarebbero potute costruire altre tre metropolitane a Milano. E allora consiglio al sindaco di intitolare a Craxi la prima stazione della futura linea 6 del metro, a memoria di quello che poteva essere e non è stato».

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fonte:  http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=87367&sez=HOME_INITALIA

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‘VIE’ D’ITALIA

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POESIA – Adriano Sofri: Nei ghetti d’Italia Questo non è un uomo / Rosarno, il teatro legge la poesia di Sofri


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Rosarno, il teatro legge la poesia di Sofri

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Lella Costa, Gigi Proietti, Moni Ovadia, Neri Marcoré, Ascanio Celestini e Dario Fo interpretano ‘Nei ghetti d’Italia, questo non è un uomo’

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I consumi divorano il pianeta: In 5 anni aumentati del 28%

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I dati dello “State of the World 2010”, il rapporto del Worldwatch institute. I 500 milioni di dindividui più ricchi del mondo sono responsabili del 50% delle emissioni globali di anidride carbonica. E due cani pastore tedeschi consumano in un anno più risorse di un abitante medio del Bangladesh

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di ANTONIO CIANCIULLO

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QUALCHE zoommata: i bambini inglesi riconoscono più facilmente i diversi Pokémon che le specie di fauna selvatica; i bambini americani di due anni non sono in grado di leggere la lettera M, ma molti riconoscono gli archi a forma di M dei ristoranti McDonald’s; due cani pastore tedeschi consumano più risorse in un anno di un abitante medio del Bangladesh. E un dato d’assieme: i 500 milioni di individui più ricchi del mondo (circa il 7 per cento della popolazione globale) sono responsabili del 50 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica, mentre i 3 miliardi più poveri sono responsabili di appena il 6 per cento delle emissioni di CO2.
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Sono alcune delle cifre contenute nello State of the World 2010, il rapporto del Worldwatch Institute (appena uscito negli Stati Uniti, in Italia sarà pubblicato da Edizioni Ambiente) dedicato quest’anno soprattutto a un’analisi dei consumi. Ingozzarsi di cibo e di merci non fa bene né ai singoli né all’ambiente. Dal punto di vista della salute individuale c’è da notare che molti degli individui più longevi consumano 1.800-1.900 calorie al giorno, cibi poco trattati e pochissimi alimenti animali, mentre l’americano medio consuma 3.830 calorie al giorno. Dal punto di vista della salute globale c’è da rilevare che tra il 1950 e il 2005 la produzione di metalli è sestuplicata, il consumo di petrolio è aumentato di otto volte e quello di gas naturale di quattordici; un europeo medio usa 43 chilogrammi di risorse e un americano 88; a livello globale ogni giorno si prelevano risorse con le quali si potrebbero costruire 112 Empire State Building. Circa il 60 per cento dei servizi offerti gratuitamente dagli ecosistemi – regolazione climatica, fornitura di acqua dolce, smaltimento dei rifiuti, risorse ittiche – si sta impoverendo.

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E la corsa a divorare il pianeta diventa sempre più veloce: negli ultimi cinque anni i consumi sono saliti del 28 per cento. Nel 2008, globalmente, si sono acquistati 68 milioni di veicoli, 85 milioni di frigoriferi, 297 milioni di computer e 1,2 miliardi di telefoni cellulari. Non sono aumenti dovuti solo all’incremento demografico: tra il 1960 e il 2006 la popolazione globale è cresciuta di un fattore 2,2, mentre la spesa pro capite in beni di consumo è quasi triplicata.
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Non mancano comunque segnali positivi che mostrano l’irrobustirsi di fenomeni di controtendenza. Il rapporto americano cita, tra gli altri, due casi italiani. Il primo è il “piedibus”, un sistema per mandare i bambini a scuola con accompagnatori che organizzano un percorso a piedi, con “fermate” per far aggregare al gruppo altri studenti. A Lecco ogni giorno 450 alunni delle scuole elementari raggiungono a piedi le classi seguendo 17 percorsi, accompagnati da un “conducente” e genitori volontari. Dalla loro creazione, nel 2003, questi “piedibus” hanno evitato circa 160 mila chilometri di spostamenti con veicoli a motore. Oltre a ridurre l’impatto ecologico, questo modo di andare a scuola insegna la sicurezza stradale e favorisce l’esercizio fisico.
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Il secondo segnale positivo italiano segnalato dal Wordlwatch Institute riguarda le scuole romane. Il 67,5 per cento del cibo servito nelle scuole della capitale è biologico e in buona parte proviene da catene specializzate in prodotti del territorio o ha un certificato “equosolidale” o è stato prodotto da cooperative sociali che lavorano terra confiscata alla mafia.
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12 gennaio 2010
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Yemen, l’affare del gas nella terra di Al Qaeda

di Rachele Gonnelli

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Un Paese prevalentemente agricolo, povero, tra i più poveri del Pianeta, con una diffusa corruzione e un presidente che governa ininterrottamente da trent’anni, Ali Abdallah Saleh, al potere da quando è caduto nel ‘90 il muro di demarcazione tra Yemen del Nord, filoccidentale, e Yemen del Sud, filocomunista, deciso a rimanerci almeno per i prossimi tre anni, poi chissà. Un Paese bellissimo tra Mar Rosso e Mar Arabico, dove però l’industria dei resort e degli hotel di lusso non ha mai attecchito: prima la guerra civile del ’94 poi le guerriglie endemiche, i predoni, i continui rapimenti di occidentali. Ora è chiamato «il paradiso della nuova Al Qaida», che lo sta trascinando sull’orlo di una guerra a base di droni e incursori Usa.

Eppure lo Yemen non è tutto qui. E non esporta solo cipolle. Anzi, le casse statali a Sanaa sarebbero vuote senza i proventi dell’industria estrattiva degli idrocarburi, da cui provengono il 70 percento delle entrate. Insomma, lo Yemen sarà pure solo al 32° nella classifica mondiale ma è pur sempre un Paese petrolifero, non aderente all’Opec. Nel sottosuolo ha riserve accertate di greggio pari a 4 miliardi di barili. Mica poco.

Le prime trivellazioni negli anni 40 – che speravano di trovare altri giacimenti Gyant o Super Gyant come nel resto della Penisola Arabica di cui lo Yemen è, si può dire, «la coda»- portarono a risultati deludenti. Fu solo nel 1984 la scoperta di una vena considerevole di olio nero: il giacimento di Marib, da cui sgorga ancora la maggior parte del petrolio nazionale, quasi interamente destinato all’esportazione.

Tutto lo sviluppo
progettato nei prossimi decenni, incluso i prestiti della Banca Mondiale e di grandi gruppi finanziari privati, si concentra sull’industria estrattiva. C’è già una rete integrata di tre oleodotti, due raffinerie, cinque aree di estrazione – Marib a nord, Masila a sud e le altre nella zona centrale – con 12 pozzi di produzione, 26 di esplorazione, 11 impianti offshore. A trivellare e succhiare idrocarburi fanno a gara 38 società internazionali, tra cui tutte le maggiori. L’Eni ha solo una licenza esplorativa comprata insieme alla Burren Energy, l’Agip ha investito 40 milioni di dollari insieme agli algerini della Sonatrach.

Di fatto a condurre il gioco sono cinque compagnie: la canadese Nexen, i francesi della Total, la norvegese Dno e poi due colossi statunitensi che fanno capo a due grandi amici della famiglia Bush, il californiano Armand Hammer della Oxy e il texano Ray Lee Hunt. Quest’ultimo, assiduo frequentatore della Casa Bianca ai tempi di Bush figlio, ne era diventato anche un consulente per la politica estera. Figurava anche nel consiglio d’amministrazione della Halliburton, tanto cara al vicepresidente Dick Cheney. A fronte di tanto «impegno» nel dopoguerra iracheno ha conquistato la concessione per le enormi riserve di idrocarburi del Kurdistan. È proprio lui ad aver scoperto il petrolio in Yemen nell’84 e tramite la controllata Safer gestisce il giacimento di Marib, con annessa raffineria e porto franco di Aden.

L’affare più grosso però riguarda il gas. Tramite la partecipazione nel consorzio Yemen Lng in tandem con la Total, la Hunt ha costruito un grosso impianto di liquefazione nel porto di Balhaf, terminale ultimo delle pipeline interne. Da lì il gas liquefatto può andare via mare lungo le rotte orientali fino a India e Cina e su quelle occidentali verso i rigassificatori di Europa e America. La prima nave del gas è partita lo scorso 19 novembre. Il luogo è strategico: a Balhaf si potrebbe smistare il gas dell’intera Penisola Arabica, dribblando le grandi pipeline, i loro padroni e i problemi di transito, sempre che il Golfo di Aden fosse «bonificato» dai pirati somali. L’impianto è costato 4,5 miliardi di dollari ma è ancora attivo solo al 23%. Il gas yemenita fa gola. Ha riserve per assicurare 6,7 milioni di tonnellate all’anno per i prossimi vent’anni, 900 milioni di piedi cubi al giorno. Secondo uno studio dell’Università di Cambridge il gas liquido sarà l’affare del secolo dopo il 2020 arrivando a una cifra globale di 460 milioni di tonnellate l’anno. Il signor Hunt pare ci abbia investito in Yemen 8 miliardi di dollari. Ne vorrà 30 o 40 di ritorno.

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11 gennaio 2010

fonte:  http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=93584

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Yemen, una meraviglia islamica da salvare

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Scritto da: Alessio Altichieri


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Qualche anno fa Bernard Lewis, il decano degli islamismi occidentali, fece sensazione con un libro, “What Went Wrong?”, che indicava l’arretramento delle società musulmane, di fronte allo sviluppo dell’Occidente: una disamina così severa da trasformare quella domanda, “che cos’è andato storto?”, in una giustificazione ideologica dell’invasione anglo-americana dell’Iraq. Nell’elenco dei fallimenti c’era di tutto: politica, economia, scienza, istruzione, perfino la forza militare su cui, per secoli, marciò l’espansione musulmana. Prudentemente, Lewis si teneva lontano dall’arte, e soprattutto dall’architettura. Fece bene, perché una mostra in corso a Londra ricorda, se ce ne fosse bisogno, che non tutto “went wrong”. Certo, non c’è da scoprire oggi l’arte islamica, così importante nei bilanci delle case d’aste, né da sottolineare l’importanza dell’architettura, l’arte più riverita nell’Islam, come testimonia l’Aga Khan Award for Architecture, che dal 1977 è cresciuto fino a diventare un premio nobel dell’architettura islamica. Eppure vale come promemoria la mostra londinese sull’architettura dello Yemen, aperta nella sede art deco del Riba, il Royal Institute for British Architecture, che assegna i Riba Awards, ivi compreso l’ambitissimo Stirling Prize, che premia il più bell’edificio dell’anno.

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Infatti ciò che in Yemen non è andato storto è proprio l’architettura, di cui sono prova le straordinarie città fatte di grattacieli che escono dal deserto come Sanaa, la capitale, una “Venezia nella sabbia”, come la definì Alberto Moravia, autore per il Corriere di straordinari reportage di viaggio in Yemen. Ma ora c’è il rischio che quel patrimonio dell’umanità venga abbandonato e trascurato: dovrebbe riguardare anche noi, se fu un altro italiano, Pier Paolo Pasolini, che aveva girato in Yemen le “Mille e una notte”, ad attrarre nei primi anni ’70 l’attenzione del mondo sull’architettura yemenita, tanto che l’Unesco fu indotto a designare città come Sanaa, Shibam e il Wadi Hadramaut patrimonio dell’umanità.

Questa mostra è frutto dell’impegno di una donna fuori dal comune, l’architetto Salma Samar Damluji, nata in Iraq e attiva a Londra, che fin dal 1985 ha viaggiato in Yemen alla ricerca di ispirazioni. Racconta ella stessa di essersi mossa alla ricerca di un “approccio alternativo all’architettura”, ma anche all’urbanistica, studiando queste città che sono rimaste chiuse al mondo, intatte, per secoli. Nel tempo il progetto dev’essere cambiato, se ora l’enfasi riguarda il “ruolo civico” di queste architetture senza paragoni al mondo, e di conseguenza “lo sviluppo, la rigenerazione, il rinnovamento” di queste strutture. Con coraggio personale (una donna che viaggia da sola) e con puntiglio, Samar Damluji ha interrogato costruttori, ha registrato palazzi, ha registrato esterni ed interni di quattro province, Dali, Yafi, Shabwah e Hadramaut, che celano una vita immutata nel tempo.

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Costruite con mattoni di fango essiccato al sole, continuamente aggiornate e rinnovate da costruttori che si tramandano l’arte di padre in figlio, queste case sono ora a rischio: basta pensare, per restare nella penisola arabica, alle isole artificiali e al cemento che cresce negli emirati del Golfo per capire come lo Yemen rischi di diventare trapassato prossimo. Samar Damluji ha quindi fatto un libro, di è gemella la mostra del Riba, con foto e maquettes, su città “che vanno perdute”. Certo, il patrimonio è troppo grande per essere salvato nella sua interezza, ma l’architetto cita Titus Burckhardt, che dedicò la vita allo studio dell’esoterismo, della metafisica e del sufismo, il quale promise: “Combatteremo questa battaglia fino alla sconfitta”.

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(Nelle immagini, dall’alto: casa Bugshan nella città di Khaylah, Wadi Duan, Hadramaut, recentemente restaurata secondo antichi canoni; la torre di casa Dawan, ad Al Qurhah; la città di Al Qurhah, provincia di Hadramaut. La mostra Arabia Felix: the Architecture of Yemen è al Royal Institute of British Architects, 66 Portland Place, London W1B 1AD, telefono 0044 (0)20 7580 5533, www.architecture.com/programmes fino al 19 gennaio 2008. Il libro di Salma Samar Damluji, The Achitecture of Yemen from Yafi’ to Hadramaut, 40 sterline, è pubblicato da Laurence King Publishing)

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01 dicembre 2007

fonte:  http://chelseamia.corriere.it/2007/12/yemen_una_meraviglia_islamica_1.html


Una donna di nome Sibilla. Ricordando la Aleramo a 50 anni dalla scomparsa

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Una donna di nome Sibilla. Ricordando la Aleramo a 50 anni dalla scomparsa

di Roberto Arduini

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«Tu hai letto il mio primo libro, Una Donna. C’è al principio il racconto della mia educazione infantile, del mio dressage mentale. Segue poi l’intera narrazione di quella che io chiamo “mia preistoria”, fino al giorno in cui lascia marito e figlio e cominciai a vivere come Sibilla». È in questa lettera del 12 luglio 1927, poi pubblicata in “Amo quindi sono”, che Sibilla Aleramo fa la più lucida analisi del suo primo romanzo della sua vita, della sua “seconda vita” come scrive, quella di scrittrice e donna. La “prima” era stata segnata dall’oppressione del contesto familiare e sociale, come era cosa comune del resto alla maggior parte delle donne in quel periodo lontano, ma per certi aspetti vicinissimo, che era la fine del XIX° secolo. Con l’inizio del nuovo secolo, le donne del movimento femminista cominciarono prepotentemente a rivendicare i loro diritti. E Sibilla Aleramo fu la prima scrittrice in Italia a far sentire le voci delle donne.

Nel suo primo e, forse, più famoso romanzo, pubblicato nel 1906, Aleramo rappresentò un concentrato di tutti i modi positivi e negativi che lei, nel corso della sua carriera, modulerà in diverse forme, a partire dall’autobiografismo pieno di autoconteplazione. Né diario, né autobiografia, Una donna potrebbe forse definirsi “esercizio di autoanalisi” (Emilio Cecchi nella postfazione ipotizza non a caso l’attenzione postuma dei critici freudiani) in forma letteraria: probabilmente una severa, a tratti spietata, riflessione sul proprio vissuto e su come avrebbe potuto o dovuto essere.

In “Una donna”, infatti, la scrittrice produsse un tipo di scrittura al femminile, sempre attenta ad ogni piccolo sommovimento interiore. La Aleramo seppe trasportare la sua ansia di vita nel quotidiano, costruendo immagini di donne capaci di saggiare il perimetro del carcere delle convenzioni e dei pregiudizi nel quale si trovano rinchiuse. Da questo romanzo emergono anche caratteristiche fondamentali della sua personalità: la sensibilità per le questioni sociali e la forte carica autobiografica.

In questo scritto così come nei successivi, la Aleramo riesce a far emergere la diversità femminile: «Gli uomini ai quali parlo non sanno, quando mi dicono con reale stupore che hanno l’impressione di discorrer con me da pari a pari, non sanno come echeggi penosa in fondo al mio spirito quella pur lusinghiera dichiarazione, a quale insolvibile dramma essa mi richiami». In questa storia, a tratti limpida ed emblematica narrazione di un percorso di coscienza storica e di liberazione personale, si innestano le figure di un padre apparentemente illuminato, libero pensatore, dai caratteri fascinosi e moderni, che delega alla figlia appena adolescente una parte non marginale della direzione della fabbrica e di un marito che si comporta con la moglie, né più né meno di qualsiasi uomo della sua epoca: egoista e cieco di fronte alla sua disperazione e al destino oscuro che l’attende dopo il volontario esilio nella follia. Vi é poi la figura della madre stessa – «E per la prima volta ella mi era apparsa come una malata: una malata cupa che non vuol essere curata, che non vuol dire nemmeno il suo male» – paradigma femminile in disfacimento, senza ombra di riscatto dalla propria debolezza, che trova rifugio nel progressivo oblio della ragione.

Da qui la sua ferma presa di posizione: «Ed ero più che mai persuasa che spetta alla donna di rivendicare se stessa, ch’ella sola può rivelar l’essenza vera della propria psiche, composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche, di dignità umana». Sibilla Aleramo, Una donna (capitolo XXVII)

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12 gennaio 2010

fonte:  http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=93606

CINA – Niente più spose, ecco i single a vita

Oltre 24 milioni di giovani cinesi potrebbero non riuscire a sposarsi per la mancanza di donne

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PECHINO
Una vita da single.
E’ questo il destino che attende i giovani cinesi alle prese con la mancanza di donne. A causa di una politica di controllo delle nascite troppo rigida, ora Pechino si ritrova senza più spose. Nel 2020 più di 24 milioni di giovani cinesi potrebbero non riuscire a sposarsi per la difficoltà di trovare una moglie. Lo rivela uno studio dell’Accademia cinese delle scienze sociali, secondo quanto riporta il sito della Cnn. All’origine di questa previsione c’è l’aggravarsi dello squilibrio demografico tra sessi.
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A partire dagli anni ’80 il crescente numero di aborti di feti femminili ha fatto aumentare la popolazione maschile. Gli uomini, infatti, soprattutto nelle campagne, erano considerati più utili delle donne. Il rapporto tra nascite di maschi e femmine è attualmente di 119 a 100. Il ricercatore Wang Guangzhou ha spiegato che nelle regioni più povere della Cina in molti rischiano di restare single per tutta la vita. «Le possibilità di trovare moglie per gli uomini che avranno più di 40 anni nelle zone rurali saranno minime. Queste persone saranno costrette a fare affidamento sempre più sui servizi sociali», ha spiegato il ricercatore.
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Negli ultimi trent’anni il Partito comunista ha incentivato la politica del “figlio unico” per paura che la Cina non fosse in grado di sfamare tutti i nuovi nati. Alle coppie che vivono in città è stato vietato di avere più di un bambino, mentre a quelle che abitano nelle zone rurali è stato concesso un secondo figlio solo in particolari situazioni. Ma il governo ha già annunciato che non cambierà le sue linee guida. Pechino non archivierà questo modello almeno per i prossimi deici anni. Il minister Zhang Weiqing aveva dichiarato al China Daily, circa due anni fa, che “abbandonare le regole in questo periodo avrebbe provocato seri problemi allo sviluppo sociale ed economico del Paese”. Ai giovani cinesi, rimasti senza una donna da sposare, non resta che trovare soluzioni “alternative”. Ed ecco che, secondo la ricerca, sono in aumento le relazioni intergenerazionale. Così, chi proprio non vorrà rinunciare ad una moglie, potrà volere a nozze con donne molto più vecchie.
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12 gennaio 2010
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